lunedì, dicembre 26, 2011

Il principe del deserto

IL PRINCIPE DEL DESERTO
regia di Jean-Jacques Annaud


Autore di un cinema d'esportazione nel senso più lato del termine per aver ambientato tutti i suoi film lontano dai luoghi natii, Jean-Jacques Annaud si è spesso confrontato con il mistero di civiltà sideralmente lontane sia dal punto di vista antropologico ("La guerra del fuoco", 1981) che culturale ("Sette anni in Tibet",1997).
E pur nell'ambito di queste scelte in cui il contesto realistico è rimasto sempre il paramentro fondamentale delle sue costruzioni cinematografiche, Annaud ha portato le sue storie a cavalcare le praterie di una fantasia esplicata soprattutto nel gusto del racconto tout court, quello capace di trasportare lo spettatore in un altrove dove i punti di riferimento comuni vengono ridisegnati alla luce di nuove forme di linguaggio ("Two Brothers", 2004), e di prospettive ("l'Orso",1988).

Caratteristiche che in parte ritroviamo anche nel suo nuovo film, ambientato nell'Arabia degli inizi del novecento, con il petrolio sul punto di scatenare una nuova corsa all'oro da parte del mondo occidentale, disposto a qualsiasi cosa pur di assicurarsi la disponibilità della nuova ricchezza.

Un punto di non ritorno osteggiato da Amar, sultano di Salmaah, poco incline nei confronti di una ricchezza corruttrice ed estranea alla tradizione del suo popolo, e Nesib (Antonio Banderas), emiro di Hobelka, favorevole ad un' apertura modernista e commerciale. Situati in una specie di terra di mezzo che divide i due emirati, i giacimenti petroliferi diventeranno oggetto di una guerra cruenta e sanguinosa di cui il principe Auda, figlio di Amar, sarà ago della bilancia per la capacità di catalizzare le ragioni di una moltitudine troppo spesso umiliata ed offesa dalle ragioni del potere.

Girato più che altro in esterni, sugli sfondi di un paesaggio desertico che Annaud riesce a restituire in una magnificenza non alterata, "Il principe del deserto" è una produzione figlia di molti padri e per questo complicata dai tentativi di far quadrare i conti. Prodotto da Tarik Ben Ammar, un mecenate del cinema internazionale ma anche dalla Doha Film Insitute, il film pur privilegiando gli aspetti avventurosi e romanzeschi, concentrati soprattutto nella progressione psicologica e nelle azioni del giovane protagonista, inizialmente sottovalutato per il suo carattere mansueto e per la dedizione agli aspetti intellettuali della vita, e poi costretto, anche per l'uccisione del fratello destinato al trono, a diventare arbitro della storia, non può fare a meno di rimarcare le caratteristiche meticcie della sua natura: da una parte volendo esprimere un punto di vista che vuole essere fortemente interno alla cultura di cui sta parlando e che per questo esclude quasi del tutto la presenza e il peso di ciò che è esterno ad essa - i pionieri venuti dall'America restano figure sulle sfondo e senza alcuna voce in capitolo -, dall'altra evocandolo alla maniera delle produzioni che si rivolgono ad un mercato globale, e che per questo hanno bisogno di una riconoscibilità diretta e popolare.

Così, piuttosto che trovare soluzioni autoctone più adatte alla credibilità della storia, il film preferisce affidarsi al glamour poco realista di un cast internazionale che, a parte Tahar Rahim ("Il profeta", 2009) fisiognomicamente adatto alla figura di Auda, prevede tra gli altri Banderas, qui al suo secondo ruolo "orientale" dopo quello da lui interpretato ne "Il 13° guerriero" (1999), e Freida Pinto, ancora una volta nei panni di una donna, la promessa sposa del principe, sottomessa alla volontà maschile.

Un'ambiguità che sembra riversarsi anche sulla figura del protagonista, chiamato soprattutto nella parte centrale, quella in cui il desiderio di riscatto verrà messo a dura prova da una spedizione ai limiti della sopravvivenza, a recitare il ruolo dell'eroe ma che poi, alla luce di una storia di fatto indecisa sulla via da seguire (tradizione o modernità), sembra lasciarsi prendere da una mancanza di carattere che nuoce ad un film bisognoso invece di una figura in grado di fargli prendere definitivamente quota.

Alla fine la sensazione è quella di un prodotto in cui il committente conta più dell'esecutore: Annaud da parte sua ci mette un mestiere che riesce a fare a meno del computer. Il resto è strategia di marketing.

(pubblicata su ondacinema.it)

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