Giapponese, una carriera più che ventennale, ed una personalità
ecclettica, capace di manifestarsi attraverso serie tv, documentari e,
per quanto ci interessa lungometraggi di vario genere ed argomento. Lui è
Hirokazu Koreeda, appena premiato a Cannes con la palma d'oro alla
miglior regia per il film "Like Father, Like Son", e prossimamente nelle
sale italiane ad interrompere un digiuno distributivo che mai come
questa volta sarebbe stato più ingiustificato. Del film in questione
Koreeda non solo è regista ma anche sceneggiatore e montatore. Questo
particolare, unito alla poliedricità complessiva della sua opera
potrebbe far pensare ad una personalità spasmodica ed invasiva, ad
un'esuberanza da animale cinematografico. Può essere. Di certo il cinema
che abbiamo visto in "Like Father, Like Son" è esattamente il
contrario. Koreeda infatti gira con mano delicata, con movimenti
carezzevoli ed attenti. Il suo sguardo è a misura di un'umanità sondata
nei rivoli di emozioni normalmente sottratti alla macchina da
presa, e che invece il regista coglie attraverso una
confidenza crescente con i personaggi. Un cinema che si prende il
tempo necessario, rivalutando l'importanza dei sentimenti, per una volta
sottratti agli artificio dei reality e dei talk show. Per farlo Koreeda utilizza uno stile classico
ed un tono elegiaco e poetico. Il risultato è un paesaggio di anime in
via di definizione, ed un film che sembra provenire da un altra
dimensione.
Like Father, Like Son
di Hirokazu Koreda
con Lily Franky, Yoko Maki, Makiko Ono, Masaharu Fukuyama
Giappone 2013
genere drammatico
durata 120'
Nell'era della comunicazione globale accade sempre
più di rado che si assista a un film senza un bagaglio di conoscenze più
o meno approfondito sull'autore di turno. La purezza dello sguardo è
merce rara, e per questo la presenza di un'opera che permette allo
spettatore contemporaneo di recuperare parte di una genuinità
compromessa dal surplus informativo meriterebbe di essere salutata con
il massimo dei favori. A questa casistica appartiene suo malgrado "Like
Father, Like Son" di Hirokazu Koreeda, regista giapponese e uomo di
cinema a tutto campo, se è vero che in una carriera più che ventennale,
divisa tra lungometraggi, serie tv e documentari di vario genere e
argomento, niente o quasi è giunto dalle nostre parti.
Ad
interrompere il digiuno e a convincere gli esercenti ad una
distribuzione anche italiana, ci voleva la visibilità offerta dalla
vetrina cannense, e il premio alla miglior regia assegnato a Koreeda dal
collega Steven Spielberg nell'edizione del festival appena conclusa.
D'altronde non poteva essere altrimenti, considerato che "Like Father,
Like Son" attraverso la struttura di un racconto incentrato su uno
scambio di bambini, sottratti ai rispettivi genitori al momento della
nascita, e sulle conseguenze che la scoperta del misfatto comporterà
nella vita di due famiglie, mette in scena uno dei temi più cari al
regista americano, quello dell'infanzia, qui trasposta nel rapporto tra
un padre, Ryota, artefice di una vita dedicata al lavoro e al prestigio
sociale, e Keita, figlio gentile e sensibile. Dopo aver appreso la
notizia dello scambio ed aver conosciuto il figlio biologico e la
famiglia che lo ha cresciuto, Ryota dovrà scegliere se ripristinare le
condizioni di partenza, privilegiando la tradizione e i legami di sangue
con il ritorno a casa del figlio naturale, oppure dare corso ai
sentimenti ed all'affetto per Keita, lasciando tutto come prima.
Curiosamente anticipato da altri due film analogamente imperniati sullo stesso argomento ("Il figlio dell'altra" ed "I figli della mezzanotte")
"Like Father, Like Son" se ne distacca sia dal punto di vista dei
significati che di quello della messinscena. Koreeda infatti non sente
la necessità di contestualizzare la vicenda all'interno di un processo
storico e politico ben preciso, come era accaduto nei due film
precedenti, né eventualmente di utilizzare la dialettica interna per
vagheggiare il ritorno a un'esistenza più a misura d'uomo, attraverso il
contrasto tra le due famiglie: quella agiata e benestante di Ryota,
integrata nella modernità produttiva del paese ma compressa dalle
conseguenze di quei ritmi, contrapposta all'altra, quella dei Saiki,
felicemente umile e spudoratamente naif. Certamente è impossibile non
vedere negli sviluppi della narrazione, e nel confronto tra il carattere
chiuso e rigoroso di Ryota, con quello sgangherato ma pieno di slanci
del suo "contraltare", una propensione nei confronti di uno stile di
vita meno formale e più rispettoso delle regole del cuore. Ma ciò che
importa veramente a Koreeda, per una società abituata a far convivere il
vecchio ed il nuovo, non è quello di rimarcare una linea di separazione
tra gli uomini e il mondo, comune a tante storie del nostro cinema,
rafforzando le differenze e l'incomprensione reciproca, bensì
esattamente il contrario. A dircelo è il modo in cui ci restituisce le
sequenze dedicate agli spostamenti che permetteranno alle due famiglie
di conoscersi, con il tragitto coperto dalla macchina di Ryota per
raggiungere il sobborgo dove vivono i Saiki, realizzata in campo lungo e
con un tempo espanso ad enfatizzare l'importanza del momento, e la
consapevolezza di un isolamento, quello di Ryota e della sua famiglia,
chiusa nella torre d'avorio di un appartamento bello ma freddo ("sembra
un hotel" afferma ad un certo punto Ryota riferendosi al lusso del
proprio appartamento) che sta per giungere al termine. E anche l'amena
semplicità da acquarello che riprende la scampagnata al fiume, in cui il
ritrovato contatto con l'ambiente naturale va di pari passo con
l'apertura verso "l'altro", sancita dai volti dei protagonisti sorpresi
ma felici di ritrovarsi a quel punto, immortalati nella foto di gruppo,
che, non a caso, fa bella mostra di sé nella locandina del film.
Ma "Like Father, Like Son" è anche la bravura di un regista capace di far convivere la vicenda collettiva, quella che coinvolge ogni membro della famiglia, con un'altra, più intima e personale che appartiene a Ryota, chiamato a fare i conti con i traumi di un'infanzia solitaria e sofferta, rivissuta nelle vicissitudini dei due bambini, smarriti in una vicenda che rischia, come successe a lui, di allontanarli per sempre da coloro che amano. Koreeda filma in punta di piedi, riuscendo a mantenersi in bilico tra lirismo emotivo e gusto della rappresentazione. Del suo film stupisce la presenza di uno sguardo intimo sulle vite dei personaggi e allo stesso tempo il pudore con cui il regista le ha restituite sullo schermo. Tenero e commovente "Like Father, Like Son" è una pellicola di intensa umanità. E' un gesto di pace e di poesia. Averlo premiato in un'edizione così importante del Festival di Cannes è stata la testimonianza di una corrispondenza a cui anche noi ci sentiamo di partecipare.
Ma "Like Father, Like Son" è anche la bravura di un regista capace di far convivere la vicenda collettiva, quella che coinvolge ogni membro della famiglia, con un'altra, più intima e personale che appartiene a Ryota, chiamato a fare i conti con i traumi di un'infanzia solitaria e sofferta, rivissuta nelle vicissitudini dei due bambini, smarriti in una vicenda che rischia, come successe a lui, di allontanarli per sempre da coloro che amano. Koreeda filma in punta di piedi, riuscendo a mantenersi in bilico tra lirismo emotivo e gusto della rappresentazione. Del suo film stupisce la presenza di uno sguardo intimo sulle vite dei personaggi e allo stesso tempo il pudore con cui il regista le ha restituite sullo schermo. Tenero e commovente "Like Father, Like Son" è una pellicola di intensa umanità. E' un gesto di pace e di poesia. Averlo premiato in un'edizione così importante del Festival di Cannes è stata la testimonianza di una corrispondenza a cui anche noi ci sentiamo di partecipare.
(pubblicata su ondacinema.it)
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