martedì, marzo 31, 2015

HO UCCISO NAPOLEONE

Ho ucciso Napoleone
di Giorgia Farina
con Micaela Ramazzotti, Libero De Rienzo, Elena Sofia Ricci, Thony
Italia, 2015
genere, commedia
durata, 90'

E' cosa nota che il principale difetto della commedia italiana contemporanea consista nell'incapacità di raccontare il paese con il cinismo e la cattiveria che caratterizzava i film di maestri come Pietro Germi, Dino Risi e Mario Monicelli. Aggiungiamo noi che la materia su cui "accanirsi" non mancherebbe di certo e che la crisi in cui versa la nazione meriterebbe più coraggio e meno conformismo. Per questo, con i limiti che poi spiegheremo, accogliamo con piacere l'uscita nelle sale di "Ho ucciso Napoleone" di Giorgia Farina, regista de "Amiche da morire", lungometraggio d'esordio che non senza sorpresa si era imposto come uno dei film italiani più visti della stagione.

A predisporci favorevolmente, sia ben chiaro, non è lo sguardo d'ambiente ne la ricerca di quella verosimiglianza che permetteva ai cineasti del passato di arrivare alla verità dei fatti o per lo meno alla loro interpretazione, bensì il contrario. Infatti, nel raccontare la sua storia e l'umanità che la compone, la Farina adotta una lente deformante che allontana il film da qualunque intento di realismo, collocandolo piuttosto dalle parti di certa commedia nera che in Italia si vede di rado e che, per esempio, nel caso di Pappi Corsicato, uno dei pochi a praticarla (Il volto di un'altra), finisce il più delle volta per non essere capita. In "Ho ucciso Napoleone", sia nel bene che nel male è il personaggio di Anita (Micaela Ramazzotti) a farla da padrone, con la vendetta nei confronti dell'uomo che l'ha messa in cinta e fatta licenziare, utilizzata dalla regista per innescare il giro di vite che coinvolgerà Biago (Libero De Rienzo), timido avvocato segretamente innamorato di lei e per questo disposto ad aiutarla e il gruppo di squinternate amiche, altrettanto sintonizzate sui propositi dell'aggressiva erinni. Ed è proprio il punto di vista di Anita, con le sue ossessioni riconducibili a un trauma infantile e con il suo stile di vita eccentrico e stravagante, a costituire il termometro di una vicenda insieme tragica e bizzarra, che deve la sua credibilità alla fusione dei registri messi in campo (comico, drammatico e surreale) e dei generi utilizzati (la commedia con venature thriller e noir); tutti, nessuno escluso, chiamati a fare da specchio alla schizofrenia caratteriale della fredda e anaffettiva Anita così come al servilismo incondizionato del tenero Biagio. Una coerenza narrativa che la Farina persegue anche sul piano estetico visuale, costruito su analogie cromatiche che vedono il colore rosso ritornare continuamente negli accessori (la vernice che macchia il vestito di Anita e che poi diventa una striatura dei suoi capelli) e nelle saturazioni fotografiche di Maurizio Calvesi, a suggerire in entrambi i casi il dualismo tra eros e thanatos che sottende al sodalizio raccontato dal film. E ancora, dotando la storia di quella connotazione di devianza dalla normalità, percepibile da alcune inquadrature in cui le figure umane e soprattutto Anita, occupano lo spazio in maniera decentrata rispetto al centro della scena, oppure nelle riprese dal basso verso l'alto che enfatizzano la distorsione dell'ego della donna, bisognosa di sovrastare il mondo circostante.
Certo, i punti di contatto - e quindi la ripetitività - con il lavoro precedente sono molti, a cominciare dalla guerra dei sessi collegata a una vendetta tutta al femminile, per continuare con il fatto di utilizzare una trama che si tinge di giallo per rimescolare le carte tra le fila dei buoni e dei cattivi. E anche la sceneggiatura, pur buona quando deve tratteggiare le psicologie e le azioni dei due protagonisti, non riesce a fare il suo dovere nel momento in cui si tratta di salvare dalla macchietta alcuni ruoli comprimari, come quelli interpretati da Iaia Forte e da Thony. Ma dalla sua parte la Farina può vantare il camaleontismo caratteriale di Anita e Biaggio (i bravi Ramazzotti/De Rienzo), due personaggi politicamente scorretti (il titolo del film allude al modo in cui la donna si disfa del pesciolino di cui si doveva prendere cura) che attraversano la storia con una dose di perfidia e di doppiogiochismo raramente rintracciabili nelle nostre produzioni. Sarà forse per questo che "Ho ucciso Napoleone" trova i suoi punti di riferimento nel cinema straniero ancor prima che in quello italiano, con il suo cotè di femmine folli e maschi in depressione imparentati da vicino con la tipologia umana immortalata da un fuoriclasse della settima arte che risponde al nome di Pedro Almodovar.
(pubblicato su ondacinema.it)

domenica, marzo 29, 2015

LETTERE DI UNO SCONOSCIUTO

Lettere di uno sconosciuto
di Zhang Yimou, Gong Li
Cina, 2014
genere, drammatico
durata, 111'

La storia, ambientata durante la rivoluzione culturale cinese - momento storico tutt’altro che privo di contraddizioni e di eccessivi travisamenti ideologici, quindi identificabile come ennesimo fallimento politico/sociale/umano -, si dirama nelle vicende familiari di Lu Yanshi, dissidente contro il regime che viene quindi arrestato ed imprigionato dalle forze governative. Finita la rivoluzione, Lu tornerà dalla moglie che però, in seguito ad un trauma, ricorda tutto ma non riconosce più il proprio marito. A Lu, quindi, non resterà che provare a far riaffiorare i ricordi scavando nel loro passato condiviso.

La memoria - identificabile in ciò che siamo stati quindi, presupponendo che l’esistenza abbia forma dinamica, o che perlomeno dia l’illusione di esserlo, ciò che siamo - se gettata nell’oblio annulla l’essere; concetto, questo, che in “Lettere di uno sconosciuto” viene rafforzato dall’abile parallelismo che collega la perdita di memoria della donna all’ostracismo con cui il governo metteva a tacere - spesso facendoli sparire da ogni documento, eliminandoli di fatto dalla storia e, dunque, rimuovendo ogni possibilità di essere ricordati, annullandoli del tutto - i propri contestatori.

Zhang Yimou, alla sua ventesima regia, mette in scena un’opera intima che spazia senza affanni tra vari generi portandosi avanti delicatamente e setacciando le dimensioni intime dei propri personaggi, dando vita ad un film che, nonostante l’intuizione e l’eleganza con cui viene sviluppato, forse a causa del suo essere un dramma dai toni eccessivamente quieti, sembra far fatica a trovare una forma definitiva.
Antonio Romagnoli

sabato, marzo 28, 2015

"Turner. O dei mugugni premonitori di un genio riluttante" (I)


A lato di un terrapieno, oltre il quale s'indovina la presenza del mare, contadine con tanto di cuffie di merletto ad alette laterali in testa, ciarlano allegre. Sul dosso ricoperto d'erba - in ombra - stagliata sull'orizzonte di un tramonto pervinca, un'arrotondata silhouette aviforme in cilindro e stiffelius sbircia lo spazio aperto, tenendo in una mano quello che potrebbe essere un taccuino e, nell'altra, un ipotetico oggetto per scrivere/disegnare: e' la prima sequenza di "Turner" di Mike Leigh, ed e' già sufficiente a descrivere con ragionevole accuratezza i contorni
di un mondo psicologico, prima ancora che fisico; un mondo intimo di costituzione insofferente e inappagato - sempre, cioè, teso verso qualcosa la cui ricerca (Turner viaggerà, praticamente, tutta la vita) e' allo stesso tempo inderogabile e (forse) inattingibile - nonché, con tempo e metodo, fattosi persuaso di essere stato chiamato ad esprimersi e a danzare sull'orlo variopinto, insidioso e difficilmente decifrabile, del cratere di un vulcano che rimesta al suo interno le fattezze di una nuova era.

Collaboratore della Royal Academy sin dall'adolescenza (poi membro effettivo a partire dagli inizi del XIX secolo),
Joseph Mallord William Turner - per i pochi che possono concederselo, come ci mostra Leigh, "Billy" o "Sig. Billy"; per tutti gli altri, "Sig. Turner" (che del film e' il titolo originale) - precoce esecutore di acquerelli, conoscitore ammirato di artisti come Lorrain, indagatore scrupoloso di argomenti fondanti la Pittura - la Teoria del Colore (Turner studio' e approfondì anche quella di Goethe: "Azzurro, azzurro-rossastro, rosso-bluastro depongono a uno stato d'inquietudine, di tenerezza e nostalgia"); la prospettiva (di cui tenne la cattedra all'Academy dal 1807 al 1837) - comincia a mugugnare le sue perplessità già intorno alla boa dei trent'anni, allorquando s'indirizza con decisione verso un'idea di Pittura che (sempre e comunque ben ancorata al disegno, strumento inesauribile e fondamento di un contatto col mondo il più possibile scevro da mediazioni), al di la' e indipendentemente dai temi trattati e dalle soluzioni formali e tecniche impiegate, pone al centro, ridiscutendola
dai suoi stessi presupposti, la necessita' di una più radicale disciplina della visione, all'interno della quale spazio e, soprattutto, luce - aloni, riverberi, riflessi, chiaroscuri, velature, rifrazioni, penombre, barlumi - ridisegnano il campo (e le possibilità) dell'esperienza sensoriale, al fine di recuperare quello che si potrebbe definire un primitivo incanto - una rivelazione (quindi la meraviglia) - in gran parte precluso da una consuetudine che andava dibattendosi, e da qualche decade ormai, sul piano sociale, fra le angustie di un torpido avvitarsi delle dinamiche tra i ceti e degli atteggiamenti esteriori (l'austero imporsi della lunga "Victorian Age" in Inghilterra segna, nello specifico, da un lato, l'apogeo della potenza imperiale britannica, il periodo di più duratura stabilita' interna e prestigio internazionale di questo paese; dall'altro, il trionfo dell'omolagazione perbenista, del decoro, del ritegno, della continenza, della repressione intellettuale e sessuale, ciascuna sfumatura elevata a norma di condotta individuale) che, a conti fatti, nemmeno l'89 era riuscito a raschiare in profondità e che, il mondo a venire, avrebbe semplicemente reso definitivo una volta per tutte; su quello artistico, fra le estenuazioni dello stile, fin troppo ricco e variegato, e una qual rigidità compositiva, figlia spesso di una ispirazione via via più sterile o, forse, più semplicemente, bisognosa di rifiatare.


Ed e' proprio sulla linea d'attrito di questo progetto in avanzato stato di realizzazione (qui succintamente rievocato), che Leigh isola e abbraccia Turner, uomo oramai adulto, un po' mastoc, tanto taciturno e scostante, quanto concentrato e determinato nel riflettere sulle ragioni pratiche e spirituali di una Pittura (la sua) che da un bel po' ha abbandonato le sedentarietà (e le rendite di posizione - si fa per dire: mano mano che il lavoro si apre ad un respiro più vasto ed inedito, i quadri non vengono più esposti o sono relegati ai corridoi laterali dell'augusto edificio patrocinato dalla stessa Corona, tanto da risolvere il Nostro ad allestire e curare una galleria personale -) dell'Accademia
(la scena in cui Turner irrompe a passi frenetici entro gli austeri saloni della Royal Academy e, ridacchiando e strizzando gli occhi senza posa, bofonchia ai colleghi intenti a rifinire le proprie opere suggerimenti "per infondere un po' di vita" nelle tele, vale quasi da sola l'intero film), e si e' avviata alla scoperta di paesaggi totali ineffabili e vivissimi - "Ancora una marina, sig. Turner ?", lo interrogano o si accodano al coro, sarcasticamente, cattedratici, curiosi, potenziali acquirenti, notabili, sedicenti esperti e perplessi pari (tipo Constable o Stubbs) per i quali il londinese, pur riconosciuto, e' per l'appunto poco più di un pittore-di-marine o un vedutista - in cui profondità, spessori di colore, volumi, vuoti, armoniche discrasie, apparenti crudezze, riviste attraverso un occhio che isola la luce ora come vaporosa, oppiacea impalpabilità, ora come grumo abrasivo, squarcio prepotente o scabrosa evidenza, insistono a collegare le fibre di un organismo/discorso artistico in cui il sovrapporsi caotico di tonalità, tratti pieni o interrotti e poi ripresi, punti di espansione e sospensione rappresa agita, al tempo, la manifestazione più palese della molteplicità di un mondo inteso come metabolismo senziente e in continua metamorfosi
(o, come dice il celebre brano: The sands of time/were eroded by/the river of constant change), e una delle chiavi possibili per accedere alla trama segreta delle cose, a quella bellezza elusiva e insensata che di quel mondo e' l'enigma più bizzarro e inquietante, in modo da arrivare, per una volta, a decorare degnamente la Morte, rubandole, di quel tanto, la scena ("Though lovers be lost love shall not/And Death shall have no dominion" - D.Thomas -): "L'acqua la insegna la sete/La terra - gli Oceani trascorsi -/Lo slancio - l'angoscia -/La pace - la raccontano le battaglie -/L'amore, i tumuli della memoria/Gli uccelli, la neve" - E.Dickinson. Respiro analogo, del resto, che ritma l'avvicinamento a quell'altro mistero che e' il corpo: Turner/Spall, a ridosso della scomparsa del padre William, "barbiere rifinito e creatore di parrucche", oltreché suo personale canvas stretcher - raro esempio (ad eccezione della Sig.ra Sophia Caroline Booth con la quale trascorrerà more uxorio gli anni tardi) di essere umano da William jr. di slancio e senza incertezze amato, a fronte di una famiglia acquisita così invadente come, nella pratica, estranea e di malanimo tollerata - s'intrattiene, secondo una consuetudine che, annota anche Leigh, non esclude nemmeno Hannah,
la damigella/sguattera scrofolosa, con una prostituta poco più che adolescente dai lunghi capelli neri, il viso allungato e gli occhi difficile dire quanto più lontani o inerti e, dopo averla invitata a spogliarsi, ad interrompere il denudamento e ad assumere un certo numero di posizioni, si lascia sopraffare da una disperazione velata di disgusto, nella forma di un urlo lungo, roco, sguaiato, che assomma in se' l'irrimediabile recente perdita e l'avvilimento disarmato per il deperirsi mesto e laido delle cose, tra cui, vittima prediletta, la magia fragile della giovinezza. Respiro, allora, che prende a farsi persino stento, al momento di doversi rassegnare alla tristezza circa la vulnerabilità di quelle - e sono tante - che si rivelano, in fondo, stabilita' illusorie, in soccorso delle quali giunge proprio - rendendone tollerabile lo svanire e, in parte, rallentandolo (come, a pensarci, con lucida perfidia, rimarca anche Kubrick in "Barry Lyndon" - 1975 - al punto di riuscire a mostrare, quasi in fieri, la magnificenza chiusa in se stessa dei rituali dell'ancien regime e il suo sbriciolarsi
minuto-per-minuto alla luce declinante, quella naturale secreta, guarda un po', da certa altra pittura - Gainsborough, Watteau, Hogarth - di una Ragione - il Settecento, l'Illuminismo - che più proclama il suo primato, più si smarrisce nelle spirali cieche di un reale allergico alle spiegazioni e all'ordine, perfettamente evocato, nel suo corrispettivo carnale, dallo splendore imperturbabile della malia transitoria dell'ovale di Marisa Berenson) - il gesto artistico che le ritrae, le mette-in-posa, ossia le vede perire un istante via l'altro (desiderando che ciò accada, ovviamente), consegnandole, così, alla fucina del ricordo, con tutto ciò che di sentimentale e razionale tale processo implica, e preferibilmente in guisa di una coreografica stanchezza o di un distacco finto meditabondo (la sequenza e' chiusa da Leigh a suggello della vera prestazione ormai consumata, con la prostituta che comincia a liberarsi del corpetto).


Siffatto cammino intellettuale che e', insieme, a ben vedere, indagine filosofica e sguardo morale - maturato, ricordiamolo, al di la' delle comode elucubrazioni circa le qualità intrinseche al genio, attraverso un severo magistero interiore ben saldo ad una quotidiana applicazione fatta di innumerevoli taccuini stipati di soggetti (ad esempio, le nuvole) replicati con variazioni minime d'intensità, di angolazione, durante vari momenti del giorno, nonché di peregrinazioni reiterate nei luoghi dove le epifanie decisive
per attingere l'essenza capricciosa dei fenomeni (composto elusivo in foggia di amalgama di luce, scampoli di materia, raziocinio e intuizione) sembrano sempre a portata di mano (la Scozia, la Svizzera, Petworth - Sussex occidentale - il Reno, Dieppe, Rouen, l'Italia, ancora e fino alla fine Petworth) - e che risulta, nel concreto, già tracciato e coerente nella serie di studi ed opere ad acquerello i cui depositi cromatici in stratificazioni latitudinali più o meno rarefatte (germinano e si ibridano, in tali tentativi, l'ocra, il cromo, l'écru, la biacca, il sabbia calcarea, il malva, l'arancio, l'avorio, il rosso, il rosa antico, il blu oltremare, il nero, assortite misture di bruni...)
ma sempre partecipi di una sorta di organizzata, laboriosa entropia vincolata all'evoluzione dei processi naturali di cui la raffigurazione pittorica e' traccia registrata in un isolato intervallo dello spazio e del tempo, arriva ad emettere risonanze la cui ampiezza e' tale da essere udita quantomeno fino a Rothko (e parliamo di quasi un secolo e mezzo dopo), passando per l'Impressionismo, prima, l'Espressionismo astratto e l'Astrattismo vero e proprio, dopo. Lavori nervosamente fluidi, questi,
(l'elenco e', per forza di cose, incompleto), assemblati nell'arco approssimativo di un quarto di secolo, come "Veduta verso est della Giudecca: primo mattino (?)", (1819); "Struttura cromatica", (1819); "Tramonto fra nubi scure", (1826); "Nave in fiamme (?)", (1826-30); "Studio di edifici su un lago o un fiume", (1834); "Navi in mare", (1835-40); "Tramonto", (1840); "Il Rigi all'alba visto da Lucerna", (1841-43); "Alba con mostri marini", (1845), che dialogano fitto con l'eventualità di una stilizzazione definitiva rintracciabile affine, per dire, già in certe intuizioni rembrandtiane - "Hendrickje dormiente", (1645  ca.) - ed estensibile, in ragione della medesima ipotesi, ai celebri untitled numerati di Rothko - fine anni '40/fine anni '60 - e, continuando a muoverci avanti e indietro nei secoli, alle elegantissime strutture sottese alle immagini del mondo fluttuante (1830 ca.),
come ai contorni essenziali di "Miya" per le cinquantatré stazioni di Posta del Tokaido - 1850 ca. -, ambedue di Hiroshige, per arrivare ai disincarnati paesaggi interiori dell'ultimo Morandi, a ribadire, per un verso e in un senso più immediato e suggestivamente aneddotico, la tendenza delle cosiddette fughe in avanti proprie degli itinerari artistici più intransigenti, ad ordire una labile eppure continua tessitura comune a riparo dalle differenze dei contesti storici, sociali e culturali in cui i singoli autori si sono trovati ad operare; per l'altro e appena più in profondità, la persistenza, nel gesto di una Pittura - nel caso, europea, d'oltreoceano e nipponica ma le alternative, gl'incontri possibili, sono molteplici e interessanti, non foss'altro per le riflessioni ad-ampio-raggio che stimolano - di un'intenzione al tempo sensuale e marziale; quanto più ricondotta ai suoi rudimenti costitutivi, tanto più sfuggente: in apparenza esplicita, come pacificata, in realtà ambigua, sottilmente allusiva.

TFK

- parte prima -

venerdì, marzo 27, 2015

L'ULTIMO LUPO

L'ultimo lupo
di JJ Annaud
con Shaofeng Feng, Shawn Dou
Francia, Cina 2014
genere, avventura
durata, 121'


Oramai sembra averci preso gusto Jean Jacques Annaud, regista francese abbonato alla realizzazione di film che fanno dell’escursione geografica il loro principale motivo d'ispirazione. Alla pari de “Il principe del deserto” realizzato in Arabia con fondi locali, anche “L’ultimo lupo” è un film su commissione, nato dalla disponibilità d'investitori stranieri e in particolare cinesi, decisi a portare sullo schermo il best seller della loro letteratura. Apprendiamo infatti che “L’ultimo lupo” è stato il libro cinese più venduto dopo quello “rosso” di Mao Tze-tung. A dispetto del suo penultimo film però la nuova fatica dell’autore francese appare più personale e in linea con i suoi migliori titoli. Innanzitutto perché il paesaggio mongolo e i costumi del film ricordano da vicino un film come “Sette anni in Tibet”, un po’ perché la centralità della fauna animale nell’economia della storia e il rapporto tra uomo e natura rimanda a quella wilderness  che Annaud aveva descritto così bene “La terra del fuoco”, “L’orso” e “Due fratelli”. 
 

Ambientato nella Mongolia interna del 1967 “L’ultimo lupo” descrive due anni di vita di un giovane studente di Pechino che all’inizio della rivoluzione culturale viene inviato dal governo centrale in uno sperduto villaggio per insegnare agli abitanti a leggere e a scrivere. Affascinato da quel mondo il ragazzo decide di allevare un lupo selvatico miracolosamente scampato a una programma di bonifica territoriale che prevede tra l’altro lo sterminio di quella specie. Se la storia si sviluppa come una sorta di iniziazione alle regole delle leggi naturali e al rispetto delle tradizioni, “L’ultimo lupo” diventa progressivamente un inno al rispetto dell’ambiente e delle sue creature ma anche un monito alle conseguenze che comporta . Rappresentata nel film di Annaud dalla sanguinosa vendetta portata a compimento dai lupi nella scena della tempesta di neve. Assecondando la sua vocazione divulgativa il regista utilizza un’epica a tratti enfatica e didascalica. Ma l’altrove rappresentato dalla steppa mongolica e il fascino della sua magnifica fauna costituiscono elementi di incontestabile valore.

giovedì, marzo 26, 2015

LA FAMIGLIA BELIER

La famiglia Belier
di Eric Lartigue
con Karin Viard, Francoise Damiens
genere, commedia
durata,  100'


Il coraggio è certamente una delle caratteristiche più importanti della commedia francese. Le ragioni del primato dipendono in buona parte dalla qualità delle sue storie, costruite su credenze e luoghi comuni destinati ad essere inevitabilmente sconfessati. “La famiglia Bellier” per esempio prende in prestito il tema della disabilità fisica, per raccontare il percorso di formazione di Paula, liceale con il talento per il canto, costretta a sacrificare la propria vocazione per aiutare i genitori e il fratello sordomuti. A questo percorso di formazione, che assomiglia a quello di tanti film dedicati al mondo dei ragazzi, “La famiglia Bellier” aggiunge, pur senza la pretesa di esaurire le problematiche del caso, un sottotesto più impegnato che, in maniera divertita ma non per questo meno puntuale, è in grado di riportare il punto di vista e le problematiche connesse con il mondo dei non udenti.

Come sempre in queste situazioni i rischi erano sostanzialmente due. Il primo era quello di contaminare la “scorrettezza” tipica del genere in questione (come un fiume in piena, i Bellier ne combinano di tutti i colori) con un rispetto eccessivo nei confronti dei personaggi. E poi, di non riuscire a ribaltare in chiave comica il senso del tragico, collegato alla sordità dei protagonisti. Possibilità che, soprattutto nel secondo caso, il regista Erica Lartigue riesce ad evitare: da una parte rafforzando la credibilità dei personaggi, ottenuta attraverso un lungo lavoro di preparazione sugli attori, chiamati a imparare il linguaggio dei segni; dall'altra, destabilizzandola con l'intepretazione sopra le righe di Karin Viard e Francois Damiens, pronti a recitare con un surplus di maschere ed esuberanza fisica. Dal punto di vista cinematografico è invece apprezzabile l'equilibrio di una sceneggiatura che si svilluppa su una trama di segni opposti, destinati a compensarsi tra di loro. Come accade nella complementarità tra silenzio e suono, realizzata accostando la quiete sonora dei comprimari all'eslosioni di musica e di parole della protagonista. Senza essere un capolavoro, "La famiglia Bellier" è un film piacevole e attuale.

mercoledì, marzo 25, 2015

LA TERRA DEI SANTI

La terra dei santi
di Fernando Muraca
con Valeria Solarino, Antonino Bruschetta, Lorenza Indovina
Italia, 2015
genere, drammatico
durata, 89'


Opera prima di Fernando Muraca, la terra dei santi è un film che parla di 'ndrangheta. Ma non si avventura in ambiziose analisi storico-sociali o nella raffigurazione archetipica di un' opposizione manichea e bidimensionale. Protagonista qui è chi spesso rimane ai margini delle cronache e subisce in silenzio: le donne. Tre donne sole, schierate nei diversi lati della barricata. Tre vittime di diverse situazioni e diversi ambienti sociali, che una fotografia cupa ci comunica schiave di un impietoso positivismo, schiave della propria imprescindibile appartenenza a fazioni opposte di una lotta che è scontro sistematico fra due sistemi di vita, e ha i caratteri -sapientemente enfatizzati da una scenografia solennemente magniloquente della scena del rituale iniziatico- di una profonda obbedienza religiosa. Una guerra civile causata dall'arcaica presenza di un'organizzazione che inquadra i propri membri in un sistema di valori alieno, e che coinvolge tutti in diverso grado. Una battaglia che -intuisce un magistrato che ha la fredda compostezza di Valeria Solarino- può essere vinta facendo leva proprio su chi in questo sistema ha tutto da perdere. Se la 'ndrangheta è un esercito, se chi vi entra è prima un soldato che una persona, l'unico modo per combatterla è toglierle manovalanza, togliere la potestà genitoriale alle madri.


Questo è il grande perno del film, l'incontro-scontro fra una donna magistrato e una donna madre -Assunta, una grande Daniela Marra- portatrici di due sistemi antitetici di vita. Una regia curata e minimalista ci accompagna attraverso le vicende che sconvolgono la vita di Assunta, costretta a sposare il fratello del marito morto e madre di un giovane 'ndranghetista, divisa fra i due mondi di Vittoria e della cognata Caterina -Lorenza Indovina in una versione drammatica del proprio ruolo in “Qualunquemente”- moglie di un boss latitante. Una storia profondamente umana che non ambisce a voler essere niente più di una finestra su un mondo poco conosciuto, composta di scene dalla forte carica espressiva, come il parallelo tra la corsa di Caterina -chiusa da un'inquadratura stretta su una stanza scura, metafora del suo ambiente- e quella di Vittoria, lungo piano sequenza della donna che corre pensierosa sulla spiaggia finché non comprende la necessità di superare la propria prospettiva, “immergendosi”-come s'immerge simbolicamente in mare- in quell'ambiente estraneo.
Michelangelo Franchini

martedì, marzo 24, 2015

A PROPOSITO DI: BLACKHAT



La scelta di Michael Mann di affidare la parte del protagonista a Brian Hensworth, oltre a non essere sbagliata dal punto di vista produttivo - tenuto conto dell'appeal commerciale del giovane attore, seguiva una logica interna a tutta la filmografia di un regista che da sempre mette in men at work abituati a conquistarsi il soldo con il protagonismo della loro fisicità. In questo senso dell'interptete australiano rappresentava addirittura l'apoteosi di questa poetica per il fatto di detenere un immaginario costruito soprattutto sull'evidenza di un corpo da body builder.

E' quindi paradossale che in "Blackhat" sia proprio la figura dell'hacker incarnato da Hemsworth a far inceppare il marchingegno messo a punto da Mann, mai come in questo caso diffettoso nel costruire la griglia psicomotoria di un personaggio incapace di sintetizzare il binomio d'avventura e filosofia che contraddistingue bagaglio imprescindibile dei suoi antieroi. Un incidente di percorso che però segnala il momento di un autore in fase di stallo, troppo ancorato al presente hollywoodiano per tentare il salto definitivo all'interno di un flusso filmico in cui per ora solo Malick è stato in grado di nuotare.
nickoftime


La forma sotto la quale si presenta l'ultimo lavoro di Mann - al pari di una contemporaneità sempre più minacciosa e minacciata da sé stessa - tende ad avvolgere/coinvolgere tutte le pedine mosse - o meglio relegate in una stasi che ha il pregio di saper dare l'illusione che qualcosa si sia mossa e ancora si muova - in un'atmosfera irrevocabilmente pessimista che ha il pregio di dare gli imput che danno il via all'azione - da qui le figure del pirata informatico/combattente a mani nude/ultimo amante neo-romantico coincidono/si sovrappongono/non si ostacolano nel muoversi del protagonista all'interno del narrato -. Diramandosi freneticamente al di là del bene e del male, "Blackhat" è un'opera che, tralasciando i giudizi finali, risulta essere inquietante almeno quanto ciò che ci circonda e, nonostante gli sforzi, ancora non si riesce a notare oppure s'intravede appena.
Antonio Romagnoli





Nel gorgo di un continuum in cui il distacco dalle componenti umane (legami/vincoli con i cicli naturali, in primis: il ritmo circadiano, le pause ludiche, i momenti morti, quasi del tutto anche gl'intervalli alimentari e sessuali) si e' già consumato e in maniera in-dolente - ossia, al tempo, come sorta di scivolamento progressivo della consapevolezza e per il consolidarsi di una insensibilità generalizzata - nella forma di una spessa catalessi tanto sfavillante in apparenza, quanto irremovibile nella logica di fondo (caratteristica già sottolineata con acutezza da Marcuse, oltre quarant'anni fa: "Al di sotto della sua ovvia dinamica di superficie, questa società e' un sistema di vita completamente statico, che si tiene in moto da solo con la sua produttività ossessiva"), il cosiddetto reale si e' riconfigurato secondo i ritmi dilatati di una sequenza lisergica a base di stimoli sofisticati e, coerentemente, spersonalizzanti, intorno alla quale il mondo (ciò che ne resta ? La sua allucinazione ? I prodromi di una versione ennesima ?) si rattrappisce a sfondo sempre e solo utilizzato - i manufatti, i luoghi, le stesse idee che, nella prassi, ciò che fanno e' gestirlo - a dire, non più vissuto, sede cioè della possibilità di creazione e condivisione di analogie, racconti, illusioni (il sentimento-del-mondo). Medesimo meccanismo sostanzia il rapporto con il Denaro, metro unico d'interpetazione di ciò che e' fruibile, giustificazione/alibi di qualunque gesto, il godimento del quale non e' più contemplato - la sua accumulazione in vista dell'essere speso e, perché no, sperperato - ma il cui valore si misura a partire dalla di lui più o meno agevole tendenza ad essere spostato o trasformato in altro denaro, in una circolarità così facile, silenziosa, levigatissima, da illudere (per quanto ancora ?) circa l'inesistenza di un risvolto, l'altra faccia, atteggiata come non mai a trappola senza vie d'uscita.

Entro tale mesto disinganno ma con un occhio già a sbirciare oltre, s'incontra la frammentazione di Mann, del suo Cinema - mute panoramiche su un vuoto che non e' più metafora di nulla ma regno stesso dell'esperienza; tregue rabbiose di una passione residuale e sempre mutilata (Laforgue, ma sembra sentire parlare proprio Mann: "Si può ancora amare, ma darsi con tutta l'anima e' una felicita' che non si ritroverà mai più"); minuti febbrili e spossati spesi nell'attesa che si compia ciò la cui inevitabilità (e responsabilità) si perde oramai in un territorio sconosciuto al di la' della definizione di controllo: energie profuse nel (vano) tentativo di contrastarlo comunque... - quel tante volte ricordato romanticismo-fuori-tempo-massimo, che più che una via di fuga, anche cinematografica, e' una indifesa follia, un'insolenza, in "Blackhat" addirittura più avara di parole, più smarrita, disperata (pressoché nessuno si salva in un film di Mann), a ribadire, con insolita coerenza e stilisticamente almeno a partire da "Insider", la deriva/sentiero obbligato parallela, non ancora stabilizzata, al trans-umanismo cronenberghiano, invece già in avanzato stato di mutazione fisico-psichica. Nella cornice/pretesto di uno scenario che ancora si avvale (di cascami, a questo punto, fallimentari) dei generi - avventura, azione, cospirazione globale, et. - Mann declina e amplia la sua antropologia digitale fatta di "corpo allenato, mente lucida" e, alle strette, "bassa tecnologia", sconfessando a colpi di testardaggini inutili (quindi davvero imprevedibili) e solitudini accettate e magari assaporate in due prima di sparire, la parassitosi binaria che sancisce, a mo' di dichiarazione beffarda d'intenti, "Io non so chi sono, cosa faccio, in che paese mi trovo... Assumo del personale per le parti sub-simboliche" (gli slanci, gli affetti). Viene quasi da se', allora, rimanere, ancora, al modo di Hathaway/Hemsworth, per stringere fra le braccia una piccola testa e la sua nuvola di capelli ultra-neri, come per carezzare a lungo e piano sottili dita cinesi.
TFK




lunedì, marzo 23, 2015

PESTE, MORTE, DONNE: "MARAVIGLIOSO BOCCACCIO" TRA CINEMA E LETTERATURA

Il 26 febbraio nelle sale cinematografiche è uscito “Maraviglioso Boccaccio”, il nuovo film dei fratelli Taviani.
Questo non è il primo “esperimento” cinematografico sul grande capolavoro di Boccaccio. Pierpaolo Pasolini, ben quarantaquattro anni fa, aveva deciso di portare sul grande schermo la “Commedia umana”, con un altissimo grado di rielaborazione, tanto da far sembrare il “Decameron” opera sua.
Tuttavia la lettura del libro stavolta è ben diversa, molto più aderente al suo significato e struttura originari e allo stesso tempo più vicina ai nuovi studi critici sull’opera trecentesca.
Pasolini scelse dieci delle cento novelle di Boccaccio; Paolo e Vittorio Taviani hanno scelto di non iniziare con una novella ma con la cosiddetta “cornice”.
Può sembrare una scelta dovuta soltanto alla volontà di rimanere più aderenti al testo boccacciano, ma dietro questa scelta c’è molto di più…La “cornice” permette di comprendere il vero e più profondo significato del film quanto del “Decameron”.


I primi fotogrammi mostrano la Firenze del 1348. Spazio e tempo sono ben determinati nel film come nell’opera letteraria, secondo quell’istanza di realismo che tutti conosciamo appartenere al Boccaccio del “Decameron”. Il film ci fa entrare fin da subito in uno scenario tanto apocalittico quanto realistico e reale (l’ “orrido cominciamento”): una donna sul suo letto di morte è ricoperta dai “bubboni” della peste, i familiari le stanno a distanza per paura del contagio e se ne vanno poco dopo. Questa scena sembra tratta da ciò che un cronista dell’epoca, Marchionne di Coppo Stefani in “Cronaca fiorentina”, racconta: “…moltissimi morirono che non fu chi li vedesse, e molti ne morirono di fame, imperocché come uno si ponea in sul letto malato, quelli di casa sbigottiti gli dicevano: "Io vo per lo medico" e serravano pienamente l’uscio da via e non vi tornavano più.”
Un’altra scena emblematica del film mostra un uomo che segue il cadavere della sua donna fino alle fosse comuni, gettandosi nella fossa con lei. A quel punto coloro che sono incaricati di ricoprire di terra i corpi degli appestati, nonostante vedano che nella fossa c’è un uomo vivo, che piange l’amata, continuano meccanicamente a gettare terra anche su di lui.
E’ chiaro che i Taviani, come Boccaccio, ci vogliono mostrare una società che non è più società in quanto non esiste più il “vivere insieme”; una società senza più regole, sentimenti di altruismo, dominata dalla paura e dalla morte: sentimenti che portano all’egoismo più puro, per istinto di sopravvivenza. Nel film vediamo che la violenza e l’odio sono presenti anche fra i più giovani: dei bambini litigano per accaparrarsi delle mele e finiscono per tirarsi dei sassi.
E’ proprio questo sovvertimento delle leggi naturali e del quotidiano fluire della vita che muove un gruppo di sette donne a maturare l’idea di abbandonare la città di Firenze per trasferirsi nella campagna circostante e di costituire una “microsocietà”, un vivere comune seppur su piccola scala.
Qua sta l’altro punto focale del film e dell’opera boccacciana: le donne.
A loro, nel “Proemio”, l’autore dedica il suo libro, poiché possano vincere la “noia” ascoltando “nuovi ragionamenti”, e forse non è un caso che le prime inquadrature del film ritraggano personaggi femminili: giovani donne morte di peste.

Nel film è molto chiaro quanto siano le donne a prendere le decisioni più importanti, a fare i ragionamenti più profondi, a porsi domande sul Male e su come sia “giusto” rapportarsi con esso. Gli uomini giungono dopo: i tre giovani accettano di fuggire con le loro donne, accettano quel che le donne hanno già deliberato fra loro. E sarà questa decisione a salvarli.
Appena giunti in un casale della campagna fiorentina è sempre una delle donne della “lieta brigata” a pronunciare una frase che nell’economia del film e dell’opera ha un peso notevole: “Se vogliamo stare qui dobbiamo darci delle regole”. Lontano da una Firenze “impazzita”, i giovani sono adesso in mezzo al nulla. Dovranno scandire i tempi della giornata e lo faranno, altra decisione presa dalle fanciulle, raccontandosi delle storie.
La funzione delle “novelle o favole o parabole o istorie”, come dice Boccaccio, o meglio le funzioni, sono un argomento troppo vasto per essere trattato qua, ma quando ho detto che nella cornice risiede la chiave per capire l’ultimo messaggio del testo, mi riferivo proprio a questo: in una società “morta” si può far rinascere dalle ceneri una società nuova grazie a nuove regole, in questo caso alla parola, al raccontare.
La parola è vita (pensiamo alla cornice delle “Mille e una notte”). L’opera sembra così diventare un raccontare del raccontare, un gioco di specchi su più livelli, fino a che i diversi piani della narrazione si confondono. Questo è stato colto magistralmente dai fratelli Taviani, tanto che durante la novella di Tancredi e Ghismunda, la protagonista della novella, interpretata da Kasia Smutniak, finisce per prendere il posto di Fiammetta e racconta lei, accanto alle giovani della brigata, la sua morte.
Nel “Decameron”, come nel film, si capisce che la realtà si crea e si modifica con la parola, che non tutti sono in grado di padroneggiare, ma che “oratores” si è per ingegno personale. Ormai, ci vuol dire Boccaccio, la nuova società che andrà a costituirsi dopo il 1348 non sarà più guidata dai “bellatores” medievali, classe nobiliare per diritto di nascita, ma da individui che emergono per capacità personali, prima fra tutte quella della parola.
La via del raccontare si pone come via mediana, come “aurea mediocritas”, fra due atteggiamenti all’epoca della peste dominanti e contrapposti: quello autolesionista dei ferventi cristiani e quello edonistico. Il piacere è presente all’interno delle giornate trascorse dalla “brigata” in campagna, ma sempre regolato: è uno dei tre giovani nel film a suggerire che il piacere sessuale sia per il momento bandito, per non destare invidie fra i dieci compagni. Tuttavia l’amore è sempre presente, declinato in tutti i suoi aspetti, sia nella “cornice” che nelle novelle. Ed è proprio in una delle novelle raccontate dai fratelli Taviani che il sesso viene presentato nel suo aspetto più terreno, ma non per questo basso. La novella è la seconda della nona giornata: “Una badessa riprende una consorella ma è a sua volta ripresa per il medesimo peccato”. Nonostante la veste comica, forse fin troppo calcata per la recitazione di Paola Cortellesi nel ruolo della badessa, a quest’ultima è affidato un sermone finale, recitato di fronte alle sorelle, che nel libro viene riportato solo indirettamente, ma che i fratelli Taviani hanno creato in forma diretta. Il sermone afferma, di fronte all’evidenza, quello che Boccaccio pensa delle donne, cioè che esse sono creature “naturali” : “conchiudendo venne impossibile essere il potersi agli stimoli della carne difendere”.

E proprio nel segno del raccontare sembra chiudersi la vicenda: i giorni previsti per “novellare” sono finiti. Nel film dei Taviani i giovani sono distesi sul prato e sentono il rumore delle campanelle di un carro che probabilmente stava portando cadaveri di appestati…Nonostante il raccontare sia un’evasione, questa deve avere un termine, e questo è noto a tutta la brigata. I giovani dicono che la bella stagione sta per finire e infatti durante la notte una pioggia torrenziale si abbatte sulla campagna fiorentina. I dieci ragazzi decidono di tornare a Firenze il giorno dopo. E’ questo finale, forse inaspettato, che ci fa capire che il raccontare è un mezzo per migliorarsi, per conoscere la realtà in tutti i suoi aspetti, ma che dopo aver affrontato e portato a termine questo percorso si deve tornare alla realtà quotidiana, anche nel caso in cui questo implichi la morte, una morte in questo caso “lieta” perché avvenuta dopo l’assoluto perfezionamento di se stessi sotto l’egida del realismo.
Flavia Guidi



CHI E' SENZA COLPA

Chi è senza colpa
di Michael R. Roskam
con Tom Hardy, James Gandolfini, Noomi Rapace
Usa, 2014
genere, thriller
durata, 106'

Bob, barista di un locale gestito dalla mafia cecena, normalmente luogo di deposito e passaggio di soldi sporchi, è un tipo solitario ed introverso che tende a non lasciar trapelare nulla di sé.

Tra una sceneggiatura inizialmente indecifrabile e che poi serra il ritmo tenendo incollati allo schermo ed una fotografia abilissima nel ritrarre sfumature e dimensioni di ogni personaggio e dei luoghi all’interno dei quali gli vengono mossi, “The drop” è un noir metropolitano dall’innegabile fascino che ha il grande pregio di districarsi tra personaggi tutti diversi tra loro ma che hanno in comune trascorsi oscuri  che ognuno tenta di lasciarsi alle spalle - in particolare dai toni al contempo malinconici ed inquietanti sono i caratteri interpretati da Tom Hardy (Bob) e James Gandolfini (Marv) - dimentichi però dell’ovvia considerazione secondo la quale il passato che tentano di dimenticare/rimuovere/seppellire è il motivo del proprio esistere nel presente- nello specifico per “presente” s’intende al momento della narrazione -.

Viste le considerazioni appena fatte, che vanno ad unirsi ad un’ottima codifica strutturale che rispetta il genere dal quale attinge e sul quale pone le basi per la propria estetica, “The drop” sarebbe un film perfetto - verrebbe anzi da dire al limite del capolavoro - se non fosse per gli ultimi dieci minuti che, dovendo giudicare il prodotto nella propria interezza, abbassano, e di parecchio, il livello.
Antonio Romagnoli

domenica, marzo 22, 2015

N-CAPACE

N-Capace
di Eleonora Danco
con Eleonora Danco
Italia, 2014
genere, drammatico
durata, 80'
Il vantaggio del cinema è che in un periodo molto concentrato di tempo si accede velocemente ad una conoscenza che impiegheremmo molto di più a fruire con un altro mezzo di espressione.
In questo caso specifico, davanti alla sincera urgenza di raccontare per immagini che Eleonora Danco offre mettendosi - anche letteralmente - a nudo, l’esperienza può diventare catartica: è tutto lì, a portata di anima, e si può arrivare a cogliere qualcosa di noi lungo il percorso condiviso.
Tutto questo è essenzialmente il primo lungometraggio di Eleonora Danco: poetico, commovente, terapeutico, un film che fa onore al TFF perché ne rappresenta pienamente lo spirito, da un’autrice dotata di quella passione, espressa anche disordinatamente, di quel fuoco sacro che ci si aspetta dagli autori esordienti.

E poi, volendo, potremmo dire che si tratta di un film sull’elaborazione del lutto, sul senso di inadeguatezza, la malinconia per chi è assente, la nostalgia dell’infanzia e dei luoghi dell’infanzia, sul tempo che passa e che cambia tutto. Sulla vita che ci chiede il conto, sui promossi e sui bocciati.
Questi sono alcuni dei temi che emergono lungo un viaggio fatto di interviste ad anziani ed adolescenti, dove con sfrontate domande si chiamano tutti a parlare di sè, lungo un percorso in cui Eleonora Danco coinvolge il proprio padre e il ricordo della madre scomparsa, come in una terapia di gruppo, ci ritroviamo testimoni di confessioni intime che aiutano a recuperare tanti pezzi di sè, per scoprire alla fine che il tempo che è passato forse non ha apportato cambiamenti nella sostanza dell'essere umano, e che l’umanità ruota intorno agli stessi principi ed alle stesse necessità, mentre i corpi sono già polvere e tutte le nostre lacrime sono bellissime.
Soprattutto, da spettatori facciamo il tifo affinché quel fuoco continui a bruciare, con l'auspicio che la scena della vasca piena di "gentilini" in cui “Anima in pena” è immersa nuda, possa diventare un cult come il barattolo di Nutella in Bianca.
Parsec



venerdì, marzo 20, 2015

UNA NUOVA AMICA

Una nuova amica
di Francois Ozon
con Romain Duras, Anais Demoustier, Aurore Clement
Francia 2014
genere, melò, thriller
durata, 107'

Tra stereotipi e nuove conferme, il sottile confine delle identità sessuali e le conseguenze che esso comporta sulla stabilità dell’istituzione familiare sono i temi principali di "Una nuova amica", ultima fatica di Francois Ozon, in cui l’elaborazione del lutto per la perdita dell’amica d’infanzia e la condivisione del segreto che in qualche modo la riguarda, sono alla base della storia di desiderio e di passione destinata a sconvolgere le certezze degli inquieti protagonisti.

Trattandosi di un melo' che assume quasi subito le forme di un thriller hitchockiano e che si nutre, seppur con toni meno viscerali, della schizofrenia sentimentale tipica del cinema di Almodovar, risulta difficile addentrarsi nei particolari della trama senza togliere allo spettatore il gusto della sorpresa. Basterà dire che la stravagante abitudine di David, interpretato da Romain Duris, così pubblicizzata in fase promozionale, e' solo uno dei motivi d'interessi del film, che utilizza l'ambiguità sessuale del protagonista, non tanto per capire le ragioni della sua diversità, quanto piuttosto come espediente narrativo (l'intreccio nasce dal tentativo di nasconderla) e in funzione del mondo che descrive, rivelato dai cliché e dalle ipocrisie suscitat dalla presenza dell'indeciso protagonista.

 


Più utile e' invece soffermarsi sulle caratteristiche del film, a partire dalla particolarità della messinscena, che spinge il film dalle parti della fiaba grazie al lavoro di astrazione operato sugli ambienti, carichi di dettagli scenografici, eppure attraversati da una costante di indeterminatezza che impedisce di stabilire coordinate spaziali e temporali e amplifica le caratteristiche di universalità del racconto. Così come rilevare la capacità di Ozon di far parlare gli oggetti, decisivi quando si tratta di far calzare a Claire (Anais Demoustier)un paio di occhiali scuri per segnalare la decisione di nascondere al marito le abitudini di David, oppure, nell'ultima scena, di affidare alla diversa tipologia di scarpe (con e senza tacchi) indossate dai protagonisti, il compito di definire una volta per tutte il loro ruolo all'interno del sodalizio. Particolari invisibili ma determinanti, che sembrano voler giocare con l'occhio dello spettatore. Forse per ricordagli che nulla è come sembra e che in certi casi l'apparenza inganna.

THE DIVERGENT SERIES: INSURGENT

Insurgent
di Robert Schwentke
Shailene Woodley, Theo James, Kate Winslet
Usa,  2015
genere, fantascienza
durata, 119'

 
Arrivata al secondo atto la saga dedicata ai "Divergenti" doveva scegliere da che parte stare. Ci spieghiamo meglio non prima di aver detto che il nuovo appuntamento delle avventure di Tris (Shailene Woodley) e Tobias ci presenta nuovamente la sfida tra i giovanissimi "resistenti" e la perfida Jeanine (Kate Winslet), intenzionata a eliminare coloro che potrebbe  smascherare la sua brama di potere.
Rispetto alla punta precedente "Insurgents" non ha bisogno di adoperarsi in molte spiegazioni avendo già rilevato molto molto della sua cosmogonia e soprattutto il funzionamento che regola il mondo distopico in cui è immaginata. Sarà per questo che il film, dopo un inizio di ampio respiro che ancora coinvolge i rappresentanti delle diverse fazioni di cui si compone quella società, si concentra sul lato più intimo dei due personaggi, esplorato relativamente al complicato rapporto con la figura materna, in entrambi i casi fonte di un dolore che produce tormento. Non mancano le scene di combattimento e i colpi di scena ma soprattutto, nella seconda parte, in film si costruisce una drammaturgia più umana e personale, legata appunto al tessuto emotivo dei due eroi. Ed è proprio questa caratteristica, volta a rafforzare le peculiarità iconografiche attraverso la riconoscibilità del bagaglio emozionale dei caratteri, a segnalare lo scarto con il modello di riferimento, quell' "Hunger Games", nei cui confronti il film di Schwebtke si mantiene in un precario equilibrio di rispetto e insieme di profanazione. Per in momento a vincere più dei significati profondi e' l'avventura e lo spettacolo. Dal punto di vista del botteghino la missione e' sicuramente compiuta.

giovedì, marzo 19, 2015

LA SOLITA COMMEDIA-INFERNO

La solita commedia – Inferno
di   Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli
 con Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli, Tea Falco
Italia, 2015
genere, comico 
durata, 95'


Alla confusione di Minosse, custode dell’Inferno, dovuta al dover catalogare peccati e peccatori odierni - che siano essi hacker, tecno/dipendenti etc. - prova a porvi rimedio l’Altissimo - qui ritratto come accanito fumatore e alcolizzato a tempo pieno - rimandando Dante sulla terra a rielaborare la struttura dei gironi infernali. Sua guida sarà Virgilo, assunto/precario in un supermercato, che s’improvviserà suo malgrado guida del Sommo tra le assurdità della quotidianità dell’Italia di oggi - i bar alle otto del mattino, il traffico all’ora di punta, gli assalti ai supermercati -. 

Questa la trama con cui Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli - noti al pubblico medio, televisivo e non, con lo pseudonimo de “I soliti idioti” - tornano sul grande schermo nelle vesti di registi ed interpreti di gran parte dei personaggi che compongono questa sorta di teatrino dell’assurdo. Partendo dunque da uno spunto che, fosse stato elaborato in tutt’altra maniera, sarebbe anche potuto risultare interessante, la coppia comica non solo non riesce ad amalgamare il tutto in un contesto drammaturgico ben delineato, ma esaspera e rende inefficaci – qualora non pessimi – gli sketch che vanno a comporre - per l’appunto, in maniera del tutto scomposta e scoordinata - l’intera narrazione. Non essendo un film che si presta ad alcun tipo d’analisi perché, è ovvio, secondo principio parmenideo, non si può parlare di ciò che non esiste, “La solita commedia – Inferno” è un prodotto che si riduce a confermare la diagnosi secondo la quale il cancro che affligge il circuito produttivo e distributivo italiano è lungi dall’essere in remissione.
Antonio Romagnoli
 

mercoledì, marzo 18, 2015

LATIN LOVER


Latin Lover
di Cristina Comencini
con Virna Lisi, Valeria Bruni Tedeschi, Angela Finocchiaro
Italia, 2014
genere, commedia
durara, 114'


Dopo il triste "Quando la notte", Cristina Comencini si risveglia dall'insuccesso di critica e torna a cinema con Latin Lover, una commedia corale dal cast internazionale, impreziosita dall'ultima grande interpretazione della splendida Virna Lisi.

‏A dieci anni dalla scomparsa di Saverio Crispo, divo del cinema italiano, —un genio per la critica, un dongiovanni incallito dentro e fuori lo schermo—, le sue due moglie e le molte figlie si ritrovano nella grande casa del paesino pugliese che gli diede i natali per onorarne la memoria.
Il copione era già stato scritto da ciascuna delle donne ma, come in ogni commedia all'italiana che si rispetti, anche in questa l'imprevisto l'avrà da padrone, e, in un guazzabuglio di equivoci, segreti di pulcinella e ricordi polverosi,  quella che doveva essere una boriosa cerimonia formale diverrà teatro di profondi sconvolgimenti e nuove prese di consapevolezza.

‏Le figlie —il cui numero non si capirà mai con certezza— non potrebbero essere più diverse: la primogenita (Angela Finocchiaro) ha una relazione col vecchio montatore del padre (Neri Marcoré), la "parentesi" francese (una sempre più convincente Valeria Bruni Tedeschi), attrice con tre figli da tre diversi padri, la figlia spagnola (Candela Pena),l'unica sposata ma con uno sciupafemmine fedifrago, la piccola svedese (Pihla Viitala),che a malapena il padre lo conobbe ed infine l'americana, l'avvenente "figlia del test del DNA" (Nedeah Miranda, ex voce dei Nouvelle Vague).
‏A fomentare i battibecchi rosa pensano le due madri: l'italiana (Virna Lisi), amore di gioventù che accudì l'ex marito sul letto di morte e la spagnola (Marisa Paredes), che conobbe l'attore ai tempi del western all'italiana.

Riccardo Tozzi ha forse attinto alla sua personale esperienza nel mondo del cinema per tessere le fila di quest'opera corale così complessa e articolata.
‏A dispetto di quello che fin dal titolo potremmo supporre, il vero protagonista del film non è il Latin Lover di professione e non, bensì la messinscena dei "fuori scena": la Comencini punta le luci e da la parola ai personaggi minori, ai non detti, alle piccole cose della vita quotidiana del grande Saverio, così amato, mitizzato e desiderato ma forse mai davvero conosciuto dalle figlie e dalle mogli, abbagliate dalla sua fama più che dalla sua umanità.


Attraverso un linguaggio internazionale, che si dimena fra il tragico meló di Almodovar —di cui viene emulato lo stile anche grazie all'interpretazione di due suoi cari attori, come la feticcia Marisa Paredes e Lluis Homar—, e il grande cinema italiano che ci rese gloria in tutto il mondo, Latin Lover svolge una funzione doppia.
‏Se da un lato infatti omaggia il nostro glorioso passato —lo spettatore si può divertire a riconoscere citazioni di grandi classici della nostra cultura— senza nostalgia, dall'altro vuole scrollarsi di dosso tutte quelle costrizioni che un passato così ingombrante inevitabilmente poggia sul nostro presente.
‏In questo senso il discorso meta-cinematografico si fa metafora dell'emancipazione femminile, tema tanto caro alla Comencini, personaggio pubblico socialmente attivo su questo fronte.
‏Così come la donna deve uscire da uno stato di subalternità e passività che la vede, prima di ogni altra cosa, moglie e figlia "di", allo stesso modo il nostro cinema deve staccarsi dalle proprie origini e avere il coraggio di prendere il volo.

‏Grande plauso deve essere riconosciuto al direttore della fotografia, Italo Petriccione, che ha pazientemente ricreato l'immagine e il colore propria dei film degli anni sessanta e ottanta —in cui si immagina che Saverio abbia preso parte—, ottenendo un risultato davvero straordinario.
Cristina Comencini, figlia di Luigi Comencini e moglie del produttore
Erica Belluzzi
 

martedì, marzo 17, 2015

LATIN LOVER: CONFERENZA STAMPA

Martedì diciassette marzo il cast attoriale e tecnico di Latin Lover, in sala dal prossimo 19 marzo, ha presentato a Milano l'opera.
Erano presenti Marisa Parades (nel film una delle due madri protagoniste), le figlie Angela Finocchiaro, Philadelphia Viitala e Nadeah Miranda, il latin lover Francesco Scianna, Neri Marcorè e Jordi Molla, unico marito della pellicola.
Oltre alla regista Cristina Comencini, per il cast tecnico sono intervenuti la co-sceneggiatrice Giulia Calenda e il direttore della fotografia Italo Petriccione.


Latin Lover manca di un vero e proprio protagonista singolo, ma vanta la presenza di una coralità di individui che costruiscono una trama fitta e complessa. Come è venuta l'idea di realizzare un progetto così strutturato?


Comencini: mordente di questa avventura è sicuramente stata la voglia di raccontare le relazioni che intercorrono tra l'uomo, inteso quale archetipo mitico, e il genere femminile nel ruolo filiale coniugale e parentale in senso lato. Inizialmente non pensavo  che avrei utilizzato come sfondo per questa vicenda il mondo del cinema, poi, in un secondo momento, mi è venuto in mente di mischiare la figura mitica del padre con quella dell'ex amante, in modo condurre parallelamente un discorso sulle relazioni interpersonali e uno sul cinema.
Al progetto iniziale io e Giulia Calenda abbiamo deciso di dar la forma della commedia. A muovere il nostro lavoro è stata l'idea di fare emancipare le molte donne protagoniste del film dall'uomo, rendendo loro possibile il raggiungimento della libertà grazie al cinema.
Alla fine della vicenda infatti ciascuna di esse riesce a trovare se stessa, palesando questa scoperta con gesti più o meno evidenti ed emblematici.
Certo, questo è stato possibile anche grazie al cast straordinario su cui ho potuto contare, che mi ha permesso di poter precisare con ogni attore e attrice il carattere del personaggio, in modo da dipingere così un'umanità che potesse ricreare tutto il cinema europeo. In questo senso molto importante è stato l'apporto del cinema spagnolo (Marisa Parades, Lluis Homar, Jordi Molla).

Il film segue dialoghi serrati e incalzanti. Quanto spazio è stato relegato all'improvvisazione e quanto ci si è attenuti a una sceneggiatura preesistente?


Calenda: dopo la stesura del canovaccio ci siamo attenuti ad una sceneggiatura ben definita —che ci è costata ben nove copie!—  lasciando meno spazio possibile all'improvvisazione, soprattutto per facilitare il lavoro dei molti attori stranieri che hanno preso parte al progetto...Poi, come sempre accade nella commedia, ci sono state aggiunte improvvise o modifiche inaspettate, ma sempre senza mai variare di troppo lo script iniziale.

Latin Lover  si pone come un atto di amore nei confronti di una stagione indimenticabile del cinema italiano. Quale è il rapporto della regista con quel grandissimo momento del nostro passato? 



Comencini: quello che abbiamo voluto omaggiare è il cinema da cui tutti proveniamo, non solo noi italiani. In vari punti dell'opera ci siamo divertiti a lanciare e nascondere citazioni da sottoporre al pubblico, sperando che riuscisse  a indovinare da quali film provenissero. Vorrei che fosse chiaro che non è un film nostalgico. Il nostro scopo è stato piuttosto quello di far capire come siamo stati grandi a fare film, come non abbiamo avuto problemi di alcun tipo a rischiare, realizzando prodotti immensi  ma che al contempo lasciavano molti fuori scena. Ora, Latin Lover cerca di raccontare ciò che spesso il cinema ha dimenticato, bypassato o dato per scontato, tirandolo fuori e donandogli quella grandezza che troppo spesso gli è stata negata.
Molla: ho imparato l'italiano grazie a questi film, che guardavo con i sottotitoli da bambino..penso a  Fellini, Pasolini, Visconti, De Sica e Rossellini. Ho deciso di fare l'attore forse "per colpa" di questa mia passione adolescenziale... Latin Lover è innanzitutto un omaggio. Quando ho accettato la parte non ho detto di si a un personaggio, ma a un'epoca, a un profumo..

Come è stato lavorare con Virna Lisi?
Comencini: sono onorata di poter dire che per me questo è stato solo l'ennesimo film con Virna. Ho sempre proiettato su di lei il personaggio della madre, dandole il ruolo della donna forte dalla volontà granitica di tenere insieme la famiglia, ma che si porta dietro profonde sofferenze. Era così anche ne Il più bel giorno della mia vita, ma qui la cosa aumenta esponenzialmente, come dovrebbe apparire dalle scena dell'ubriacatura.

Si potrebbe dire che protagonista del film è il rapporto fra sorelle?
Comencini: le sorelle sono metafora del rapporto tra donne. Si tratta di ritrovata unità anche dopo gli antagonismi le incomprensioni. Ho voluto ritrarre la complicità nella tragedia e la  vitalità  tipica dei rapporti femminili, forti della capacità di superare difficoltà e aiutarsi reciprocamente anche nei rapporti con l'altro sesso, anziché sfavorirsi o entrare in stupide competizioni.

Il genere di cinematografia che avete omaggiato e al contempo seppellito ha come protagonista indiscusso il sesso maschile. Avete voluto scientemente rivoluzionare tale predominio attoriale maschile nel cinema italiano?


Finocchiaro: mi sono ritrovata molto nel ruolo della sorella che interpretavo, una donna di mezza età che cerca improvvisamente di affrancarsi da un'identità prestabilita e di recidere i legami con un passato che non le appartiene più. E cosa le consente di fare ciò? Il cinema. 
Comencini: quando in un film vi sono molti protagonisti di sesso femminile, ecco che subito c'è chi parla di film al femminile,pellicola rosa... E perché per un film western non si ė mai detto che si tratta di un'opera maschile? Vorrei che Latin Lover aiutasse il nostro cinema a sdoganare queste anguste categorie.

Francesco, sei il protagonista del film, presente fin dal titolo, eppure ti si vede pochissimo durante a pellicola.. Anche quando compari è in flash-back e ti muovo sempre fra ruoli fra loro molto diversi..

Scianna: C'è un detto che recita: purché se ne parli. Si parla sempre di Saverio, il mio personaggio. Mi sono molto divertito, è stata una sfida eccezionale: è difficile riuscire a rendere visibile e credibile un personaggio con così poco spazio scenico. In solo quattro giorni abbiamo girato la mia parte facendo sei scene al giorno. Cristina ha avuto un intuizione geniale: seguirmi con la camera anche nel camerino e al trucco, riuscendo così a rendere un aspetto fondamentale del mio personaggio, ovvero il suo perenne e insaziabile bisogno di luci e visibilità.
Erica Belluzzi

IO SONO MATEUSZ

Io sono Mateusz
di Maciej Pieprzyca
con Dawid Ogrodnik
Polonia, 2013
genere, drammatico
durata, 112
 

Cinema e disabilità fisica costituiscono da sempre un binomio vincente. Prova ne sia il responso dell’ultima edizione degli Oscar in cui sia Eddy Redmaine che Julian Moore sono stati premiati – ultimi di una lunga tradizione- per ruoli cheriguardavano persone colpite da grave e invalidante malattia. In questa sede non è il caso di ricordare quanto conti, in questo tipo di affermazione, la retorica dei sentimenti e la dolorosa empatia che si sprigiona dalle visioni di simili calvari. Esistono però delle eccezioni, come ad esempio quella che riguardò Daniel Day Lewis e il personaggio da lui incarnato ne “Il mio piede sinistro”, anche lui insignito della famosa statuetta ma nonostante tutto, privo dei consueti ricatti psicologici.

“Io sono Tadeusz” di Maciej Pieprzyca, pur lontano da certe asprezze che caratterizzavano il film di Jim Sheridan si piazza a metà del guado. Anche in questo caso si parla di un persona realmente esistita e come nei film appena citati la patologia sofferta da Mateusz e di quelle che non lascia scampo, trattandosi di una forma di che inibisce la maggior parte delle funzioni motorie e linguistiche di chi ne è colpito. 



Il dramma in questo caso deriva dal fatto che mentre il resto del mondo lo crede incapace di intendere e di volere, il nostro ha un cervello che funziona meglio degli altri. Anzi, il film si potrebbe anche leggere come una favola sul senso della normalità che il film capovolge nella misura in cui i comportamenti e il pensiero di Mateusz si dimostrano sempre più saggi e opportuni di quelli delle cosiddette persone “sane” che attraversano la sua vita. Non mancano come al solito momenti di grande coinvolgimento e anche qualche eccesso di glucosio, con sofferti primi piani protagonista e piani sequenza che ne illustrano con dovizia di particolari gli impedimenti fisici. Ma il tutto è quasi sempre stemperato da un epica del quotidiano che trasforma l’esistenza di Mateusz in un’avventura complicata ma insieme ironica e magnifica. Non privo di una messinscena che riesce a nascondere un assoluto controllo della macchina da presa, disposta a tagliare gli altri personaggi pur di privilegiare il punto di vista del personaggio principale “Io sono Mateusz” conferma il buon momento del cinema polacco che dopo “Ida” ci consegna un altro film da non perdere, segnando una prova d’attore, quella di Dawid Ogrodnik, davvero memorabile.

domenica, marzo 15, 2015

BLACKHAT

Blackhat
di Michael Mann
con Chris Hemsworth, Viola Davis, Tang Wei
Usa, 2015
durata, 135' 


Nell'ultimo film dedicato alla serie all'agente 007 (Skyfall) il personaggio di Javier Bardem si rivolgeva a James Bond, ricordandogli che oggigiorno le guerre non si vincono sul campo di battaglia ma sulla tastiera di un computer. Un inserto minimale e in fondo anche contraddittorio rispetto all'estetica di un prodotto che fa dello scontro fisico e dell'azione tout court i suoi cavalli di battaglia. Eppure l'eccezionalità di quelle parole risuona per tutta la storia, riflettendo in modo drammatico il senso di stanchezza dell'eroe tagliato fuori da una realtà che non riesce più a controllare. Con bel altre conseguenze, tale dimensione di incompletezza e di smarrimento ritorna nel nuovo film di Michael Mann, "Blackhat", titolo gergale che rimanda all’utilizzo illecito delle capacità informatiche da parte di Nick Hathaway (il Chris Hemsworth di "Thor" e di "Rush"), hacker reclutato da Cia e Fbi nel tentativo di sgominare l’organizzazione criminale che sfruttando le risorse della rete mette a rischio la sicurezza delle nazioni.

Lo scenario presentato da Mann però, non si ferma alla semplice lotta tra bene e male, pur presente in molte parti del film con la consueta dose di sparatorie  e altre belligeranze, ma si incunea all’interno di un discorso filosofico ed esistenziale, che contiene i motivi che da sempre agitano le storie del regista americano; come lo sono il tema dell’amicizia virile e degli amori impossibili, rappresentati rispettivamente dal legame fraterno tra Nick e Dawai, ufficiale cinese incaricato di collaborare con gli Stati Uniti nella risoluzione del caso, e dal rapporto sentimentale che il protagonista instaura con la bella Taing Wei (Lust: Caution), sorella dell’amico. Ma soprattutto “Blackhat” ripropone una visione del mondo oscura e minacciosa, che nei film di Mann produce da una parte, la struggente elegia di un paradiso perduto e invano ricercato nella sfera delle cose umane (i soldi, gli affetti, il gioco di squadra), dall’altra, un’esplosione di rabbia folle e insensata che si abbatte sui protagonisti con un tasso di mortalità paragonabile a quella di un altro campione di pessimismo cinematografico come William Friedkin.

A differenza di altre volte gli esiti funzionano a fasi alterne: pregevoli quando il film si apre sulla realtà, interrogandola con scene come quella in cui, appena uscito di prigione Nick, alla maniera del John Dillinger di “Nemico Pubblico”, si ferma a guardare lo spazio che gli sta davanti, ricavandone un senso di vuoto esistenziale. Come pure nella pulsione autodistruttiva derivata dall'infinita reiterazione degli scontri a fuoco, come sempre dilatati oltre le regole del genere e sintonizzati sull'adreanalina dei personaggi. Insufficienti quando si tratta di dare coerenza ai contenuti con una forma, che appare didascalica nei dialoghi, quanto inadeguata nella linerita di una progressione narrativa che sconfessa le caratteristiche di irrazionale di cui il film si fa portatore. Superiore alla media dei film in circolazione, "Blackhat" non è il miglior film di Michael Mann.

FINO A QUI TUTTO BENE

Fino a qui tutto bene
di Roan Johnson
con Alessio Vassallo, Paolo Cioni, Silvia D'Amico
Italia, 2014
genere, commedia
durata, 80'




La storia narra degli ultimi giorni di cinque studenti universitari nel loro appartamento a Pisa. Sulle loro vite, ormai tutte sul viale del tramonto che li condurrà verso futuri non proprio luminosi, aleggia inquietante e/o nostalgica la morte dell'ex coinquilino Michele.


Vincitore del premio del pubblico al festival di Roma, "Fino a qui tutto bene", descrive in maniera abbastanza realista - anche se troppo didascalica - la vita degli studenti fuori sede, ed in questo è d'aiuto la sceneggiatura volutamente "bassa" e condita con i vari dialetti rispecchianti le varie provenienze dei personaggi. I pregi del film di Roan Johnson - qui alla prova con la sua opera seconda - però finiscono qui, non essendoci né spazio per un chiaro e coeso sviluppo dei caratteri né una consapevolezza nell'utilizzo dei generi. Ci si trova quindi di fronte ad una narrazione poco coesa e ad una visione pericolosamente in bilico tra il non spiacevole e l'insapore - ad aumentare questa sensazione sono la fotografia, assolutamente poco incisiva, come poco incisiva è la colonna sonora.

Essendo dunque un prodotto che non utilizza al meglio i codici dei generi che vorrebbe approcciare - nello specifico commedia e documentario che non sono né ben coadiuvati, come dicevamo prima, né ben resi nel proprio essere linguaggi isolati -, il più grande difetto di "Fino a qui tutto bene" è il non riuscire a trovare una propria precisa collocazione.
Antonio Romagnoli