martedì, luglio 03, 2018

PAPILLON


Papillon
di Michael Noer
con Steve McQueen,  Dustin Hoffman
USA, Serbia, Polonia
genere, drammatico
durata,  133'


Quando Steve McQueen e Dustin Hoffman decidono di fare Papillon (1973) sono già due star di prima grandezza. McQueen ha appena finito di girare Getaway, cult movie di Sam Peckinpah mentre Hoffman è uno degli attori di riferimento della New Hollywood. Papillon è uno di quei film che piacciono allo stardom americano perché se non bastasse la possibilità di sposare una causa nobile e giusta come quella del disumano trattamento ricevuto dai detenuti della Guiana francese, così come denunciato da Henri Charriere detto Papillon nella memorie scritte all’indomani dell’evasione dalle patrie galere, i ruoli del protagonista e del compagno d’avventura Louis Dega sono di quelli amati dall’Academy, da sempre propensa alle interpretazioni che trasformano e per certi versi umiliano le prerogative del corpo divistico.

Nel film del ’73 così come nel remake diretto dal danese Michael Noer le dure condizioni di prigionia e le terribili vessazioni inferte ai protagonisti dal loro aguzzino prevedevano non solo di girare in una scenografia altrettanto desolata e mortifera come quella – della colonia penale dell’isola del diavolo – dove si sono svolti realmente i fatti raccontati, ma soprattutto di imprimere sul fisico  e sull’anima degli attori i segni di tale sofferenza. Così, dunque, succede anche a Charlie Hunnam/Papillon e Rami Malek/Dega, dimagriti e sofferenti davanti alla macchina sa presa e comunque mai domi rispetto all’idea di fuggire dall’inferno in cui sono stati cacciati.

Rispetto a quello che è stato uno dei capostipiti del genere prison break, la versione di Noer vorrebbe fare della fedeltà al prototipo il suo punto di forza. Proposito, questo, destinato a rivelarsi un’arma a doppio taglio, perché se da una parte l’effetto novità si avvantaggia della verginità cinematografica delle ultime generazioni così non succede per le altre, nelle quali prevale la sensazione di trovarsi di fronte a una copia sbiadita e fin troppo corretta del lungometraggio di Franklin Schaeffer. In effetti, senza il culto che fu di Steve McQueen il Papillon di Hunnam è un eroe poco maledetto e molto muscolare, più votato al cinema d’azione che a quello attraversato da sentimenti sotterranei e da passioni (quella omoerotica di Dega nei confronti dell’amico?) difficili da confessare. Rispetto all’originale lo slittamento verso la spettacolarizzazione del prodotto è evidente anche nelle caratteristiche fotografiche in cui l’iperrealismo dei colori indica la volontà di abdicare a qualsiasi forma di realismo scenico. Sotto questo punto di vista il film di Noer non riesce a competere con i suoi pari mantenendosi al di sotto degli standard richiesti dal mainstream contemporaneo.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

Nessun commento: