Say you've got the answer. Well, I don't agree
You get no answer when you're cornering me
— Coricky —
Provando - e l’operazione implica la sua fatica - a far sparire dalla lavagna della Storia talune improvvide dichiarazioni d’intenti riguardanti la prima giovinezza, buone, chissà, per un manuale di frenologia (tipo, mettiamo, quella ecumenico-motivazionale farcita di panglossismo interessato in forma di slogan coniata da un tizio altrimenti con i piedi ben piantati in terra e lo sguardo fisso ad altezza portafoglio e, nemmeno a dirlo, subito elevata a rango di empito visionario dalle solerti schiere dei camerieri del pensiero unico, ossia stay hungry, stay foolish, datata 2005 e qualunque significato autentico essa abbia al di là dell’ovvia traduzione), cosa resta ? Forse un’altra facezia modello sentenza, stavolta almeno un tanto più stimolante, di volta in volta attribuita a Jameson, a Zizek, a entrambi, in base alla quale è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del Capitalismo. Osservando alternativamente tali due asserzioni, tutto sommato e a rifletterci nemmeno così distanti tra loro - l’una, checché se ne dica e a stringere, permeata di una sibillina sollecitudine di per sé incline all’irregimentazione dell’estro personale entro un ambito senza scampo consumistico-passivo del genere: tu-ragazzo/-a-del-terzo-millennio-esprimi(?)-la-tua-brama-di-futuro-dotandoti-di-uno-dei-tanti-aggeggi-digitali-da-noi-forniti-grazie-ai-numerosi-punti-vendita-di-cui-abbiamo-disseminato-il-globo; l’altra pervasa, in maniera più capziosamente speciosa, vista la sua apparenza quasi svagata di iperbole ironica screziata, al tempo, di un autoritarismo omeopatico come di una obliqua voluttà sepolcrale, da una sorta di placida rassegnazione nei confronti della quale l’atteggiamento da tenere sembra essere quello della sottomissione irriflessa a un destino tanto inesorabile quanto oramai, di fondo, incomprensibile - si può comunque provare a chiedersi, e il Cinema torna utile in veste di termometro degli umori di un mondo davvero fatto (e qui prevale l’accezione provocatoria del termine) di immagini, nonostante l’avanzato inveramento delle conseguenze generate dalle suddette affermazioni di continuo utilizzate a mo’ di carta di identità di un’epoca (in realtà a loro volta specchi ed echi di innumerevoli altri imperativi, poltiglie ideologiche pronte a incastrarsi tra i denti, molteplici con ogni probabilità nelle fogge ma analoghe assai nelle riflessioni, negli atti - e nelle carie - che mirano a produrre), se, quanto e in che modo le nuove generazioni sono tuttora da considerarsi artefici di un itinerario fisico e psicologico consapevolmente autonomo e critico, quindi verosimilmente irreconciliato e antagonista (e sembra di sentire la Dickinson, presunta tremebonda e virginale: Conformati - sarai sano di mente -/Obietta - sarai pazzo da legare - /immediatamente pericoloso e presto incatenato. O una delle protagoniste di “The wilds”: “Essere un adolescente nell’America di tutti i giorni… quello era il vero inferno”. Come, in linea: “Il mondo è un posto pericoloso per una ragazza sessualmente evoluta” e “Mio padre mi guardava come se fossi radioattiva”), sia nella declinazione individuale che in una prospettiva collettiva o, al contrario, devono accontentarsi del ruolo di comparse all’interno di un copione al punto collaudato da non necessitare di improvvisazioni interpretative.
Diciamolo chiaro: allo stato attuale dell’arte - e in particolar modo dopo il demoralizzante esito patito, in relazione all’epidemia mondiale che (inizio 2021) ancora stiamo attraversando, dai vari proclami palingenetici inneggianti a un ottimistico nulla sarà come prima con usuale prontezza cavalcati dal Capitalismo per aumentare ancora di più, se possibile, la pressione di quella stretta che inchioda nell’agonia protratta del cosiddetto eterno presente le sorti degli individui di pressoché tutto il pianeta - è velleitario confidare a breve in un cambiamento effettivo dei rapporti di forza tra chi gestisce (pochi, pochissimi e più o meno i soliti: i famigerati 2000 anni al potere sempre le stesse 2000 persone a suo tempo trasformati in note febbrili dagli Elettrojoyce non fanno cioè che tornarci addosso, ancora e daccapo, cristallini e impietosi come quando furono concepiti) e chi esegue (la quasi totale rimanenza degli altri). Da questo punto di vista è allora opportuno e leale recuperare la provocazione di Jameson/Zizek almeno per ammettere che essa non stride con lo scenario prevalente contemporaneo ma sembra per taluni versi ipostatizzarlo, a rimorchio di una puntuale e vetriolica precisione, in una istantanea da compiaciuto miracolo negativo, lasciando adombrare tra gli anfratti concavi e i chiaroscuri addirittura l’ipotesi di un compimento fatale, perverso e chissà quanto involontario della fame folle evocata dall’ambiguo tormentone aziendale di Jobs. Si noti, poi, per tristo soprammercato e insistendo con la franchezza, come anche in un contesto così complicato, quale appunto l’attuale, il Capitalismo abbia più che mai ribadito la propria già notevolissima capacità di triturare, metabolizzare e omologare (quando non sic et simpliciter evacuare) nel prolasso della duttilità qualunque istanza orientata a limitarne (o a ridiscuterne) l’inerzia espansiva, derubricando di concerto, lentamente ma implacabilmente, sempre su questa linea ma allargando la valutazione ai campi che attengono l’espressione umana - la letteratura, la musica, la politica, il Cinema, chiaramente, et. - concetti (e prassi) come alternativo, indipendente e financo sovversivo a meri materiali di risulta del suo inesausto meccanismo di accumulazione/distruzione.
Quindi, una breve e ahinoi parziale ricognizione (dal momento che la predetta sarà costretta a declinare la tentazione di indagare, ed è solo un esempio, il vasto e poco esplorato oceano della malattia mentale tra i giovanissimi - disturbi del linguaggio e difficoltà di apprendimento, depressione, eccessiva capricciosità umorale, aggressività, anedonia, et. - di sicuro meritevole di una trattazione) che abbia l’intento di mettere in evidenza opere centrate su quella galassia per definizione instabile che è l’adolescenza, non potrà esimersi dal collocare le medesime dentro un ambiente comune - uno spazio oggi come oggi variegato e allettante, cullato dall’onda lunghissima e a tutta prima inesauribile dell’intrattenimento di massa, all’interno delle sue circonvoluzioni, però, spesso desolato e ostile, avviluppato nella narcosi (per il momento) affabile degli stimoli ripetitivi e dei surrogati tecnologici di esperienze - caratterizzato da un’atmosfera pregna di quella che potremmo definire apatia afflitta. Per tale ragione i lavori presi in considerazione appartengono a percorsi e a generi diversi, a produzioni di piccole e medie pretese, la cui specificità del contenuto sarà comunque da mettere in relazione/frizione con il sopraddetto clima che ne pervade magari solo sotterraneamente il progressivo svelarsi ma che, via via, è destinato a rimodellarne la fisionomia.
Rappresentazione prima di questo panorama può considerarsi il dramma “1/1” di Jeremy Philips, del 2018, ambientato nella desolazione gelida di un angolo di Pennsylvania in contrasto col quale la giovane Lissa/L.Shaw, emarginata per collocazione geografica e sociale, tossica per noia e sfinimento, con ogni probabilità incinta, non fa che rivivere il calvario del suo presente atroce e del presumibile identico futuro, in un accavallarsi di detriti mnemonici e fantasmatici a volte incoerenti, sempre dolorosi, trasportati da un passato reso indicibile dal suicidio del padre, mentre la contingenza pressante dell’attimo si nutre della sussistenza sospesa legata a un esame clinico che ne stabilirà o meno, come accennato, la maternità. In un paesaggio umano ed esperienziale affine ma con implicazioni emotive discordi si agita il microcosmo conflittuale e furioso di Lou/M.Kurimsky, in “Firecrackers” di Jasmin Mozzafari, anch’esso del 2018, in relazione al quale la fatalistica rassegnazione al degrado e alla passività non fa invece che saturare fino alla deflagrazione lo sforzo - pure scomposto e non privo di ricadute drammatiche - di seppellire in via definitiva lo squallore di una ripetitività senza scampo e concedere all’ipotesi di una vita nuova altrove - incognite incluse ma per una volta benedette - uno spiraglio praticabile. Di tutt’altro e più ammaliante tenore il tentativo di emancipazione del proprio itinerario soggettivo da ciò che oramai è ridotto fondamentalmente a un incubo di solitudine e disperazione urbana (o provinciale) operato da esperimenti dal piglio astratto come “Wild tigers I have known” dell’esordiente Cam Archer (2006) e “Butter on the latch” di Josephine Decker (2013), all’interno dei quali e con sfumature differenti (nel primo, sono l’identità sessuale in trasformazione di un tredicenne, il suo rapporto con i coetanei e con la madre ad essere esplorati in una dimensione di lisergica apertura, di incantata e ingenua fiducia mista a sconcerto e aspettazione; nell’altro, è l’avventura immaginata/sognata/vissuta da due ragazze in una tregua dilatata dello spazio e del tempo a orientare, al fine di una loro futura composizione, sia i confini dei rapporti interpersonali che il ruolo giocato dall’elemento naturale nella modificazione degli stati d’animo, e ad assecondare da un punto di vista eccentrico e fluido l’insorgere della passione e il retaggio mai pacificato che essa porta con sé) il gesto semantico è quello finalizzato a opporre all’allucinazione monotona della realtà, ostaggio della trivialità dell’ordinario, quella febbrile e cangiante del desiderio. Su un binario parallelo, impreziosito dalla magia stupefatta del mondo e dal piacere peculiare delle prime volte, come dall’afflizione cocente di similari precoci delusioni, si muove poi “We the animals”, di Jeremiah Zagar (2018), a mo’ di canto aurorale di una leggendaria età brada - quella pre/post-puberale - alla cui incoercibile insofferenza corre in soccorso anche la leggerezza dispettosa dell’animazione.
Il passo delle narrazioni torna a ripiegarsi su sé stesso e ad assumere di nuovo le fattezze di una sfibrante corsa all’autodistruzione o, quanto meno, di uno stallo esistenziale originato da una sequela pressoché ininterrotta di vicolo ciechi, di scomposte psicosi e mal introiettate sollecitazioni, ognuna delle quali scambiata per via d’uscita, in “Super dark times”, di Kevin Phillips (2017) e in “Dark night”, di Tim Sutton (2016), quest’ultimo vagamente ispirato al massacro consumatosi (2012) presso una multisala di Aurora (Co) durante una delle prime proiezioni di “Il cavaliere oscuro - Il ritorno" - di Nolan. Quanto infatti nel film di Phillips la nevrosi e il perenne senso di inadeguatezza a oggi somatizzati dai ragazzi in-età-difficile si coagulano attorno a una serie di circostanze delittuose (dark) che, allo stesso tempo, sfuggono di mano e per altri versi ne indirizzano vieppiù l’agire fino alla rottura di equilibri che una consuetudine appartata (qui, quella di un piccolo centro) faceva ritenere acquisiti, nel lungometraggio stranito ed esausto di Sutton, opportunamente coagulati e compressi, conducono senza mediazioni percorribili alla voragine di una follia (dark) talmente insensata e spietata da non avere bisogno di essere messa in scena in modo plateale per diffondere tutte le sue distruttive risonanze. Di contro e attraverso percorsi psicologici meno eclatanti ma di dirimente impatto sui destini dei rispettivi titolari, si svolgono le vicende di Jack/C.Plummer e Stevie/S.Suljic, entrambi alle prese con itinerari di formazione resi più accidentati dalla prematura spinta all’emancipazione nei riguardi di un quotidiano già avvertito come sterile di stimoli e insoddisfacente affettivamente, da un lato, e segnato dall’indifferente assenza - o insipiente presenza - della figura adulta, dall’altro, raccontate in due esordi datati 2015 e 2018, a dire “King Jack” di Felix Thompson e “Mid90s” dell’attore Jonah Hill. Tanto per il quindicenne Jack quanto per il tredicenne Stevie, appunto, sebbene entro cornici lontane per abitudini e mentalità (la relativa calma di una cittadina per il primo, i brulicanti quartieri periferici di Los Angeles per il secondo), il bandolo delle singole esistenze si avvolge intorno alla ricerca solitaria e non di rado amara - Jack, tipo tranquillo ma per indole non disposto a subire soprusi, si scontra a più riprese con un gruppo di bulli della scuola locale coinvolgendo nelle sue peripezie non esenti da risvolti picareschi un più giovane cugino affidato alla sua tutela per un intero fine settimana; Stevie, scontroso e inquieto di suo, cerca in un gruppo di skaters quell’affiatamento istintivo e la spontanea solidarietà tra eguali che la famiglia naturale, malamente e con stanca discontinuità, cerca di reprimere nell’osservanza di vaghi stereotipi educativi - di una matrice identitaria solida, credibile e distintiva. D’altro canto, è persino attraverso toni quasi favolistici che ci viene restituita la singolare utopia partorita dalla mente di un ragazzo garbato ma di fondo smanioso come il Joe/N.Robinson di “The kings of summer” (2013), opera prima di Jordan Vogt-Roberts. In questo specifico, il paesaggio americano, selvaggio, insidioso ma sempre promettente arriva a sostenere - per mera prossimità biologica, verrebbe da dire - il sogno ingenuo ma vitale di un giovane uomo convinto di poter aggirare i cinici automatismi di una società libertaria nei proclami ma in alcune sue pieghe nemmeno così recondite brutale e intollerante, in virtù della costituzione di un minuscolo reame a parte nel cuore di un ritaglio di Natura incontaminata dove vivere secondo regole proprie.
Risulta chiaro quindi, e per quanto sommariamente tratteggiato, come tanto l’amo commerciale lanciato più o meno un quindicennio fa da un industriale scaltro, quanto il sarcastico de profundis pronunciato da due studiosi di vaglia, col tempo e almeno per un certo tipo di adolescenti - scettici, avveduti, sensibili e perspicaci - siano sempre più destinati a scontrarsi con quella che il compianto Mark Fisher chiamava impotenza riflessiva, ovvero quella condizione psicologica per cui i giovani sanno che la situazione è brutta ma sanno ancora di più che non possono farci niente. Solo che questa consapevolezza, questa riflessività, non è l’osservazione passiva di uno stato delle cose già in atto: è una profezia che si autoavvera. Una profezia che ancora sembra metterci in guardia circa l’eventualità per cui l’unico serio compito rimastoci come persone/comunità/Cultura sia davvero quello di salvare noi da noi stessi, smettendo di essere, prima che sia troppo tardi e come registra sconcertata la Jules/H.Schafer di “Euphoria”, “innamorati della delusione”.
TFK
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