Drive my car
di Ryūsuke Hamaguchi
con Hidetoshi Nishijima, Tôko
Miura, Masaki Okada
Giappone, 2021
genere: drammatico
durata: 179’
Una vera e propria perla
cinematografica quella di “Drive my car”, film diretto dal giapponese Ryūsuke
Hamaguchi e da molti definito, a ragione, come il film dell’anno.
Tre ore di completa e
totale immersione in un altro mondo. “Drive my car” riesce nell’impresa che la
settima arte si è da sempre prefissata e continua a prefissarsi: far evadere lo
spettatore dalla realtà che lo circonda per la durata della proiezione.
Caratterizzato da un silenzio quasi assordante che percorre l’intera storia,
sia nel “prologo” che nel presente, il film di Hamaguchi ha tutte le carte in
regola per rimanere impresso nella mente degli appassionati (e non solo) per
molto tempo. Al centro della storia c’è Yusuke, regista teatrale che, a seguito
di importanti perdite che segnano inevitabilmente la sua vita, decide di
recarsi a Hiroshima per mettere in scena lo “Zio Vanja”. Qui entrerà in
contatto con una giovane e silenziosa autista che avrà il compito, tutt’altro
che semplice di accompagnarlo sia fisicamente che metaforicamente tra le strade
di Hiroshima e tra i ricordi, compresi quelli più “bui”. Analizzare un film del
genere è tutt’altro che semplice.
A colpire, oltre al
continuo silenzio delle scene, dei personaggi e del protagonista, spesso
“solitario”, è anche l’ambientazione che si collega proprio a questo e a una
sensazione di solitudine che deve portare e porta a una profonda riflessione.
I paesaggi sembrano
spenti, privi di “accessori in più”, quasi anonimi, come se volessero, in
qualche modo, omologarsi al protagonista stesso del quale, invece, l’unico
elemento a emergere è la macchina rossa, coprotagonista a tutti gli effetti
della narrazione e dell’evoluzione stessa di Yusuke. La macchina è l’unico
luogo in cui lui si apre veramente mostrandosi per quello che è senza veli o
maschere. È grazie alla macchina che riesce ad accettare e superare paure per
lui insormontabili. Ed è in macchina che entra in relazione con la giovane e
riservata autista. Attraverso il mezzo i due si conoscono e instaurano una
sorta di “relazione” che permetterà loro di conoscersi a vicenda e di conoscere
se stessi.
Emblematico è poi il
ricorso continuo al bianco. Da una parte simbolo che tutto quello che circonda
i personaggi è “anonimo” e che si annulla praticamente con il colore più neutro
per eccellenza; dall’altra simbolo di candore, a sottolineare lo stile di vita
che conduce il protagonista a seguito delle importanti perdite della sua vita.
In netta contrapposizione soprattutto con la lunga sequenza iniziale che sembra
orientare lo spettatore in una direzione, ma che invece rompe, in qualche modo
gli schemi, portandolo da tutt’altra parte. Ed è una sequenza nera, scura, cupa
che nasconde i personaggi, perennemente in ombra.
Tornando al discorso
relativo al silenzio, è necessario sottolineare quanto, però, in realtà questo
specifico silenzio sia un modo che ha lo stesso Ryūsuke Hamaguchi per parlare e
per far parlare. E poi si avvale, in maniera astuta, del testo teatrale. In realtà
fa parlare i personaggi dell’opera e le battute dello “Zio Vanja” vengono
utilizzate per comunicare più di quanto sembri.
Un film dentro il film,
dove la recitazione e la preparazione di un’opera teatrale rappresentano,
invece, una buona parte della sceneggiatura e vengono utilizzate per
“affermarsi”. La recitazione non è solo quella degli attori interpreti dei
personaggi del film, ma c’è un’ulteriore recitazione, quella dei personaggi che
ne interpretano altri a loro volta.
E il verbo recitare va di
pari passo con altri tre: parlare, ascoltare e guidare. Che sono i verbi che lo
spettatore deve seguire per guardare e gustarsi al meglio questo film.
Veronica Ranocchi