Vincitrice del David di
Donatello 2023 come migliore attrice protagonista con Settembre Barbara Ronchi
bissa il risultato con il Nastro d’Argento vinto per il ruolo di Marianna
Mortara in Rapito. Partendo dal lavoro di Rapito con Marco Bellocchio la conversazione
con Barbara Ronchi è stata l’occasione per esplorare il suo universo d’attrice.
Barbara Ronchi sarà
madrina del Pigneto Film Festival che a partire dal 18 fino al 24 giugno
accoglierà gli appassionati in cinque diverse location del quartiere del
Pigneto di Roma.
Da una parte la vittoria del David di Donatello, dall’altra
l’opportunità di dimostrare un eclettismo che ti permette di essere credibile
in due film così diversi tra loro come Settembre e Rapito.
Innanzitutto ti ringrazio. È stato
bello nello stesso anno poter interpretare il ruolo di Francesca nell’opera prima
di Giulia Steigerwalt e il ruolo di Marianna
in Rapito di Marco Bellocchio. Non c’era niente di programmato,
ma questi due ruoli così agli antipodi in due film così importanti sicuramente
raccontano tanto di quello che mi piacerebbe fare come attrice: riuscire a
spaziare dai toni della commedia a quelli del dramma, se si riesce a farlo
nello stesso film sono ancora più felice.
Ciò detto la vittoria del David
di Donatello e l’uscita del film di Marco Bellocchio certificano un talento
capace di esprimersi con toni e in generi diversi.
Diciamo che mi piace mettermi al
servizio di una storia e dunque del regista con cui sto girando. Il mio tono
cambia anche a seconda di chi mi dirige. Penso sia molto bello per un attore
avere la possibilità di portare sullo schermo una versione sempre differente di
sé.
Come in Fai bei sogni anche Rapito ti
vede ancora una volta nel ruolo di madre con un personaggio di segno opposto
rispetto al film del 2016. Se allora era stato il tuo personaggio a venir meno,
in qualche modo, al rapporto con il figlio, in Rapito succede
l’esatto contrario.
In Fai bei
sogni ero una madre che viveva nei ricordi del bambino. Ero
una ragazza, leggera, divertente di cui il figlio ogni tanto intravedeva
momenti di tristezza. In generale quel personaggio rimandava a un momento molto
leggero e felice della sua vita quindi la sua era una figura anche idealizzata.
Al contrario in Rapito la
madre è assolutamente terrena. Marianna Mortara vive
in prima persona tutto quello che le sta capitando. La tragedia della sua
famiglia l’assume completamente su di sé, diventando una madre ferina,
arrabbiata per il fatto di averle tolto la cosa più importante della sua vita.
Di fronte a un destino tanto iniquo lei risponde con altrettanta dignità.
Incontrare Marco in due momenti così diversi della mia vita è stato molto
importante come attrice. All’epoca di Fai bei sogni ero
una ragazza appena uscita dall’Accademia che ha avuto la fortuna di
intraprendere un’educazione sentimentale al cinema con un grande maestro come
lui. Incontrarlo oggi, significa farlo con un altro tipo di maturità artistica
e umana, quella più adatta a interpretare il ruolo di Marianna.
Bellocchio è uno di quei registi a cui il passare del tempo non
toglie la voglia di sperimentare, tant’è che oggi il suo cinema è una perfetta
sintesi tra colto e popolare. Come lo hai ritrovato ad anni di distanza dalla
tua prima volta?
Il Marco Bellocchio che ho conosciuto io è un
regista che ama così tanto gli attori da dirti le cose all’orecchio perché non
vuole farti perdere la concentrazione con le sue indicazioni. Prima ci sono gli
attori, poi tutto il resto. Lui sa che siamo anime fragili e che stiamo
forzando il nostro cuore. In questo la sua attenzione verso gli attori non è
mai cambiata, anzi è aumentata.
L’ultimo cinema di Bellocchio
predilige attori di provenienza teatrale, nella ricerca di una presenza scenica
che sia evocativa anche dal punto di vista delle interpretazioni. Ne avevo già
parlato con Fausto Russo Alesi per cui mi interessa sapere anche la tua idea.
Bellocchio dà molta importanza alla
parola oltre che all’immagine: anche al tempo che uno si prende per
immagazzinarla, per dirla a qualcuno. Mi ha molto colpito quando, durante il
tour di presentazione di Rapito, ha
detto che lavorare con persone con cui aveva già collaborato l’ha fatto sentire
al sicuro. Per lui era come se fossimo una compagnia teatrale, ovvero una
comunità di persone che aveva lo stesso codice. Io, per esempio, la prima volta
che ho recitato con Fausto Russo Alesi ho avuto l’impressione che lo avessi
fatto da non so quante tournée. Avevamo lo stesso modo di rapportarci al testo,
molte esperienze in comune. È stato lo stesso anche per l’ascolto che avevamo
l’uno per l’altro. Guardando Rapito sembra
che abbiamo girato tutti insieme mentre in realtà tanti di noi non si sono mai
incontrati. Nonostante questo la cifra del film rimane la stessa. Marco lavora
con gli attori in maniera delicata, ma tale da farci arrivare sul set ognuno
con una proposta ben precisa. La magia è stata di accordarla con quella degli
altri e grazie ai suoi occhi siamo riusciti a leggere il film nello stesso
modo.
Guardando Rapito – ma lo stesso vale per Settembre –
si capisce come sia stato importante l’ascolto reciproco tra te e i tuoi
partner. Quanto conta avere accanto colleghi bravi e generosi come Russo Alesi
e Thony?
Per me recitare è qualcosa che si fa insieme. È
impossibile farlo da soli. È sempre un rapporto che si va formando. L’attore
migliore con cui posso recitare è quello che ascolta, che pensa più al compagno
di scena che a se stesso. Solo così si può generare una risposta sincera a una
domanda sincera. Quando Thony si rivolgeva a me era come se volesse trapassarmi
alla ricerca ogni volta di qualcosa di più autentico. Fin da subito tra di noi
c’è stata l’intesa di chiederci qualcosa che andava oltre le parole e questo lo
percepisci solo se ti metti davvero in ascolto di quello che l’altro vuole da
te. È come giocare con persone che conosci benissimo anche se è la prima volta
che le incontri.
Sia in Settembre che
in Rapito costruisci le tue performance anche come un incontro di
corpi. Per arrivare a tanta intimità c’è bisogno di raggiungere una grande
confidenza con i tuoi partner. Succede in Settembre ma
anche in Rapito, dove gli sguardi tra te e Fausto hanno a che fare con una realtà
altrettanta materica e carnale.
Io parto sempre da domande
piuttosto semplici, chiedendomi cosa sta succedendo al mio personaggio e qual è
il cambiamento che sta avvenendo dentro di lui. Per quanto riguarda Settembre il motore della storia di Francesca è
la scoperta di essersi innamorata. Per lei quello è più importante della
malattia e dei problemi con il marito, per cui ho cercato di togliere tutto
rimanendo concentrata sulla questione amorosa. Da lì mi sono chiesta che tipo
di trasformazioni anche fisiche queste cosa poteva avere su di me. Perché poi,
quando ti innamori, ti succede qualcosa. Hai anche la paura di essere respinta,
però al tempo stesso ti godi tutto quello che di meraviglioso ti sta accadendo.
Anche se lo provi solo quel sentimento, anche se non sei ricambiata, perché la
sensazione di essere innamorata di qualcuno ti accende. Poi trovare una partner
come Thony, in totale ascolto, è stato fondamentale. Tra noi c’è stato uno
scambio reciproco tale da far crescere all’unisono il nostro innamoramento.
Volevamo cercare di essere il più possibile oneste e questo penso si sia visto
sullo schermo.
Nel caso di Rapito invece ho dovuto forzare un po’ il mio
cuore. È stato più che altro un lavoro di immaginazione non volendo neanche per
un attimo mettermi nella condizione di una madre a cui portano via il figlio.
Io ne ho uno che ha quasi la stessa età di Edgardo e non volevo per nessuna
ragione rifarmi al mio lato privato e personale. Quindi ho fatto anche un lavoro
di distanza da quello stato d’animo. Ho pensato a cosa ti rimane quando come
madre ti tolgono la cosa più importante giungendo alla conclusione che a
Marianna rimaneva la dignità della propria fede e della propria storia. Anche
di fronte ai propri carcerieri. Anche fingendo che quella non fosse la cosa più
importante. Non so, ho cercato di fare un lavoro al contrario.
Dunque davanti alla mdp si arriva a un certo punto in cui ci si
lascia andare. Quanto è difficile riprendersi la proprio vita una volta terminato
il film? Attori come Daniel Day Lewis facevano grande fatica a uscire dal
personaggio. Per te come funziona?
Guarda, ti racconto questa cosa
molto strana. Prima di girare le scene di Rapito mi mettevo da una parte e piangevo
tutte le mie lacrime. Volevo evitare di piangere in scena, davanti alle persone
che mi avevano portato via mio figlio. Non volevo che vedessero la mia
debolezza. Quando poi mi sono rivista sullo schermo ho visto lacrime che non
ricordavo di aver versato. Per me erano acqua, scendevano da sole. So di aver
fatto tanta resistenza, ma evidentemente il mio corpo e la mia testa andavano
da sole. Era come se fossi da un’altra parte.
Per quanto riguarda l’immedesimazione, cerco di
staccare appena posso. Noi attori siamo veramente degli atleti dell’anima,
quindi per non rischiare di non avere una vita piena e felice cerco di prendere
subito le distanze dal mio lavoro. Per me tutto finisce sul set e tutto
ricomincia da lì.
Nel corso della storia appari consunta dal dolore. Essendo vestita
di tutto punto, la condizione fisica del tuo personaggio emerge dalla tensione
del suo viso, ma anche dagli occhi, in cui, come nel cinema muto, senza
proferire parola, fai convergere tutte le tue energie.
Penso che a un certo punto il mio
personaggio non abbia più parole. Usa solo quelle necessarie, come se non
potesse sprecare energie, considerando che lei ha già capito tutto. Sa che il
suo bambino non tornerà mai più a casa mentre Edgardo non capisce quello che
gli sta succedendo, sta pensando solo a sopravvivere. Il padre è convinto che
ci possa essere una via legale, che i tempi siano maturi perché il bambino gli
venga restituito. Marianna sa che non è così e i suoi occhi lo raccontano.
Sembra che si stia spegnendo, se non ci fosse il colpo di grazia di Bellocchio,
che a un certo punto li fa riaccendere per raccontarti anche di una donna che
non vuole perdere la memoria di se stessa.
Nel film il tema della conversione perde fin da subito i suoi
connotati metafisici diventando la messa in scena di un’oppressione materiale.
Sì, perché quello che succede è
assolutamente reale. Non siamo in un’altra dimensione ma nell’Italia del 1858
in un momento storico in cui esisteva ancora la figura del Papa Re. Oggi sembra
incredibile ma allora c’era un Papa che aveva gli stessi poteri di un Re. C’era
uno Stato Pontificio di cui la città di Bologna faceva parte. In quel contesto
di leggi fatte dagli uomini per gli uomini anche il Papa vi rimane ingabbiato,
confessando di non poter tornare più indietro “perché la legge è questa”. Tutti
i personaggi finiscono intrappolati in questa regola di fede che si sono dati.
Il titolo iniziale era La Conversione. Poi
Bellocchio ha pensato che fosse un titolo troppo dolce, come se il bambino
avesse potuto decidere in maniera spontanea di scegliere un’altra fede. Rapito ci ricorda che a monte della
vicenda c’è una costrizione.
Nel film la conversione ha
conseguenze psicanalitiche, rappresentando inconsciamente una reiterazione del
male subito. Non a caso Edgardo tenterà fino all’ultimo di convertire la madre,
abdicando al rispetto delle coscienze altrui. Peraltro sappiamo che
istituzionalizzò la sua predisposizione diventando anch’egli un missionario.
Ovviamente la conversione di
Edgardo è la parte più misteriosa di tutto il film. Perché nel momento in cui
l’Italia viene liberata con la celebre entrata a Porta Pia non decide di
tornare a casa, preferendo di rimanere fedele al Papa? La sua, comunque, non
sarà mai una vita facile. Sappiamo che soffrirà di episodi di nevrastenia, e la
sua conversione avrà anche dei momenti controversi, raccontati dallo stesso
Edgardo nella sua biografia, come quando dice che si lanciò verso il Papa
facendolo cadere. Non sapremo mai se era un impeto d’amore o un atto di
resistenza.
Edgardo cercò davvero di convertire
sua madre: non in punto di morte ma in altri momenti della sua vita. Lo fece
sempre a fin di bene perché non voleva perderla, volendola ritrovare nel
paradiso cristiano. Divenne missionario, poi negli ultimi anni si ritirò a una
vita di clausura. Ciò che successe nella sua testa non lo sapremo mai. È come
se non volesse dispiacere nessuno, né il Papa né la sua mamma, e nella scena
bellissima del crocifisso è come se, liberando il Cristo, volesse far fare la
pace ai cattolici e agli ebrei.
Nel cinema di Marco Bellocchio il rapporto tra madre e figlio è
alla base di molte delle sue storie. Qui l’importanza del tuo ruolo è
fondamentale, tanto per la narrazione dei fatti, quanto per quello dei
significati. Nello specifico la relazione tra Marianna ed Edgardo diventa anche
la rappresentazione della lotta interiore tra uomo e fede. Marianna è colei a
cui il destino affida la continuità del dogma. È lei che si preoccupa di
trasmetterlo al figlio.
La continuità del dogma e della propria storia.
I Mortara erano ebrei ma non ortodossi, la preghiera la raccontiamo come un
momento privato tra Edgardo e Marianna, sono le favole della buonanotte, il
rituale che rimane nella mente del ragazzo come l’ultimo ricordo di sua madre.
E quando lei capisce che il figlio sta abbracciando un’altra religione, per lei
è come se avesse scelto di vivere con un’altra mamma. So che si potrebbe
parlare all’infinito del discorso della fede, ma quello che mi interessava
raccontare era l’aspetto privato della vicenda, se il figlio avesse continuato
a recitare le loro preghiere avrebbe conservato anche la memoria di lei.
Tra l’altro il tuo ruolo
prevede una trasformazione radicale e inaspettata con la quale sei chiamata a
recitare anche in relazione al diverso rapporto che il tuo personaggio ha con
lo spazio. In mezzo alla ridda di persone sopraggiunte alla tragedia ti
perdiamo di vista. Sottomessa alla realtà degli uomini, Marianna all’inizio è
quasi una testimone dei fatti. Questo fino a quando è chiamata in causa in
prima persona dal rapimento di Edgardo. Da quel momento la sua collocazione
all’interno del quadro è centrale. Il viso – in primo piano – non più reclinato
e timoroso, diventa sempre più incalzante negli sguardi pieni di rabbia e di
dolore. Quello che ingaggi con il personaggio di Fausto Russo Alesi, subito
prima di uscire di casa, è esplicativo della mutata condizione di Marianna.
È chiaro che questa è una storia di
uomini. Lo è nella contrapposizione dei personaggi così come nella composizione
del tribunale che dovrà decidere le sorti di Edgardo. L’unico momento che lei
ha per dire le cose al marito è dentro casa. Lì Marianna può essere quella che
è, senza aver paura di niente e nessuno. Se avesse potuto, probabilmente quel
bambino lo avrebbe rapito. Ho sempre pensato che quando il fratello di Edgardo
entra in casa per sottrarre il bambino lei sapesse tutto. Stiamo parlando di
una società patriarcale, con delle regole da rispettare. L’unico a cui lei
poteva parlare e dire ciò che sentiva era il marito.
La trasformazione del tuo personaggio passa attraverso due scene
altrettanto drammatiche. Nella prima, collocata all’interno della casa di
famiglia, la vediamo inizialmente con la testa appoggiata sul tavolo in
posizione di riposo. Poi di colpo in piedi, davanti al marito, posseduta da un
dolore che la trasforma in una femmina folle. Trasfigurata dalla sofferenza la
tua faccia si deforma al punto tale da farti diventare una sorta di Erinni.
Questo per dire di quanto la tua performance sia stata difficile dal punto di
vista fisico e psicologico.
In alcune scene mi sembrava che
Marianna si muovesse come un animale ferito che cerca in tutti i modi di
difendersi per non soccombere, anche con le ultime forze che ha, anche se sa
che la sua lotta è disperata. Cercavo di ascoltare quello che mi accadeva
intorno. Di rispondere a tutte le sollecitazioni, di seguire le indicazioni di
Marco, di essere il più dignitosa e discreta possibile in quel dolore
insopportabile.
Una delle scene più belle e toccanti è l’incontro tra Marianna ed
Edgardo. Essa riassume come meglio non si potrebbe il conflitto tra il tuo
ruolo di madre e di credente, tra il sentimento e la ragion di stato. Tutto
questo è palesato dalla presenza del precettore cattolico, in qualche modo
chiamato a far sì che l’emotività del ricongiungimento familiare si mantenga
all’interno di un’ortodossia solo per un istante messa in crisi dallo
straziante ricongiungimento tra madre e figlio.
In quella scena ho pensato che la
sua paura più grande fosse che il figlio l’avesse dimenticata. Quindi in quel
momento c’è il pudore di una donna che si avvicina a un figlio che ha partorito
e accudito e amato con tutte le sue forze. Mettendosi nella posizione di essere
dimenticata Marianna ci si avvicina piano perché ha troppa paura che il bambino
la mandi via. Poi, quando capisce che Edgardo la pensa e che vuole tornare da
lei e dai suoi fratelli diventa una leonessa. Non vorrebbe più uscire da quella
stanza; non vorrebbe più staccarsi dal bambino. È stato un momento molto
toccante anche per noi.
Voi la recitate come fosse un
pezzo rubato alle vostre vite.
Scene come quella accadono
magicamente. Enea nonostante i suoi sette anni aveva capito che con il padre
doveva essere così distante e tranquillo. Invece con me sapeva che si poteva
lasciare andare. Quella è stata la stessa scena che io e lui abbiamo fatto
anche al provino, quando ancora dovevamo essere scelti. Fu un momento
incredibile vedere come questo bambino riusciva a guardarmi negli occhi e a
rispondermi con tanta sincerità, lasciandosi andare nella maniera in cui avete
visto.
Nella ricostruzione d’epoca
Marco Bellocchio attinge tra le altre cose da una serie di fonti pittoriche di
cui il regista si serve per ricostruire l’Italia ottocentesca. Volevo chiederti
se in fase di ricerca hai utilizzato materiali provenienti dalla cultura
visiva?
L’unica immagine che rimane è
quella di Marianna Mortara ormai anziana, seduta in mezzo ai due figli.
Riccardo vi figura in abiti civili, Edgardo con l’abito talare. La testa della
donna è dritta mentre la stortura del corpo dà l’idea che quello fosse il segno
del tentativo di tenere insieme due figli così diversi tra loro.
Da una parte Rapito racconta un mondo che non esiste più, dall’altra la storia
di Edgardo Mortara ci presenta una società in preda a una follia collettiva
molto simile a quella di oggi. Come succede nel conflitto ucraino.
Al termine di una proiezione mi si
è avvicinata una signora proveniente dall’Ucraina dicendomi che la storia di
Edgardo gli ha ricordato quella di tanti bambini del suo paese rimasti orfani e
deportati in Russia. Giusto per confermare la tua domanda.
Prossimamente sarai la madrina
del Festival del Pigneto. Ne vogliamo parlare?
Sostenere Festival come quello
di Pigneto mi faceva molto piacere. Iniziative
simili hanno la grande responsabilità di riportare la gente al cinema: in questo
caso un intero quartiere. Roma ne è piena e ognuno fa storia a sé. Le arene
estive e i piccoli festival servono a dare respiro alla città e al cinema in
generale.
Ti volevo chiedere il titolo di
un film che ti è particolarmente piaciuto?
Dopo avere visto Close di Lukas Dhont ho faticato a dormire per più
giorni. Mi ha molto colpito, così come lo aveva fatto Girl,
film precedente dello stesso autore. Questo però è ancora più bello.
Carlo Cerofolini
(intervista pubblicata su Taxidrivers.it)