Diamanti
di
Ferzan Ozpetek
con
Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Vanessa Scalera
Italia,
2024
genere:
drammatico, commedia
durata:
135’
Gli
elementi ricorrenti del cinema di Ozpetek ci sono: c’è il cast corale,
c’è la grande tavolata, ci sono i volti che hanno lavorato con il regista negli
anni. Ma, oltre a questo, ci sono anche delle novità e delle differenze che, se
inizialmente sembrano dare una nuova luce, con l’andare avanti della storia si
perdono nelle innumerevoli strade che Diamanti sembra voler
percorrere.
Un
escamotage di metacinema è quello che sceglie il regista turco ormai
italianizzato per far addentrare lo spettatore all’interno della sua nuova perla.
Un pranzo insieme a tutte le sue attrici (e un paio di attori) è il modo
migliore per Ferzan Ozpetek per introdurre sia loro che noi a una storia
che trasuda cinema da tutti i pori, ma che, come un bel vestito pomposo,
rischia anche, talvolta, di perdersi.
Da
un pranzo insieme con una tavola imbandita il regista inizia a spiegare ai
presenti il suo prossimo film, cominciando ad assegnare i primi ruoli e
fornendo i vari copioni. Improvvisamente veniamo trasportati negli anni ’70,
all’interno di una sartoria che si occupa prevalentemente di costumi per teatro
e cinema. A capo della sartoria in questione ci sono due sorelle, Alberta
e Gabriella Canova (Luisa Ranieri e Jasmine Trinca),
per le quali lavora un nutrito gruppo di donne. Tra chi si occupa di tingere le
stoffe a chi le taglia, passando per chi le cuce e crea i modelli, tutte sono
dedite alla propria occupazione, entusiaste e felici di lavorare insieme per
progetti di prestigio. Se, però, possono contare l’una sull’altra sull’ambiente
di lavoro, non possono fare lo stesso a casa dove ognuna sembra avere delle
problematiche importanti. In questo senso anche i colori, sgargianti, luminosi
e quasi magici, all’interno della sartoria, si incupiscono e scuriscono
nel momento in cui ognuna di loro varca la soglia della propria abitazione. Tra
chi deve fronteggiare problemi economici, a chi ha (o ha avuto) problemi con i
figli, passando per chi ha a che fare con la violenza fisica, ogni donna
diventa sola e fragile.
Un
parterre di grandi attrici che si susseguono sullo schermo per dare vita a un
abito, metafora del cinema stesso, dove ogni elemento diventa fondamentale per
la buona riuscita del prodotto finale. Diventano necessarie le mani di ognuna
delle protagoniste perché, come insegna Alberta all’inizio non esiste
un io, esiste un noi. Eliminando anche un solo elemento il risultato finale
non sarà mai lo stesso di quello pensato. Bianca Vega (la costumista
premio Oscar interpretata da una Vanessa Scalera in stato di grazia) si
(af)fida a queste donne che riescono, meglio di chiunque altro, a interpretare
i suoi sogni, incarnati da dei bozzetti di costumi per un esigentissimo regista
(Stefano Accorsi). Loro sono le uniche in grado di riuscire in
un’impresa del genere perché, come i diamanti che andranno (metaforicamente e
non) a comporre il maestoso abito finale, sono unite e sanno di poter contare
l’una sull’altra. Ma sono anche diamanti intesi come qualcosa di prezioso,
resistente e durevole al pari dello spirito femminile.
Al
di là di mostrare situazioni purtroppo ancora attuali di disagio e difficoltà,
le richieste da parte di alcune di loro (Paolina-Anna Ferzetti ed
Eleonora-Lunetta Savino) di nascondere beni preziosi vanno
oltre la semplice amicizia. Quella delle sorelle Canova è una sartoria basata
sulla fiducia di tutte le donne che, volenterose, hanno deciso di lavorarci e
dare anima e cuore al loro mestiere.
Se
al centro ci sono le donne e la loro visione del mondo, Ozpetek ritaglia
un piccolo spazio anche per alcuni uomini, rovesciando, però, i tradizionali
cliché che li vedono in situazioni opposte a quelle mostrate dal film.
Noi siamo collegate alle stelle,
per quello sentiamo tutto.
Potrebbe essere la
massima che riassume un film corale, dove, però, ogni personaggio è in grado di
delinearsi perfettamente e concretamente, senza prevaricare su nessuno, ma
mostrandosi completamente. Rappresentate e incarnate anche dai colori degli
abiti che indossano (nella sartoria tutte uguali, ma fuori ognuna con il
proprio eccentrico stile) le donne di questo film riescono a essere i
perfetti pezzi di un puzzle il cui risultato finale è l’essenza stessa del
cinema, come tenta di spiegare il regista con le sue apparizioni saltuarie e la
sua conclusione, però non del tutto perfetta.
Veronica Ranocchi
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