Arthur e la vendetta di Maltazard
( Arthur et la vengeance de Maltazard )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Luc Besson
CAST: Freddie Highmore, Mia Farrow, Jimmy Fallon, Snoop Dogg, Asa Butterfield, Robert Stanton, Lou Reed, Logan Mille
Hachiko, una storia d'amore
( Hachiko: A Dog's Story )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Lasse Hallström
CAST: Richard Gere, Joan Allen, Jason Alexander, Cary-Hiroyuki Tagawa, Erick Avari, Davenia McFadden
giovedì, dicembre 31, 2009
Film in sala dal 1 gennaio 2010
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film in uscita 2010
mercoledì, dicembre 30, 2009
L'USSARO SUL TETTO
L'USSARO SUL TETTO
di JP RAPPENEAU
Un amore impossibile e gli ideali di libertà che attraversarono l'Italia pre risorgimentale sono i motivi dominanti de L'Ussaro sul tetto, film di JP Rappeneau che racconta le avventure di Angelo Pardi, diviso tra la passione civile per la patria violata ed il sentimento per la nobildonna che sta scortando alla volta del marito.
Siccome il protagonista è inseguito da emissari del governo austriaco intenzionati ad impedirne il rientro in Italia ed il morbo della peste imperversa nelle campagne provenzali, la missione del giovane ufficiale si carica fin da subito di tutte le caratteristiche (sprezzo del pericolo, slancio gratuito, ricerca del bel gesto) che hanno reso famose la figura dell’eroe romantico.
Come fosse un pittore impressionista Rappeneau non si limita a replicare il dinamismo e le divertite guasconierie dei film di cappa e spada, di cui soprattutto nella prima parte, quella in cui il personaggio si destreggia con abilità felina tra i tetti della cittadina guadagnandosi l’epiteto del titolo, il film è pieno, ma utilizza le suggestioni del Midì francese per costruire l’afflato amoroso tra i due viaggiatori.
Così facendo immerge la storia negli spazi aperti della Francia Meridionale (dimensione che segnò uno dei segni principali del movimento pittorico transalpino) e ne declina i vari passaggi accostando ai sentimenti dei personaggi l’equivalente ambientale: la foresta con i suoi recessi diventa il simbolo di una diffidenza dovuta più alla morale che all’istinto mentre via via che la vicenda procede e la forzata indifferenza lascia il posto ad un evidente attrazione, ecco che la natura cambia completamente registro, aprendosi agli orizzonti sconfinati delle grandi pianure che precedono le alpi.
In tale panorama Rappeneau alterna scene di massa, con la paura del contaggio che diventa più mortifera della stessa malattia, a momenti di intimità, in cui Angelo e Pauline, trasfigurati nella cornice che li accoglie, diventano il simbolo di un amore che nulla trattiene e che perciò è destinato a non sfiorire. Una dimensione fuori dal tempo che però non dimentica ma anzi integra in maniera naturale l’amor di patria, chiamato in causa da Angelo nel tentativo di sottrarsi ad un legame che disonorerebbe Pauline, e che la donna, anche lei al femminile, anche lei in pericolo, finisce per incarnare. Tratto dall’omonimo romanzo di Jean Giono, che traspone nella vicenda molti riferimenti autobiografici (Manosque non è solo la metà del periglioso viaggio ma anche il paese dove è nato lo scrittore, così come sono Piemontesi le sue origini), L’Ussaro sul Tetto è una coproduzione internazionale che si avvale di un cast tecnico di prima scelta, tra cui basterebbe ricordare Tierry Arbogast con la sua fotografia dai forti richiami pittorici (nelle scene di varia mondanità è evidente il richiamo a Pierre Auguste Renoir) e la costumista Franca Squarciapino gia' vincitrice di un Oscar per "Cyrano de Bergerac", ma il film non potrebbe essere lo stesso senza l’alchimia di due attori in stato di grazia: Juliette Binoche perfetta nel conferire al suo personaggio un erotismo trattenuto eppure evidente mentre Olivier Maritnez, qui al suo esordio nel grande cinema è un mix di sensibilità e destrezza fisica all’altezza dei modelli che ispirano il suo personaggio. A riprova che a volte i film influenzano la vita, la coppia in questione si sarebbe veramente innamorata e di lì a poco sarebbe divenuta una delle coppie più invidiate del cinema francese.
di JP RAPPENEAU
Un amore impossibile e gli ideali di libertà che attraversarono l'Italia pre risorgimentale sono i motivi dominanti de L'Ussaro sul tetto, film di JP Rappeneau che racconta le avventure di Angelo Pardi, diviso tra la passione civile per la patria violata ed il sentimento per la nobildonna che sta scortando alla volta del marito.
Siccome il protagonista è inseguito da emissari del governo austriaco intenzionati ad impedirne il rientro in Italia ed il morbo della peste imperversa nelle campagne provenzali, la missione del giovane ufficiale si carica fin da subito di tutte le caratteristiche (sprezzo del pericolo, slancio gratuito, ricerca del bel gesto) che hanno reso famose la figura dell’eroe romantico.
Come fosse un pittore impressionista Rappeneau non si limita a replicare il dinamismo e le divertite guasconierie dei film di cappa e spada, di cui soprattutto nella prima parte, quella in cui il personaggio si destreggia con abilità felina tra i tetti della cittadina guadagnandosi l’epiteto del titolo, il film è pieno, ma utilizza le suggestioni del Midì francese per costruire l’afflato amoroso tra i due viaggiatori.
Così facendo immerge la storia negli spazi aperti della Francia Meridionale (dimensione che segnò uno dei segni principali del movimento pittorico transalpino) e ne declina i vari passaggi accostando ai sentimenti dei personaggi l’equivalente ambientale: la foresta con i suoi recessi diventa il simbolo di una diffidenza dovuta più alla morale che all’istinto mentre via via che la vicenda procede e la forzata indifferenza lascia il posto ad un evidente attrazione, ecco che la natura cambia completamente registro, aprendosi agli orizzonti sconfinati delle grandi pianure che precedono le alpi.
In tale panorama Rappeneau alterna scene di massa, con la paura del contaggio che diventa più mortifera della stessa malattia, a momenti di intimità, in cui Angelo e Pauline, trasfigurati nella cornice che li accoglie, diventano il simbolo di un amore che nulla trattiene e che perciò è destinato a non sfiorire. Una dimensione fuori dal tempo che però non dimentica ma anzi integra in maniera naturale l’amor di patria, chiamato in causa da Angelo nel tentativo di sottrarsi ad un legame che disonorerebbe Pauline, e che la donna, anche lei al femminile, anche lei in pericolo, finisce per incarnare. Tratto dall’omonimo romanzo di Jean Giono, che traspone nella vicenda molti riferimenti autobiografici (Manosque non è solo la metà del periglioso viaggio ma anche il paese dove è nato lo scrittore, così come sono Piemontesi le sue origini), L’Ussaro sul Tetto è una coproduzione internazionale che si avvale di un cast tecnico di prima scelta, tra cui basterebbe ricordare Tierry Arbogast con la sua fotografia dai forti richiami pittorici (nelle scene di varia mondanità è evidente il richiamo a Pierre Auguste Renoir) e la costumista Franca Squarciapino gia' vincitrice di un Oscar per "Cyrano de Bergerac", ma il film non potrebbe essere lo stesso senza l’alchimia di due attori in stato di grazia: Juliette Binoche perfetta nel conferire al suo personaggio un erotismo trattenuto eppure evidente mentre Olivier Maritnez, qui al suo esordio nel grande cinema è un mix di sensibilità e destrezza fisica all’altezza dei modelli che ispirano il suo personaggio. A riprova che a volte i film influenzano la vita, la coppia in questione si sarebbe veramente innamorata e di lì a poco sarebbe divenuta una delle coppie più invidiate del cinema francese.
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recensioni
lunedì, dicembre 28, 2009
La Sentinelle
La Sentinelle (1992)
Directed by Arnaud Desplechin
Nel treno che lo sta riportando a Parigi, Mathias, studente di medicina legale, viene fermato dalla polizia e quindi interrogato da un misterioso individuo; L’episodio sembrerebbe un semplice malinteso fino a quando il giovane scopre nel proprio bagaglio un testa umana perfettamente conservata. Dopo lo stupore iniziale Mathias decide di venire a capo di una vicenda le cui ragioni saranno da ricercarsi nella misteriosa liberazione di alcuni connazionali tenuti prigionieri nell’ex Unione Sovietica.
Per il suo primo lungometraggio Desplechin sceglie di lavorare all'interno del genere utilizzando i codici del 'Crime Movie' a favore della propria libertà autoriale. Per far questo costruisce una storia che tiene conto del modello di riferimento, a partire da un incipit capace di giustificare l’ossessione del protagonista e l’indagine che ne consegue, e poi riuscendo ad allestire un 'nido di vipere' all’altezza della posta in gioco, con un protagonista la cui ordinarietà sembra fatta apposta per esaltare l’eccezionalità degli eventi i corso. In realtà il meccanismo di genere viene depotenziato da una serie di scelte che privilegiano, da una parte le divagazioni legate alle delusioni di una generazione che a partire dai 'Patti di Yalta' (oggetto del contendere nella scena che apre il film) ha dovuto fare i conti con il fallimento dell’utopia comunista e con i compromessi scaturiti da quelle decisioni, e dall'altra si sofferma sulla rappresentazione di un esistenzialismo che si divide tra un decoro borghese difeso a spada tratta (ed è per questo che Mathias deve essere fermato) e le ipocrisie dei rapporti umani (l’amore rimane ancora una volta una chimera).
Desplechin getta le basi del suo cinema attraverso un personaggio che vince la sfida con il sistema ma perde quella con se stesso: nell’intento di mantenere l’equilibrio tra cuore e cervello, alternativamente rappresentate dalla professione ufficiale (la medicina legale) e da quella ufficiosa (l’investigatore) finisce per perdere il controllo delle cose diventando di fatto alieno al suo stesso mondo; in questo senso egli diventa il peccato originale ed insieme il prototipo dell’uomo Desplechiano, marchiato per sempre da questa iniziale sconfitta. E come se il regista, approfittando delle sventure del suo eroe, prendesse fin da subito le distanze da una resistenza politica che soprattutto in Francia è ancora uno stile di vita (basterebbe ricordare le annose questioni legate all’estradizione di molti terroristi italiani) ed invece nella filmografia del nostro diventerà qualcosa di cui si può fare a meno.
Seminale è anche l’idea di famiglia come luogo di morte, Topos già presente nel precedente 'La vie des morts', mediometraggio del 1991 in cui il suicidio di una persona cara mette in discussione le vite di amici e parenti e che si conferma anche qui nella relazione tra la morte del padre di Mathias e l'inizio di una disgregazione familiare che, come sempre succede nel cinema di Despleschin, va oltre i legami di sangue e si allarga ad amici e conoscenti. Le famiglia diventa così una 'Comune' in cui si combatte la battaglia finale, quella in cui si decide la vita o la morte dei suoi componenti.
Una densità di temi e significati che il regista traduce con uno stile compatto e movimenti di macchina ridotti al minimo: il regista preferisce lavorare all’interno dell’inquadratura, che restituisce l’alienazione del protagonista facendo convivere gli squilibri della storia con la composizione di una scena in cui le figure occupano sistematicamente il centro dello spazio e dove la prevalenza del piano americano la dice lunga sulle sinergie tra ambienti e personaggi. Certo, complessivamente il film risente delle urgenze tipiche delle opere prime ed anche l’impianto di genere dimostra evidenti limiti di coerenza: troppe cose rimangono non spiegate e la sensazione di un evidente difficoltà nelle gestione di alcuni passaggi appare evidentemente. Mancanze che pesano sul giudizio dello spettatore occasionale ma che aumentano il senso di innafferabilità di un opera si imperfetta ma che non può lasciare indifferenti.
In concorso al Festival di Cannes del 1992 il film ha vinto il premio Caesar del 1993 per il miglior attore maschile (Emanuelle Salinger).
Directed by Arnaud Desplechin
Nel treno che lo sta riportando a Parigi, Mathias, studente di medicina legale, viene fermato dalla polizia e quindi interrogato da un misterioso individuo; L’episodio sembrerebbe un semplice malinteso fino a quando il giovane scopre nel proprio bagaglio un testa umana perfettamente conservata. Dopo lo stupore iniziale Mathias decide di venire a capo di una vicenda le cui ragioni saranno da ricercarsi nella misteriosa liberazione di alcuni connazionali tenuti prigionieri nell’ex Unione Sovietica.
Per il suo primo lungometraggio Desplechin sceglie di lavorare all'interno del genere utilizzando i codici del 'Crime Movie' a favore della propria libertà autoriale. Per far questo costruisce una storia che tiene conto del modello di riferimento, a partire da un incipit capace di giustificare l’ossessione del protagonista e l’indagine che ne consegue, e poi riuscendo ad allestire un 'nido di vipere' all’altezza della posta in gioco, con un protagonista la cui ordinarietà sembra fatta apposta per esaltare l’eccezionalità degli eventi i corso. In realtà il meccanismo di genere viene depotenziato da una serie di scelte che privilegiano, da una parte le divagazioni legate alle delusioni di una generazione che a partire dai 'Patti di Yalta' (oggetto del contendere nella scena che apre il film) ha dovuto fare i conti con il fallimento dell’utopia comunista e con i compromessi scaturiti da quelle decisioni, e dall'altra si sofferma sulla rappresentazione di un esistenzialismo che si divide tra un decoro borghese difeso a spada tratta (ed è per questo che Mathias deve essere fermato) e le ipocrisie dei rapporti umani (l’amore rimane ancora una volta una chimera).
Desplechin getta le basi del suo cinema attraverso un personaggio che vince la sfida con il sistema ma perde quella con se stesso: nell’intento di mantenere l’equilibrio tra cuore e cervello, alternativamente rappresentate dalla professione ufficiale (la medicina legale) e da quella ufficiosa (l’investigatore) finisce per perdere il controllo delle cose diventando di fatto alieno al suo stesso mondo; in questo senso egli diventa il peccato originale ed insieme il prototipo dell’uomo Desplechiano, marchiato per sempre da questa iniziale sconfitta. E come se il regista, approfittando delle sventure del suo eroe, prendesse fin da subito le distanze da una resistenza politica che soprattutto in Francia è ancora uno stile di vita (basterebbe ricordare le annose questioni legate all’estradizione di molti terroristi italiani) ed invece nella filmografia del nostro diventerà qualcosa di cui si può fare a meno.
Seminale è anche l’idea di famiglia come luogo di morte, Topos già presente nel precedente 'La vie des morts', mediometraggio del 1991 in cui il suicidio di una persona cara mette in discussione le vite di amici e parenti e che si conferma anche qui nella relazione tra la morte del padre di Mathias e l'inizio di una disgregazione familiare che, come sempre succede nel cinema di Despleschin, va oltre i legami di sangue e si allarga ad amici e conoscenti. Le famiglia diventa così una 'Comune' in cui si combatte la battaglia finale, quella in cui si decide la vita o la morte dei suoi componenti.
Una densità di temi e significati che il regista traduce con uno stile compatto e movimenti di macchina ridotti al minimo: il regista preferisce lavorare all’interno dell’inquadratura, che restituisce l’alienazione del protagonista facendo convivere gli squilibri della storia con la composizione di una scena in cui le figure occupano sistematicamente il centro dello spazio e dove la prevalenza del piano americano la dice lunga sulle sinergie tra ambienti e personaggi. Certo, complessivamente il film risente delle urgenze tipiche delle opere prime ed anche l’impianto di genere dimostra evidenti limiti di coerenza: troppe cose rimangono non spiegate e la sensazione di un evidente difficoltà nelle gestione di alcuni passaggi appare evidentemente. Mancanze che pesano sul giudizio dello spettatore occasionale ma che aumentano il senso di innafferabilità di un opera si imperfetta ma che non può lasciare indifferenti.
In concorso al Festival di Cannes del 1992 il film ha vinto il premio Caesar del 1993 per il miglior attore maschile (Emanuelle Salinger).
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anteprime,
recensioni
mercoledì, dicembre 23, 2009
Film in sala da venerdi' 25 dicembre
Amelia
( Amelia )
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Mira Nair
Brothers
( Brothers )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Jim Sheridan
Piovono polpette
( Cloudy with a Chance of Meatballs )
GENERE: Animazione, Commedia, Family
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Phil Lord, Chris Miller (XIX)
Sherlock Holmes
( Sherlock Holmes )
GENERE: Giallo
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna, USA
REGIA: Guy Ritchie
BUON NATALE A TUTTI!
( Amelia )
GENERE: Biografico, Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Mira Nair
Brothers
( Brothers )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Jim Sheridan
Piovono polpette
( Cloudy with a Chance of Meatballs )
GENERE: Animazione, Commedia, Family
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Phil Lord, Chris Miller (XIX)
Sherlock Holmes
( Sherlock Holmes )
GENERE: Giallo
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna, USA
REGIA: Guy Ritchie
BUON NATALE A TUTTI!
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film in uscita 2009
lunedì, dicembre 21, 2009
BROTHERS
BROTHERS
La complessità dei legami familiari sullo sfondo della guerra Afghana e' il tema principale di un film che replica, semplificandola, la versione danese di un opera ('Non desiderare la donna d’altri' di Susan Blier) per molti versi legata a situazioni rintracciabili all’interno della scrittura religiosa.
A partire dalle sequenze iniziali, in cui la vicenda del 'figliol prodigo' è riproposta con i buoni propositi di Jack uscito di prigione ed intenzionato a ricominciare una nuova vita, il film procede portandosi dietro un senso di 'pietas' verso protagonisti coinvolti in una vicenda più grande di loro e poi ancora facendo procedere la storia come una parabola in cui le 'colpe' sono il viatico per il perdono finale.
Dopo un prologo introduttivo in cui la conoscenza delle dinamiche familiari ci permette di vedere i suoi membri riuniti attorno alla figura di un padre ingombrante e con i due fratelli uniti da un legame che va oltre la semplice parentela, il film sgretola quell’unione dividendosi tra l’asprezza del paesaggio afghano dove Sam (Tobey Maguire) guida la sua unità attraverso le insidie talebane, e le atmosfere sospese della cittadina americana in cui la presenza/assenza di chi è partito condiziona le scelte di chi è rimasto.
A differenza del suo predecessore Sheridan sceglie di seguire le due vicende in parallelo, eliminando i flash back e rafforzando con un montaggio alternato la vicinanza psicologica dei protagonisti.
E’questo il momento migliore del film, quello in cui il regista non si limita a sfruttare la bravura degli attori, ma lavorando sulle immagini riesce ad unire senza soluzione di continuità il deragliamento di Jack, catturato dai guerriglieri Talibani e costretto a commettere un azione indicibile, ed il lento ma progressivo ritorno alla vita del fratello (Tommy interpretato da Jake Gyllenhaal), diviso tra le responsabilità di chi deve meritarsi il privilegio di essere rimasto e l’attrazione verso la moglie del militare (Grace impersonata da una grande Natalie Portman).
Sheridan lavora di sottrazione privilegiando i non detti e lasciando che siano le atmosfere a conferire forza alle azioni dei protagonisti.
D’altro canto, forse perché 'il remake' ha la sua ragione di essere in un pubblico americano generalmente sessuofobo ed abituato ai lieto fine, Sheridan trasforma la relazione extraconiugale in un 'bacio rubato' e modifica un finale che pur nella sua drammaticità, lascia un pò di speranza dopo tanta sofferenza.
Ben recitato da un gruppo di attori in cerca di conferme, 'Brothers' dimostra ancora una volta l'inutilità del cinema clonato, se è vero che in presenza dell’originale anche un' opera come questa, sincera e ben realizzata, lascia una sensazione di superfluo difficilmente cancellabile.
La complessità dei legami familiari sullo sfondo della guerra Afghana e' il tema principale di un film che replica, semplificandola, la versione danese di un opera ('Non desiderare la donna d’altri' di Susan Blier) per molti versi legata a situazioni rintracciabili all’interno della scrittura religiosa.
A partire dalle sequenze iniziali, in cui la vicenda del 'figliol prodigo' è riproposta con i buoni propositi di Jack uscito di prigione ed intenzionato a ricominciare una nuova vita, il film procede portandosi dietro un senso di 'pietas' verso protagonisti coinvolti in una vicenda più grande di loro e poi ancora facendo procedere la storia come una parabola in cui le 'colpe' sono il viatico per il perdono finale.
Dopo un prologo introduttivo in cui la conoscenza delle dinamiche familiari ci permette di vedere i suoi membri riuniti attorno alla figura di un padre ingombrante e con i due fratelli uniti da un legame che va oltre la semplice parentela, il film sgretola quell’unione dividendosi tra l’asprezza del paesaggio afghano dove Sam (Tobey Maguire) guida la sua unità attraverso le insidie talebane, e le atmosfere sospese della cittadina americana in cui la presenza/assenza di chi è partito condiziona le scelte di chi è rimasto.
A differenza del suo predecessore Sheridan sceglie di seguire le due vicende in parallelo, eliminando i flash back e rafforzando con un montaggio alternato la vicinanza psicologica dei protagonisti.
E’questo il momento migliore del film, quello in cui il regista non si limita a sfruttare la bravura degli attori, ma lavorando sulle immagini riesce ad unire senza soluzione di continuità il deragliamento di Jack, catturato dai guerriglieri Talibani e costretto a commettere un azione indicibile, ed il lento ma progressivo ritorno alla vita del fratello (Tommy interpretato da Jake Gyllenhaal), diviso tra le responsabilità di chi deve meritarsi il privilegio di essere rimasto e l’attrazione verso la moglie del militare (Grace impersonata da una grande Natalie Portman).
Sheridan lavora di sottrazione privilegiando i non detti e lasciando che siano le atmosfere a conferire forza alle azioni dei protagonisti.
D’altro canto, forse perché 'il remake' ha la sua ragione di essere in un pubblico americano generalmente sessuofobo ed abituato ai lieto fine, Sheridan trasforma la relazione extraconiugale in un 'bacio rubato' e modifica un finale che pur nella sua drammaticità, lascia un pò di speranza dopo tanta sofferenza.
Ben recitato da un gruppo di attori in cerca di conferme, 'Brothers' dimostra ancora una volta l'inutilità del cinema clonato, se è vero che in presenza dell’originale anche un' opera come questa, sincera e ben realizzata, lascia una sensazione di superfluo difficilmente cancellabile.
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anteprime,
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giovedì, dicembre 17, 2009
Film in sala dal 18 dicembre
Astro Boy
( Astro Boy )
GENERE: Animazione, Azione, Fantascienza
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Hong Kong, Giappone, USA
REGIA: David Bowers
Il canto delle spose
( Le chant des mariées )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Karin Albou
Io & Marilyn
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Leonardo Pieraccioni
La Principessa e il Ranocchio
( The Princess and the Frog )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Ron Clements, John Musker
Natale a Beverly Hills
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Neri Parenti
( Astro Boy )
GENERE: Animazione, Azione, Fantascienza
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Hong Kong, Giappone, USA
REGIA: David Bowers
Il canto delle spose
( Le chant des mariées )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Karin Albou
Io & Marilyn
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Leonardo Pieraccioni
La Principessa e il Ranocchio
( The Princess and the Frog )
GENERE: Animazione
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Ron Clements, John Musker
Natale a Beverly Hills
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Neri Parenti
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film in uscita 2009
mercoledì, dicembre 16, 2009
NEW MOON
New Moon
Ancora storditi dal clamore suscitato dalla prima apparizione, ed impegnati nel tentativo di rendere giustizia alle qualità cinematografiche del primo capitolo della saga ( opera seminale o fenomeno di costume), 'Twilight' gioca d’anticipo, e satura il mercato con un secondo capitolo, che, se non aggiunge nulla rispetto a quanto già visto in precedenza, almeno aiuta a capire qualcosa di più a proposito degli eroi che ne hanno decretato il successo. Se infatti New Moon non fa un passi in avanti rispetto all’evoluzione della storia, a meno che non si voglia prendere sul serio l'espediente che fa scomparire per gran parte del film il protagonista principale, permettendo a Bella di tormentarsi per quasi due ore sulle differenze tra l’amore ed amicizia, dal punto di vista fenomenologico il film lascia ampio spazio all'approfondimento dei caratteri, rivelando cosa si nascondeva dietro ai silenzi siderali ed ai comportamenti trattenuti del primo episodio: dopo la visione del film verrebbe voglia di riprendere l’antico adagio è decretare 'sotto il vestito niente', ma per motivi di principio, o forse perché, fino a prova contraria, crediamo sempre alla buona fede delle persone, proviamo ad argomentare, dicendo che il quadro psicologico ed emotivo dei protagonisti spazia tra un anaffettività appena giustificata dai rimorsi di coscienza (nel caso di Bella bisognerebbe parlare di vere e proprie allucinazioni) ed un atavica indecisione, che gli autori vorrebbero rivestire con i canoni di un dolente romanticismo, molto vicino a quello che affliggeva il Werther goethiano, ed invece finiscono per banalizzare con un narcisismo che, soprattutto sul versante maschile, sembra essersi definitivamente appropriato di un estetismo che non è più esclusivamente femminile, ma anzi, dovendo giudicare dallo stile di Bella, jeans e maglietta sempre indossati e mai un centimetro di pelle scoperta, a differenza dei suoi innamorati, sempre pronti ad esibire ogni centimetro del proprio fisico, è diventata la prerogativa principale di quello maschile. Lungi dall’essere motivo d’unione, la bellezza in tutte le sue sfaccettature (Androgino/Bella, Effeminato/Edward, Virile/Jacob) diventa nell’impossibilità di soddisfare il piacere, il volano di un dolore che isola e rende infelici. E se è vero che lo spettatore ama ricoscersi nei personaggi di finzione, dovremo credere che l’importanza di film come 'New Moon' consista soprattutto nella capacità di indicare 'a che punto è la notte' e qual è la direzione verso cui stiamo andando: il cinema come opera d’arte cede il passo alla sociologia, diventando la cartina di tornasole di una gioventù in bilico tra un inaspettato conformismo (il matrimonio sembra essere uno dei punti di arrivo dell’intera saga) ed un erotismo che sfiora l’indicibile -dal punto di vista anagrafico l’unione tra Edward e Bella sarebbe improponibile, mentre è altrettanto chiara la tendenza promiscua della protagonista attratta da entrambi i suoi pretendenti- e che per questo può essere solo pensato. Ma senza scomodare il relativismo dilagante e confortati dall’annuncio di altri due capitoli della saga vampiresca, il primo dei quali diretto da David Slade (30 giorni di buio), uno specialista del genere, ci sentiamo di affermare che i conti vanno fatti solo alla fine e che il film in questione potrebbe rappresentare nella sua inconsistenza, il cavallo di ritorno di un successo inaspettato e forse non ancora digerito.
venerdì, dicembre 11, 2009
ITALIA '70 - La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori (1975) (puntata 14)
La città sconvolta: caccia spietata ai rapitori (1975)
Regia di Fernando Di Leo
Con Luc Merenda, Irina Maleeva, James Mason, Marino Mase', Daniele Dublino, Vittorio Caprioli, Valentina Cortese
TRAMA: Assieme al figlio del ricco costruttore Filippini viene rapito anche quello del meccanico Colella.
IL FILM: Alcuni banditi, rapiscono il piccolo Antonio Filippini, figlio di un ricco ingegnere e il suo amichetto Fabrizio Colella, orfano di madre, il cui padre e' un modesto meccanico.
Trattando con la segretaria dell'ingegnere i rapitori chiedono per il riscatto di Antonio, dieci miliardi.
L'ingegnere Filippini (J. Mason) tenta di abbassare le loro pretese tirando le trattative per le lunghe.
Per costringerlo a pagare, i malviventi uccidono il piccolo Fabrizio.
Vista l' impotenza della polizia, il meccanico Colella (L. Merenda) decide di agire in prima persona.
Il meccanico si scatena, annebbiato dalla sete di vendetta fino a giungere alla resa dei conti che avrà luogo in un luna park.
COMMENTO: Il poliziottesco secondo il maestro Fernando Di Leo.
Film dichiaratamente di sinistra con il disincantato commissario interpretato da Vittorio Caprioli alter ego del regista foggiano.
Il film affronta il tema dei sequestri di persona, a cui ovviamente DI LEO da un'impronta particolare, trasformandolo in un western metropolitano.
Il film è molto politico, con il regista che non esita a descrivere il facoltoso industriale come un uomo dal cuore di pietra che si rivolta con voluttà porcina nei suoi denari, esaltando al contempo la figura del proletario vendicatore.
Fernando Di Leo sembra essere particolarmente interessato alla prima parte del film, utilizzata per tracciare la psicologia dei personaggi, mentre la seconda parte è dedicata quasi esclusivamente all'azione.
CURIOSITA'-NOTIZIE: Indimenticabile la risposta pronunciata da Vittorio Caprioli all'assistente che invoca leggi più dure contro i sequestratori: " E se in questa nostra bella Italia non ci fosse più nessuno che se ne andasse in giro con una disponibilità di dieci miliardi, cosi, da un giorno all'altro, come se fossero noccioline, anche in questo caso i sequestri finirebbero".
Incasso che superò gli 800 milioni di lire.
Regia di Fernando Di Leo
Con Luc Merenda, Irina Maleeva, James Mason, Marino Mase', Daniele Dublino, Vittorio Caprioli, Valentina Cortese
TRAMA: Assieme al figlio del ricco costruttore Filippini viene rapito anche quello del meccanico Colella.
IL FILM: Alcuni banditi, rapiscono il piccolo Antonio Filippini, figlio di un ricco ingegnere e il suo amichetto Fabrizio Colella, orfano di madre, il cui padre e' un modesto meccanico.
Trattando con la segretaria dell'ingegnere i rapitori chiedono per il riscatto di Antonio, dieci miliardi.
L'ingegnere Filippini (J. Mason) tenta di abbassare le loro pretese tirando le trattative per le lunghe.
Per costringerlo a pagare, i malviventi uccidono il piccolo Fabrizio.
Vista l' impotenza della polizia, il meccanico Colella (L. Merenda) decide di agire in prima persona.
Il meccanico si scatena, annebbiato dalla sete di vendetta fino a giungere alla resa dei conti che avrà luogo in un luna park.
COMMENTO: Il poliziottesco secondo il maestro Fernando Di Leo.
Film dichiaratamente di sinistra con il disincantato commissario interpretato da Vittorio Caprioli alter ego del regista foggiano.
Il film affronta il tema dei sequestri di persona, a cui ovviamente DI LEO da un'impronta particolare, trasformandolo in un western metropolitano.
Il film è molto politico, con il regista che non esita a descrivere il facoltoso industriale come un uomo dal cuore di pietra che si rivolta con voluttà porcina nei suoi denari, esaltando al contempo la figura del proletario vendicatore.
Fernando Di Leo sembra essere particolarmente interessato alla prima parte del film, utilizzata per tracciare la psicologia dei personaggi, mentre la seconda parte è dedicata quasi esclusivamente all'azione.
CURIOSITA'-NOTIZIE: Indimenticabile la risposta pronunciata da Vittorio Caprioli all'assistente che invoca leggi più dure contro i sequestratori: " E se in questa nostra bella Italia non ci fosse più nessuno che se ne andasse in giro con una disponibilità di dieci miliardi, cosi, da un giorno all'altro, come se fossero noccioline, anche in questo caso i sequestri finirebbero".
Incasso che superò gli 800 milioni di lire.
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Italia '70 - Il cinema a mano armata,
registi
giovedì, dicembre 10, 2009
Film in sala dal 11 dicembre
Dieci inverni
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Valerio Mieli
Jennifer's Body
( Jennifer's Body )
GENERE: Commedia, Fantascienza, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Karyn Kusama
Land of the Lost
( Land of the Lost )
GENERE: Azione, Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Brad Silberling
Senza amore
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Renato Giordano
Welcome
( Welcome )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Philippe Lioret
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Valerio Mieli
Jennifer's Body
( Jennifer's Body )
GENERE: Commedia, Fantascienza, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Karyn Kusama
Land of the Lost
( Land of the Lost )
GENERE: Azione, Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Brad Silberling
Senza amore
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Renato Giordano
Welcome
( Welcome )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Philippe Lioret
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film in uscita 2009
mercoledì, dicembre 09, 2009
A SERIOUS MAN
A SERIOUS MAN
di J. & E. Cohen
Minnesota, 1967, Larry Gopnik (M. Stuhlbarg) è un ebreo laborioso, serio e onesto che insegna Fisica.
Larry non ha grandi pretese, desidera esclusivamente una vita tranquilla per sè e la sua famiglia, ma deve fare i conti con una serie infinita di problemi.
La moglie (S. Lennick) ha una relazione con un altro uomo (F. Melamed) e praticamente costringe Larry a trasferirsi in un Motel insieme al fratello disoccupato e malato; il figlio Danny (A. Wolff) è un adolescente che passa le sue giornate ad imbottirsi di canne ascoltando Somebody to Love dei Jefferson Airplane; la figlia maggiore pare non avere altri interessi che lavarsi continuamente i capelli.
Come se non bastasse, il povero Larry, dopo aver rifiutato di farsi corrompere da un alunno si ritrova ad essere ricattato.
A turbare ulteriormente l'esistenza del pacifico professore c'è anche la bellissima vicina di casa che ama farsi guardare mentre prende il sole completamente nuda.
Per cercare conforto e consigli, Larry si rivolge ai rabbini più importanti della comunità, non trovando nella saggezza rabbinica nè risposte, nè adeguate soluzioni.
I fratelli Coen dispensano crudeltà a piene mani in questo nuovo capitolo della loro variegata cinematografia, catapultando un uomo semplice e senza eccessive ambizioni nel più meschino dei mondi (il nostro) possibili.
A fare da sfondo alla storia di A SERIOUS MAN, c'è la comunità ebraica, che i Coen non esitano a criticare, ironizzando ferocemente sulla figura del Rabbino, che viene spesso dipinto come inadeguato al ruolo, indottrinato con frasi fatte, poco avvezzo a confrontarsi con la vita reale.
L'amara ironia dei Coen si abbatte anche sulla lobby degli avvocati ebrei che dietro la loro amabile disponibilità celano parcelle da capogiro, sintomo inequivocabile della loro avidità.
A SERIOUS MAN è una commedia amarissima tratteggiata con sapienza che non sfocia mai in una situazione esplicitamente comica o quantomeno divertente, ma che fa dell'ironia l'arma per scardinare le certezze di un uomo e di una intera comunità.
Il contesto Yiddish non deve indurre lo spettatore ad attendersi freddure o battute alla Woody Allen, da sempre molto aderente alle esigenze del pubblico europeo, che usa il cinismo e il disincanto come ariete per indurre alla risata facile, puntando sulla scarsa conoscenza e il qualunquismo che circonda le comunità ebraiche, in A SERIOUS MAN si punta molto più in alto.
I due registi colpiscono dall'interno, conoscendo perfettamente i punti sensibili.
I fratelli Coen confezionano il loro film miscelando humor nero e spiazzante cinismo, ottenendo grandi risultati e regolando qualche conto in sospeso con le proprie radici.
Ottimo il prologo di ambientazione polacca al pari del finale crudele e liberatorio.
di J. & E. Cohen
Minnesota, 1967, Larry Gopnik (M. Stuhlbarg) è un ebreo laborioso, serio e onesto che insegna Fisica.
Larry non ha grandi pretese, desidera esclusivamente una vita tranquilla per sè e la sua famiglia, ma deve fare i conti con una serie infinita di problemi.
La moglie (S. Lennick) ha una relazione con un altro uomo (F. Melamed) e praticamente costringe Larry a trasferirsi in un Motel insieme al fratello disoccupato e malato; il figlio Danny (A. Wolff) è un adolescente che passa le sue giornate ad imbottirsi di canne ascoltando Somebody to Love dei Jefferson Airplane; la figlia maggiore pare non avere altri interessi che lavarsi continuamente i capelli.
Come se non bastasse, il povero Larry, dopo aver rifiutato di farsi corrompere da un alunno si ritrova ad essere ricattato.
A turbare ulteriormente l'esistenza del pacifico professore c'è anche la bellissima vicina di casa che ama farsi guardare mentre prende il sole completamente nuda.
Per cercare conforto e consigli, Larry si rivolge ai rabbini più importanti della comunità, non trovando nella saggezza rabbinica nè risposte, nè adeguate soluzioni.
I fratelli Coen dispensano crudeltà a piene mani in questo nuovo capitolo della loro variegata cinematografia, catapultando un uomo semplice e senza eccessive ambizioni nel più meschino dei mondi (il nostro) possibili.
A fare da sfondo alla storia di A SERIOUS MAN, c'è la comunità ebraica, che i Coen non esitano a criticare, ironizzando ferocemente sulla figura del Rabbino, che viene spesso dipinto come inadeguato al ruolo, indottrinato con frasi fatte, poco avvezzo a confrontarsi con la vita reale.
L'amara ironia dei Coen si abbatte anche sulla lobby degli avvocati ebrei che dietro la loro amabile disponibilità celano parcelle da capogiro, sintomo inequivocabile della loro avidità.
A SERIOUS MAN è una commedia amarissima tratteggiata con sapienza che non sfocia mai in una situazione esplicitamente comica o quantomeno divertente, ma che fa dell'ironia l'arma per scardinare le certezze di un uomo e di una intera comunità.
Il contesto Yiddish non deve indurre lo spettatore ad attendersi freddure o battute alla Woody Allen, da sempre molto aderente alle esigenze del pubblico europeo, che usa il cinismo e il disincanto come ariete per indurre alla risata facile, puntando sulla scarsa conoscenza e il qualunquismo che circonda le comunità ebraiche, in A SERIOUS MAN si punta molto più in alto.
I due registi colpiscono dall'interno, conoscendo perfettamente i punti sensibili.
I fratelli Coen confezionano il loro film miscelando humor nero e spiazzante cinismo, ottenendo grandi risultati e regolando qualche conto in sospeso con le proprie radici.
Ottimo il prologo di ambientazione polacca al pari del finale crudele e liberatorio.
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recensioni
Nel paese delle creature selvagge
Nel paese delle creature selvagge
di Spike Jonze
Dopo aver portato sullo schermo nevrosi e sceneggiature di un tipo come Charlie Kaufmann, che già il nome sembra definire dentro dimensioni di tipo kafkiano e che invece questa volta non c’entra niente con il nostro, Spike Jonze volge il suo sguardo al mondo dell’infanzia filmando il libro illustrato di Maurice Sendak, e per farlo, decide di rimanere il più attaccato alla realtà, realizzando le creature che danno il titolo al film ed il mondo che ruota attorno a loro, riducendo al massimo l'apparato tecnologico, a favore di uno spettacolo in cui la meraviglia deriva dalla percezione che il corto circuito tra il mondo reale, rappresentato dal bambino, e quello immaginario, popolato dalle creature selvagge, non sia il frutto di un assemblaggio virtuale ma esista veramente in qualche parte del pianeta.
Abbandonandosi alla bellezza delle immagini, illuminate da uno specialista delle luci naturali come Lance Acord, capace di trasformare l'isola in cui si svolge il film in una terra di mezzo, e dopo essersi abituati alla consistenza materica dei mostri, costruiti addosso ad attori in carne ossa che ne assicuravano il movimento, non si fa fatica ad entrare all'interno della storia dimenticandosi della finzione scenica.
Dopo uno splendido inizio, in cui le difficoltà del bambino nel rapportarsi con il mondo degli adulti sono rese con un montaggio emotivo, il film si appesantisce quando deve raccontare l’anarchia di una mente che esorcizza le proprie paure diventando il deus ex machina di un mondo, in cui le esperienze pregresse vengono rielaborate attraverso un modello familiare che ripete, enfatizzandole nella morfologia primordiale delle creature selvagge, le dinamiche relazionali del mondo reale.
I comportamenti sconclusionati e le espressioni a metà tra il serio ed il faceto riempiono lo schermo interromponendo momenti di pausa interminabili, in cui il piccolo fuggiasco metabolizza gli insegnamenti di un esperienza fuori dal normale.
Ed è proprio la delicatezza del giovane interprete, capace di sottolineare con la spontaneità tipica dell’età i vari passaggi della storia, a salvare, almeno in parte un opera che non riesce a bissare sul piano dell’interesse le indubbie qualità della forma.
di Spike Jonze
Dopo aver portato sullo schermo nevrosi e sceneggiature di un tipo come Charlie Kaufmann, che già il nome sembra definire dentro dimensioni di tipo kafkiano e che invece questa volta non c’entra niente con il nostro, Spike Jonze volge il suo sguardo al mondo dell’infanzia filmando il libro illustrato di Maurice Sendak, e per farlo, decide di rimanere il più attaccato alla realtà, realizzando le creature che danno il titolo al film ed il mondo che ruota attorno a loro, riducendo al massimo l'apparato tecnologico, a favore di uno spettacolo in cui la meraviglia deriva dalla percezione che il corto circuito tra il mondo reale, rappresentato dal bambino, e quello immaginario, popolato dalle creature selvagge, non sia il frutto di un assemblaggio virtuale ma esista veramente in qualche parte del pianeta.
Abbandonandosi alla bellezza delle immagini, illuminate da uno specialista delle luci naturali come Lance Acord, capace di trasformare l'isola in cui si svolge il film in una terra di mezzo, e dopo essersi abituati alla consistenza materica dei mostri, costruiti addosso ad attori in carne ossa che ne assicuravano il movimento, non si fa fatica ad entrare all'interno della storia dimenticandosi della finzione scenica.
Dopo uno splendido inizio, in cui le difficoltà del bambino nel rapportarsi con il mondo degli adulti sono rese con un montaggio emotivo, il film si appesantisce quando deve raccontare l’anarchia di una mente che esorcizza le proprie paure diventando il deus ex machina di un mondo, in cui le esperienze pregresse vengono rielaborate attraverso un modello familiare che ripete, enfatizzandole nella morfologia primordiale delle creature selvagge, le dinamiche relazionali del mondo reale.
I comportamenti sconclusionati e le espressioni a metà tra il serio ed il faceto riempiono lo schermo interromponendo momenti di pausa interminabili, in cui il piccolo fuggiasco metabolizza gli insegnamenti di un esperienza fuori dal normale.
Ed è proprio la delicatezza del giovane interprete, capace di sottolineare con la spontaneità tipica dell’età i vari passaggi della storia, a salvare, almeno in parte un opera che non riesce a bissare sul piano dell’interesse le indubbie qualità della forma.
LOOKING FOR ERIC - Il mio amico Eric
Il segno dei tempi pare aver condizionato anche Ken Loach se è vero che persino un regista come lui, abituato ad affondare le mani nei miasmi della vita ed allergico agli artifici hollywoodiani, questa volta si affida ad un personaggio di fantasia (nel senso che Eric Cantona è una proiezione del protagonista appassionato di calcio e fan del giocatore) per dare vita ad una storia che ripropone gli stilemi del suo cinema ma li arricchisce con un immaginazione ed una leggerezza sconosciuta: se la vicenda di Eric, un postino alle prese con i problemi di una famiglia allargata e le conseguenze di un matrimonio fallito ripropone la figura di un uomo che prova ad invertire la propria parabola esistenziale e che il senso di militanza è ancora presente nella vicinanza dei colleghi di lavoro, assidui nel sostenere l’amico eternamente depresso e decisivi (in una scena di rara ilarità) quando lo stesso deciderà di reagire per le rime nei confronti di una pericolosa gang che minaccia i suoi figliastri, è altrettanto vero che gli snodi principali del film (la presa di coscienza della propria condizione, la volontà di recuperare il rapporto con la moglie che aveva abbandonato, il recupero di una dignità perduta) passano attraverso i consigli di un “uomo che non c’è”, e che lo stile, pur rimanendo attaccato al referto documentaristico mostra la volontà di affidarsi a soluzioni di certo cinema americano (l’uso del flash back e la luce d’orata nei ricordi amorosi di Erick ma anche la celerità con cui i personaggi di contorno sono pronti a prodigarsi per alleviare le pene del nostro eroe). Ma anche la decisione di affidarsi alla genuinità di un non attore che rappresenta, seppur con le stimmate del bastian contrario (una specie di Che Quevara dei campi di calcio), la quintessenza di uno sport votato al capitale e di insistere con numerosi inserti di repertorio che illustrano insieme le doti del calciatore e la passione del protagonista è una risposta a chi crede che l’impegno civile passi solo attraverso l’indignazione e la seriosità a tutti i costi. Lunga vita a Ken Loach ed ai suoi sogni di un mondo migliore.
venerdì, dicembre 04, 2009
500 days of summer
500 days of summer
di Marc Webb
Costruire l'amore/Decostruire l'amore: sono questi i presupposti che muovono l’ultimo film di Marc Webb, 500 days of summer, commedia agrodolce imperniata sulle vicende sentimentali di Tom Hansen, inguaribile romantico con la passione per l’architettura e Summer Finn, dolcemente disincantata e decisa a conservare la propria indipendenza, diversamente coinvolti in una relazione fuori dagli schemi eppure segnata dalle idiosincrasie che sempre accompagnano i favoriti da Cupido.
Scandita da un calendario immaginario che la sceneggiatura costruisce per assecondare la voce over, a cui spetta il compito di far progredire la storia ed insieme di dimostrare con andirivieni temporali l'imprevedibilità di un sentimento amoroso, da sempre costretto a declinarsi secondo i parametri del cuore ed anche del destino, la storia di Tom e Summer (che nella versione italiana si chiamerà Sole) ha un gusto vagamente retrò, non solo per la presenza di due caratteri dalla fotogenia anomala, vicina ai gusti di un pubblico che alla bellezza delle forme preferisce quella delle idee, ma anche per le soluzioni di una regia che ammicca apertamente alla New Hollywood, con la musica che diventa manifesto dello stato d’animo dei personaggi e per certe "ingenuità" che hanno caratterizzato alcuni eroi di quel periodo (palese il richiamo al "Laureato" ma anche a "Come Eravamo"), ed al movimento della Novelle Vague, presente nell'inguaribile fiducia (o follia) che permette ai personaggi di sopravvivere con malinconica leggerezza agli ostacoli del cuore.
Ed anche la trovata di invertire le predisposizioni biologiche, attribuendo ai personaggi caratteristiche e vicissitudini che appartengono al sesso opposto contribuisce ad invertire il trend di una commedia americana prevedibilmente sessista.
Purtroppo Webb non riesce a rendere spontanea la propria cinefilià ed appesantisce il film con una serie di trovate, che a cominciare dai fotogrammi che sembrano venire fuori dagli schizzi con cui Tom sfoga la sua frustrazione di architetto mancato, alla complicità con il pubblico ricercata nell’espediente degli attori che si rivolgono allo spettatore, fino ai giochetti temporali volti a pareggiare i momenti felici con quelli deprimenti, tolgono spazio all'emotività di una vicenda che dovendo rispettare l'assunto di partenza frena (per eccessivo schematismo) la performance della coppia Leavitt/Deschanel.
di Marc Webb
Costruire l'amore/Decostruire l'amore: sono questi i presupposti che muovono l’ultimo film di Marc Webb, 500 days of summer, commedia agrodolce imperniata sulle vicende sentimentali di Tom Hansen, inguaribile romantico con la passione per l’architettura e Summer Finn, dolcemente disincantata e decisa a conservare la propria indipendenza, diversamente coinvolti in una relazione fuori dagli schemi eppure segnata dalle idiosincrasie che sempre accompagnano i favoriti da Cupido.
Scandita da un calendario immaginario che la sceneggiatura costruisce per assecondare la voce over, a cui spetta il compito di far progredire la storia ed insieme di dimostrare con andirivieni temporali l'imprevedibilità di un sentimento amoroso, da sempre costretto a declinarsi secondo i parametri del cuore ed anche del destino, la storia di Tom e Summer (che nella versione italiana si chiamerà Sole) ha un gusto vagamente retrò, non solo per la presenza di due caratteri dalla fotogenia anomala, vicina ai gusti di un pubblico che alla bellezza delle forme preferisce quella delle idee, ma anche per le soluzioni di una regia che ammicca apertamente alla New Hollywood, con la musica che diventa manifesto dello stato d’animo dei personaggi e per certe "ingenuità" che hanno caratterizzato alcuni eroi di quel periodo (palese il richiamo al "Laureato" ma anche a "Come Eravamo"), ed al movimento della Novelle Vague, presente nell'inguaribile fiducia (o follia) che permette ai personaggi di sopravvivere con malinconica leggerezza agli ostacoli del cuore.
Ed anche la trovata di invertire le predisposizioni biologiche, attribuendo ai personaggi caratteristiche e vicissitudini che appartengono al sesso opposto contribuisce ad invertire il trend di una commedia americana prevedibilmente sessista.
Purtroppo Webb non riesce a rendere spontanea la propria cinefilià ed appesantisce il film con una serie di trovate, che a cominciare dai fotogrammi che sembrano venire fuori dagli schizzi con cui Tom sfoga la sua frustrazione di architetto mancato, alla complicità con il pubblico ricercata nell’espediente degli attori che si rivolgono allo spettatore, fino ai giochetti temporali volti a pareggiare i momenti felici con quelli deprimenti, tolgono spazio all'emotività di una vicenda che dovendo rispettare l'assunto di partenza frena (per eccessivo schematismo) la performance della coppia Leavitt/Deschanel.
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recensioni
giovedì, dicembre 03, 2009
Film in sala dal 4 dicembre
A Christmas Carol
( A Christmas Carol )
GENERE: Fantasy
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Robert Zemeckis
A Serious Man
( A Serious Man )
GENERE: Commedia, Noir
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Ethan Coen, Joel Coen
Ben X
( Ben X )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Belgio, Olanda
REGIA: Nic Balthazar
Il mio amico Eric
( Looking for Eric )
GENERE: Commedia, Drammatico, Sportivo
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Belgio, Francia, Gran Bretagna, Italia
REGIA: Ken Loach
L'isola delle coppie
( Couples Retreat )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Peter Billingsley
L'uomo nero
GENERE: Commedia, Romantico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Sergio Rubini
Moon
( Moon )
GENERE: Fantascienza, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Duncan Jones
Ninja Assassin
( Ninja Assassin )
GENERE: Azione, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: James McTeigue
Non è ancora domani (La Pivellina)
( La Pivellina )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD:2009
NAZIONALITÀ Australia, Italia
REGIA: Tizza Covi, Rainer Frimmel
( A Christmas Carol )
GENERE: Fantasy
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Robert Zemeckis
A Serious Man
( A Serious Man )
GENERE: Commedia, Noir
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Ethan Coen, Joel Coen
Ben X
( Ben X )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2007
NAZIONALITÀ Belgio, Olanda
REGIA: Nic Balthazar
Il mio amico Eric
( Looking for Eric )
GENERE: Commedia, Drammatico, Sportivo
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Belgio, Francia, Gran Bretagna, Italia
REGIA: Ken Loach
L'isola delle coppie
( Couples Retreat )
GENERE: Commedia
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Peter Billingsley
L'uomo nero
GENERE: Commedia, Romantico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Italia
REGIA: Sergio Rubini
Moon
( Moon )
GENERE: Fantascienza, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Gran Bretagna
REGIA: Duncan Jones
Ninja Assassin
( Ninja Assassin )
GENERE: Azione, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: James McTeigue
Non è ancora domani (La Pivellina)
( La Pivellina )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD:2009
NAZIONALITÀ Australia, Italia
REGIA: Tizza Covi, Rainer Frimmel
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film in uscita 2009
mercoledì, dicembre 02, 2009
La dura Verita'
La dura Verità
di Robert Luketic
Una commedia che guarda al passato per rinverdire una tradizione di grande cinema e due attori che cercano la definitiva consacrazione sono i motivi principali di “The Ugly Truth”, la commedia di Robert Luketic ambientata nel mondo della televisione ed incentrata sulla dialettica caratteriale che oppone una produttrice impegnata a risollevare gli indici d’ascolto del suo programma ed un conduttore sulla cresta dell’onda per il successo ottenuto dalle dissertazioni amorose dispensate nell’inserto televisivo che da il titolo al film.
"La cruda verità" diventa così lo slogan di un personaggio (Mike Chadway) che fa di tutto per apparire politicamente scorretto, a cominciare dai modi diretti ed un po’ invadenti con cui si propone allo spettatore, e che affrontano senza reticenze i problemi della coppia, oppure divertendosi a provocarne gli istinti con goliardici siparietti che possono prevedere anche evoluzioni acquatiche con la complicità di ragazze compiacenti.
continua a leggere la recensione dl film sul sito di ONDACINEMA
di Robert Luketic
Una commedia che guarda al passato per rinverdire una tradizione di grande cinema e due attori che cercano la definitiva consacrazione sono i motivi principali di “The Ugly Truth”, la commedia di Robert Luketic ambientata nel mondo della televisione ed incentrata sulla dialettica caratteriale che oppone una produttrice impegnata a risollevare gli indici d’ascolto del suo programma ed un conduttore sulla cresta dell’onda per il successo ottenuto dalle dissertazioni amorose dispensate nell’inserto televisivo che da il titolo al film.
"La cruda verità" diventa così lo slogan di un personaggio (Mike Chadway) che fa di tutto per apparire politicamente scorretto, a cominciare dai modi diretti ed un po’ invadenti con cui si propone allo spettatore, e che affrontano senza reticenze i problemi della coppia, oppure divertendosi a provocarne gli istinti con goliardici siparietti che possono prevedere anche evoluzioni acquatiche con la complicità di ragazze compiacenti.
continua a leggere la recensione dl film sul sito di ONDACINEMA
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