La verità è che non gli piaci abbastanza
Filo conduttore e malattia sotterranea delle più variegate espressioni artistiche novecentesche, la frammentazione dell’io caratterizza molta produzione cinematografica del nuovo millennio; e se il cinema in generale continua a lavorare dall’interno elaborando stili ed estetiche, di cui la discontinuità narrativa, le riprese frammentate, il cambiamento sistematico delle prospettive e dei punti di vista, lo spostamento del senso a favore di una logica che si fa gioco delle differenze spaziali e temporali, sono solo alcuni degli espedienti usati per riprodurre ed indagare lo spaesamento collettivo di fronte ad una realtà che ha moltiplicato in maniera esponenziale le caratteristiche di mutevolezza e di mistero, così non si può dire di quello mainstream che limitandosi ad applicare queste idee in maniera cinica ed acritica finisce per utilizzare in superficie i risultati di tanta applicazione.
E’ quello che avviene per esempio, in “La verità è che non gli piaci abbastanza”, ennesimo film per ragazze, in cui un manipolo di donne legate da motivi affettivi o di lavoro, si ritrova nella condizione di dover mettere in discussione la qualità dei rispettivi legami sentimentali.
Qui infatti la complessità di uno stato d’animo di per sé inafferrabile e la traduzione che in termini filmici ne dovrebbe derivare si mantiene lontano da qualsiasi elaborazione, trasformandosi in un moltiplicatore di personaggi standard (la bellona, la bruttina, la single e la sposata) che nella loro varietà dovrebbero corrispondere alla casistica messa in atto dalla struttura a tesi in cui il film è organizzato.
Invece che lavorare dall’interno, cercando di stabilire un punto di contatto tra l’idea di partenza e la sua formulazione, non solo a parole ma anche nei fatti, il film si perde in una serie di storie allo specchio, in cui il punto di partenza di una (la richiesta di matrimonio non accettata, un incontro con una bella sconosciuta, l’impossibilità di dare seguito al primo appuntamento) finirà per diventare il punto di arrivo dell’altra e viceversa.
Dopo un prologo iniziale, in cui il film si diverte a mischiare le carte con un inchiesta semiseria sulle origini dell’insoddisfazione amorosa, espediente molto usato dalla commedia americana degli anni 50/60, la vicenda si incammina senza guizzi verso un clima televisivo che, rivolgendosi quasi esclusivamente al pubblico femminile, punta tutto sul sentimento di condivisione per le pene d’amore sopportate dalle sfortunate ragazze e sull’inadeguatezza emotiva della compagine maschile.
Tra “Friends” e “Sex and the City”, una dichiarazione d’intenti testimoniata da un casting tutto sbilanciato a favore delle attrici, sia in termini di presenza scenica che in quello di carisma, la cui unica preoccupazione è quella di ripetere all’infinito il gioco delle parti (maschi contro femmine).
In mancanza di dialoghi accettabili e con una regia senza ritmo, la nevrosi rimane tutta nel viso emaciato di Jennifer Connelly, in quello perennemente imbronciato dell’altra Jennifer e nella solita Scarlett Johansson, che almeno se la gode e valorizza la sua fotogenia con l’immancabile accoppiamento.
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