"Moonrise kingdom. Una fuga d'amore"
(Moonrise kingdom)
regi di: W. Anderson
con: J. Gilman, K. Hayward, B. Willis, E. Norton, B. Murray, F. McDormand
- USA 2012 -95'
recensione di TheFisherKing
"Moonrise kingdom" e' avvolto dalle note di Benjamin Britten; contrappuntato ndalla presenza di un narratore; chiuso da una tempesta che ridisegnerà la mappa
dei rapporti di forza e degli affetti all'interno di una piccola comunità di un isolotto del New England nell'anno di grazia 1965.
Entro i contorni di una commedia dal sapore shakespeariano, Suzie Bishop (Kara Hayward) e Sam Shakusky (Jared Gilman) sono due dodicenni in rotta col mondo: lei, pensierosa e testarda, depressa precoce, cerca di sfuggire all'ottuso quanto grottesco rigorismo formalistico familiare dei genitori entrambi
avvocati (il padre, un lunatico Bill Murray, attaccato ai cavilli e una madre stralunata, Frances McDormand, che convoca i figli agli orari canonici, colazione-pranzo-cena- discussioni, a colpi di megafono); lui, orfano,
pragmatico e di piglio intrepido, bislacco boy-scout occhialuto emarginato dal resto della truppa capitanata da un semi catatonico Edward Norton, rimugina una via d'uscita non oltre il perimetro nascosto di un'insenatura nelle vicinananze di un vecchio sentiero indiano Chichchaw, eletta a "new promise land". Suzie e
Sam, incontratisi l'anno precedente i fatti ad una recita scolastica ("Il diluvio di Noè" di Britten) dalla quale lui cerca di svignarsela e lei ha la parte del corvo, dopo una fitta e segreta corrispondenza, decidono di darsela
insieme.
Anderson si tiene stretti i suoi personaggi naive e stravaganti quanto
dall'animo complicato e tratteggia, tra un tableau vivant e l'altro, un
percorso di formazione interiore e di scoperta del mondo che, nella lunghissima
tradizione letteraria sulla giovinezza avventurosa e problematica che va da Tom
Sawyer e Huckleberry Finn agli già stringenti rovelli dell'Holden salingeriano
- passando per tutta una serie di omaggi più o meno espliciti al canone
pittorico americano del XX secolo - si sviluppa e si precisa tra le maglie di
una trama esile nella struttura e dagli esiti prevedibili, fino a risultare il
cuore pulsante del film. Un cuore autenticamente tenero, gentile, imbarazzato,
quindi spontaneo, grazie soprattutto all'apporto dei giovanissimi Hayward e
Gilman, spesso ma con agilità sopra e sotto le righe, come già avvertiti da una
sorta di naturale accortezza e misura, in grado di restituirci palpabili e
significativi i silenzi, le esitazioni, le audacie legate all'incanto di
momenti strani e irripetibili.
Il resto, il clima tra cartoon e favola adulta, la ricchezza dei colori
sgargianti, il cast compresso in una calibratissima rigidità, ribadiscono la
particolare "maniera" di Anderson, il suo impercettibile distacco, l'antico
sospetto di garbata freddezza.
TheFisherKing
lunedì, dicembre 31, 2012
Moonrise Kingdom
domenica, dicembre 30, 2012
La regola del silenzio
La regola del silenzio
(The company you keep)
regia di: R. Redford
con: R. Redford, S. LaBeouf, R. Jenkins, J. Christie, S. Tucci, S. Sarandon, N. Nolte. C. Cooper - USA 2012 - 125'
recensione di TheFisherKing
- La Storia -
Alla fine dei '60 Robert Kennedy viene ucciso, Nixon subentra a Johnson, l'impasse nel sud-est asiatico si avvita in una spirale sempre più sanguinosa: all'interno di una galassia protestataria vasta e variegata nasce, come costola scissionista degli "Students for a democratic society" - gruppo di sinistra radicale - l'"esperimento" dei Weather Underground, teorizzatori e praticanti di atti dinamitardi a scopo dimostrativo (nelle intenzioni, contro luoghi e cose ma non contro persone) a contrasto delle politiche governative, in specie quelle che indirizzano il conflitto in Vietnam. Questo e' anche il momento in cui si raggiunge il punto critico dell'opposizione movimentista: il crinale su cui il tentativo di cambiamento - illusione venata di sogno - si spezza per sempre e viene sopraffatto da un'altra illusione - stavolta impregnata di disperazione - quella in base alla quale ciò che tarda ad arrivare attraverso la testimonianza e la mediazione può essere ottenuto col tramite di uno scossone violento. In altre parole, l'arca utopico/innovatrice del "cambiare il mondo e' possibile", affonda, negli Stati Uniti come altrove (tra l'altro non sortendo risultati apprezzabili ne' a breve ne' a lunga scadenza, se e' vero che conflitti e diseguaglianze sociali nei decenni si sono inaspriti e che i "ricchi e ricchissimi", come si dice nel film, ossia il famigerato uno per cento di superprivilegiati, sono oggi ancor più facoltosi e influenti di ieri) quando comincia a vorticare il mälström dell'opzione terroristica.
- La Storia e il film -
Sarà che il periodo in questione - fine anni '60, prima meta' dei '70 - e'
stato probabilmente l'ultimo in cui l'Occidente inteso come grande idea di
società, fra tante contraddizioni, ha cercato di ripensare criticamente se
stesso nella convinzione che l'ossatura teorica attorno a cui era cresciuto (il
concetto d'individuo e di libertà individuale; la possibilità/occasione
d'intrapresa economica; la nemmeno tanto strisciante presunzione d'incarnare il
massimo grado di perfettibilità dell'avventura umana) andava producendo
sinistri scricchiolii: pero', nella nuova fatica del liberal USA per eccellenza
- Robert Redford - a dire questo "La regola del silenzio" che, al solito,
maldestramente rende il ben più sibillino e metaforico originale "The company
you keep", non si riesce proprio più a respirare un'aria da futuro-a-portata-di-
mano, nel senso che i quaranta e passa anni che ci separano dai fatti narrati
più che trascorsi sembrano sprofondati di colpo, tanto e' carente la continuità
psicologica (ideale e sentimentale) e quindi la presa emotiva rispetto alla
simile rilettura polemica che proprio il cinema americano aveva avviato a
ridosso dei fermenti più conflittuali della sua società e di cui lo stesso
Redford era stato senza ombra di dubbio una delle figure più rappresentative.
Le osservazioni di Pakula, di Pollack, di Lumet, come quelle più oblique ma non
meno accorte di Penn, di Ritt, riuscivano a restituire oltre alle circostanze e
a personaggi interessanti e credibili, il clima interiore dei tempi, a dire le
impercettibili fratture nel tessuto delle cose e dei rapporti, rivestendo le
loro opere di una sorta di "preveggente disincanto" che li garantiva in egual
misura dall'esaltazione come dal distacco, regalando, negli esiti migliori, uno
sguardo sul mondo al tempo umano, etico e civile. Di tutto questo in "The
company you keep" c'è solo il guscio, l'intenzione nobile, Redford (il suo
corpo invecchiato ma non ancora orfano del celebre carisma) e poco altro, tipo
fornire una boccata d'ossigeno ad un'idea nel tentativo di storicizzarla
obiettivamente e porla al riparo dalle nostalgie consolatorie; ripresentarla
all'attenzione di un mondo feroce e distratto, forse una volta per tutte
deideologizzato.
La vicenda dei cosiddetti "Weathermen" (debitori del nome da un verso del
brano di Dylan del '65, "Subterranean homesick blues", che recita: "You don't
need a weatherman to know which way the wind blows", più o meno: "Non ti serve
un meteorologo per capire che aria tira"), attivi all'incirca fino al '76,
s'inserisce in una più ampia transizione - entro cui convivono delusione,
stanchezza, rabbia, senso d'impotenza - che avrebbe giocato un ruolo non
secondario, con l'esaurimento della spinta ideale e lo stemperarsi o la
difficoltà a reindirizzarsi dell'entusiasmo giovanile, nell'affermazione della
risacca conformista degli anni '80. Nella finzione/ricostruzione uno di loro,
Jim Grant (Redford), reinseritosi semiclandestinamente nel tessuto sociale, di
professione avvocato, vedovo con ragazzina a carico ma soprattutto con
un'accusa ancora pendente di rapina a mano armata e omicidio, per via delle
ricerche avviate da un reporter ficcanaso di un piccolo giornale locale, Ben
Shepard (LaBeouf), e' costretto a mollare il tranquillo tran tran ormai
considerato certezza e a rimettersi sulle tracce del proprio passato - che,
come insegna Faulkner, "non e' mai del tutto passato" - riannodando per
necessita' antiche frequentazioni, lottando contro il tempo e i segugi dell'FBI
per rintracciare l'unica persona in grado di dimostrare la sua innocenza. Se
gli attori, misurati e precisi al punto da sembrare più gente chiamata a
rivivere esperienze personali che professionisti della recitazione (a tutto
svantaggio - absit iniuria verbo - delle nuove leve, a dire soprattutto di uno
come LaBeouf, a cui neanche il cote' da giornalista d'inchiesta riesce a
fornire panni meno incolore di quelli del petulante tampinatore) aggiungono
fascino e credibilità, e' il meccanismo in cui essi vengono calati, la
struttura che dovrebbe tenere insieme gesti, espressioni e parole, a latitare:
la fuga di Redford, ad esempio, ora trafelata ora come in credito col tempo,
non ha la scansione di una caccia all'ultimo respiro ma più quella - esiziale
per il ritmo - di un pellegrinaggio forzato, ad ogni stazione del quale si
rievocano/riepilogano con accenti più perplessi che dolorosi, più infastiditi
che partecipi, luoghi e persone come fossero oramai null'altro che forme e
fantasmi, in sequenze e inquadrature spesso pericolosamente in bilico sulla
piattezza televisiva, un po' History channel, un po' "procedural".
Significative di questa "difficoltà" di fondo sono pure le parole pronunciate
dalla Sarandon durante il suo iniziale colloquio con LaBeouf ("Abbiamo
sbagliato ma avevamo ragione", che suona più come una sorta di fuga in avanti
fuori tempo massimo che come un'amara constatazione dei fatti); o quelle
rivolte in extremis dalla Christie a Redford quando se lo trova davanti dopo
decenni ("Come sei invecchiato", a denunciare involontariamente la lontananza
spirituale, se possibile ancor meno colmabile di quella cronologica, da tutto
ciò che non si può più sul serio vivere ancora). Allo stesso modo, la parte
relativa al lavoro d'investigazione giornalistica (a cui viene giustapposta, e
con la stessa rapidità negato ogni esito significativo, una storia sentimentale
da un lato e un segreto a lungo sepolto dall'altro) non ha l'urgenza di verità,
la veemenza e anche lo slancio e l'ingenuità dei prototipi a cui vorrebbe
rifarsi (e qui le spalle non ancora larghe di LaBeouf su cui si dovrebbe
caricare l'onere del passaggio di consegne tra generazioni caro alla poetica
redfordiana, hanno poco da rimproverarsi): e' al contrario utilizzata come mero
espediente da contrapporre alla linea più (presunta) "action" della trama.
Così, "The company you keep" propugna intenti lodevoli ma non ha la forza di
rendercene partecipi. Ci fa assistere all'azzardo di mettere le mani
sull'orologio della Storia ma non consente un coinvolgimento immediato e
sincero. Quando l'elicottero dell'FBI fa la sua entrata in scena rievocando col
suo frullare i rotori di quelli che riversavano truppe in Vietnam, forse
un'epoca si chiude davvero e per sempre. Cosa resta ? Magari la cosa più bella
del film: il "Condor" che torna a casa. Ad aspettarlo non più la CIA, non la
Rivoluzione ma una persona da crescere e da amare.
TheFisherKing
(The company you keep)
regia di: R. Redford
con: R. Redford, S. LaBeouf, R. Jenkins, J. Christie, S. Tucci, S. Sarandon, N. Nolte. C. Cooper - USA 2012 - 125'
recensione di TheFisherKing
- La Storia -
Alla fine dei '60 Robert Kennedy viene ucciso, Nixon subentra a Johnson, l'impasse nel sud-est asiatico si avvita in una spirale sempre più sanguinosa: all'interno di una galassia protestataria vasta e variegata nasce, come costola scissionista degli "Students for a democratic society" - gruppo di sinistra radicale - l'"esperimento" dei Weather Underground, teorizzatori e praticanti di atti dinamitardi a scopo dimostrativo (nelle intenzioni, contro luoghi e cose ma non contro persone) a contrasto delle politiche governative, in specie quelle che indirizzano il conflitto in Vietnam. Questo e' anche il momento in cui si raggiunge il punto critico dell'opposizione movimentista: il crinale su cui il tentativo di cambiamento - illusione venata di sogno - si spezza per sempre e viene sopraffatto da un'altra illusione - stavolta impregnata di disperazione - quella in base alla quale ciò che tarda ad arrivare attraverso la testimonianza e la mediazione può essere ottenuto col tramite di uno scossone violento. In altre parole, l'arca utopico/innovatrice del "cambiare il mondo e' possibile", affonda, negli Stati Uniti come altrove (tra l'altro non sortendo risultati apprezzabili ne' a breve ne' a lunga scadenza, se e' vero che conflitti e diseguaglianze sociali nei decenni si sono inaspriti e che i "ricchi e ricchissimi", come si dice nel film, ossia il famigerato uno per cento di superprivilegiati, sono oggi ancor più facoltosi e influenti di ieri) quando comincia a vorticare il mälström dell'opzione terroristica.
- La Storia e il film -
Sarà che il periodo in questione - fine anni '60, prima meta' dei '70 - e'
stato probabilmente l'ultimo in cui l'Occidente inteso come grande idea di
società, fra tante contraddizioni, ha cercato di ripensare criticamente se
stesso nella convinzione che l'ossatura teorica attorno a cui era cresciuto (il
concetto d'individuo e di libertà individuale; la possibilità/occasione
d'intrapresa economica; la nemmeno tanto strisciante presunzione d'incarnare il
massimo grado di perfettibilità dell'avventura umana) andava producendo
sinistri scricchiolii: pero', nella nuova fatica del liberal USA per eccellenza
- Robert Redford - a dire questo "La regola del silenzio" che, al solito,
maldestramente rende il ben più sibillino e metaforico originale "The company
you keep", non si riesce proprio più a respirare un'aria da futuro-a-portata-di-
mano, nel senso che i quaranta e passa anni che ci separano dai fatti narrati
più che trascorsi sembrano sprofondati di colpo, tanto e' carente la continuità
psicologica (ideale e sentimentale) e quindi la presa emotiva rispetto alla
simile rilettura polemica che proprio il cinema americano aveva avviato a
ridosso dei fermenti più conflittuali della sua società e di cui lo stesso
Redford era stato senza ombra di dubbio una delle figure più rappresentative.
Le osservazioni di Pakula, di Pollack, di Lumet, come quelle più oblique ma non
meno accorte di Penn, di Ritt, riuscivano a restituire oltre alle circostanze e
a personaggi interessanti e credibili, il clima interiore dei tempi, a dire le
impercettibili fratture nel tessuto delle cose e dei rapporti, rivestendo le
loro opere di una sorta di "preveggente disincanto" che li garantiva in egual
misura dall'esaltazione come dal distacco, regalando, negli esiti migliori, uno
sguardo sul mondo al tempo umano, etico e civile. Di tutto questo in "The
company you keep" c'è solo il guscio, l'intenzione nobile, Redford (il suo
corpo invecchiato ma non ancora orfano del celebre carisma) e poco altro, tipo
fornire una boccata d'ossigeno ad un'idea nel tentativo di storicizzarla
obiettivamente e porla al riparo dalle nostalgie consolatorie; ripresentarla
all'attenzione di un mondo feroce e distratto, forse una volta per tutte
deideologizzato.
La vicenda dei cosiddetti "Weathermen" (debitori del nome da un verso del
brano di Dylan del '65, "Subterranean homesick blues", che recita: "You don't
need a weatherman to know which way the wind blows", più o meno: "Non ti serve
un meteorologo per capire che aria tira"), attivi all'incirca fino al '76,
s'inserisce in una più ampia transizione - entro cui convivono delusione,
stanchezza, rabbia, senso d'impotenza - che avrebbe giocato un ruolo non
secondario, con l'esaurimento della spinta ideale e lo stemperarsi o la
difficoltà a reindirizzarsi dell'entusiasmo giovanile, nell'affermazione della
risacca conformista degli anni '80. Nella finzione/ricostruzione uno di loro,
Jim Grant (Redford), reinseritosi semiclandestinamente nel tessuto sociale, di
professione avvocato, vedovo con ragazzina a carico ma soprattutto con
un'accusa ancora pendente di rapina a mano armata e omicidio, per via delle
ricerche avviate da un reporter ficcanaso di un piccolo giornale locale, Ben
Shepard (LaBeouf), e' costretto a mollare il tranquillo tran tran ormai
considerato certezza e a rimettersi sulle tracce del proprio passato - che,
come insegna Faulkner, "non e' mai del tutto passato" - riannodando per
necessita' antiche frequentazioni, lottando contro il tempo e i segugi dell'FBI
per rintracciare l'unica persona in grado di dimostrare la sua innocenza. Se
gli attori, misurati e precisi al punto da sembrare più gente chiamata a
rivivere esperienze personali che professionisti della recitazione (a tutto
svantaggio - absit iniuria verbo - delle nuove leve, a dire soprattutto di uno
come LaBeouf, a cui neanche il cote' da giornalista d'inchiesta riesce a
fornire panni meno incolore di quelli del petulante tampinatore) aggiungono
fascino e credibilità, e' il meccanismo in cui essi vengono calati, la
struttura che dovrebbe tenere insieme gesti, espressioni e parole, a latitare:
la fuga di Redford, ad esempio, ora trafelata ora come in credito col tempo,
non ha la scansione di una caccia all'ultimo respiro ma più quella - esiziale
per il ritmo - di un pellegrinaggio forzato, ad ogni stazione del quale si
rievocano/riepilogano con accenti più perplessi che dolorosi, più infastiditi
che partecipi, luoghi e persone come fossero oramai null'altro che forme e
fantasmi, in sequenze e inquadrature spesso pericolosamente in bilico sulla
piattezza televisiva, un po' History channel, un po' "procedural".
Significative di questa "difficoltà" di fondo sono pure le parole pronunciate
dalla Sarandon durante il suo iniziale colloquio con LaBeouf ("Abbiamo
sbagliato ma avevamo ragione", che suona più come una sorta di fuga in avanti
fuori tempo massimo che come un'amara constatazione dei fatti); o quelle
rivolte in extremis dalla Christie a Redford quando se lo trova davanti dopo
decenni ("Come sei invecchiato", a denunciare involontariamente la lontananza
spirituale, se possibile ancor meno colmabile di quella cronologica, da tutto
ciò che non si può più sul serio vivere ancora). Allo stesso modo, la parte
relativa al lavoro d'investigazione giornalistica (a cui viene giustapposta, e
con la stessa rapidità negato ogni esito significativo, una storia sentimentale
da un lato e un segreto a lungo sepolto dall'altro) non ha l'urgenza di verità,
la veemenza e anche lo slancio e l'ingenuità dei prototipi a cui vorrebbe
rifarsi (e qui le spalle non ancora larghe di LaBeouf su cui si dovrebbe
caricare l'onere del passaggio di consegne tra generazioni caro alla poetica
redfordiana, hanno poco da rimproverarsi): e' al contrario utilizzata come mero
espediente da contrapporre alla linea più (presunta) "action" della trama.
Così, "The company you keep" propugna intenti lodevoli ma non ha la forza di
rendercene partecipi. Ci fa assistere all'azzardo di mettere le mani
sull'orologio della Storia ma non consente un coinvolgimento immediato e
sincero. Quando l'elicottero dell'FBI fa la sua entrata in scena rievocando col
suo frullare i rotori di quelli che riversavano truppe in Vietnam, forse
un'epoca si chiude davvero e per sempre. Cosa resta ? Magari la cosa più bella
del film: il "Condor" che torna a casa. Ad aspettarlo non più la CIA, non la
Rivoluzione ma una persona da crescere e da amare.
TheFisherKing
sabato, dicembre 29, 2012
Italia '70. Cinema a mano Armata (24) - Milano trema: la polizia vuole giustizia
ITALIA '70 IL CINEMA A MANO ARMATA (24)
MILANO TREMA: LA POLIZIA VUOLE GIUSTIZIA (1973)
Recensione di Fabrizio Luperto
Regia: Sergio Martino
Cast: Luc Merenda - Richard Conte - Silvano tranquilli - Lia Tanzi - Carlo Alighiero
Il Film: Milano trema, la città è quotidianamente stuprata da criminali senza scrupoli.
Per ristabilire l'ordine bisogna necessariamente passare per il disordine, in modo da giustificare la repressione.
Il "Padulo" (Richard Conte), muove gli ingranaggi di una macchina criminale messa a punto per "normalizzare" la città e il Paese.
Servendosi di piccoli criminali, organizza rapine in banca dove ci scappa spesso il morto. Il fine ultimo dell'organizzazione di cui fa parte è quello di portare alla guida del paese partiti e uomini in grado di dar vita ad un governo autoritario.
Il commissario Caneparo (Luc Merenda) con i suoi metodi un po' discutibili ma efficaci vuole vederci chiaro e si infiltra nell'organizzazione malavitosa del "padulo".
Commento: Sergio Martino dirige tenendo presenti le esigenze del film d’azione e infarcisce il film con spettacolari inseguimenti.
La figura di Caneparo, violento ma che mette a repentaglio la sua vita per salvare la comunità deve molto (come tutti quelli che verranno in seguito) al primo Dirty Harry (Il caso scorpio è tuo - 1971).
Sergio Martino dimostra di conoscere quali ingredienti scegliere per servire al pubblico un piatto prelibato e il Luc Merenda poliziotto infiltrato è un intuizione indovinata.
Il commissario Caneparo (Luc merenda) è (insieme al personaggio interpretato da Franco Nero ne LA POLIZIA INCRIMINA LA LEGGE ASSOLVE di Enzo G. Castellari) il primo esempio di poliziotto aitante e dai metodi brutali, figura chiave di tutto il filone polizittesco.
Curiosità/Notizie: La spettacolare sequenza dell'inseguimento (quella più lunga) è molto nota tra gli appassionati del genere poliziesco. Infatti questa scena (con montaggio diverso) è presente in ben 3 film: oltre che in MILANO TREMA: LA POLIZIA VUOLE GIUSTIZIA (1973); è inserita anche in MILANO ODIA:LA POLIZIA NON PUO' SPARARE (1974); ROMA A MANO ARMATA (1975).
Questo è dovuto al fatto che il produttore dei 3 film era LUCIANO MARTINO (fratello del regista Sergio) che aveva commissionato delle scene di inseguimenti allo stuntman francese JULIANNE REMY, che era solito girare con auto proprie e con operatori di sua fiducia. Una volta entrato in possesso del materiale girato, il produttore per sopperire alla mancanza di risorse economiche utilizzò le scene in più film.
Un'altra sequenza di questo film, riguardante un inseguimento-scontro automobilistico è presente in LA POLIZIA ACCUSA: IL SERVIZIO SEGRETO UCCIDE (1975) sempre diretto da Sergio Martino.
MILANO TREMA: LA POLIZIA VUOLE GIUSTIZIA incassò oltre un miliardo di lire.
Fabrizio Luperto
MILANO TREMA: LA POLIZIA VUOLE GIUSTIZIA (1973)
Recensione di Fabrizio Luperto
Regia: Sergio Martino
Cast: Luc Merenda - Richard Conte - Silvano tranquilli - Lia Tanzi - Carlo Alighiero
Il Film: Milano trema, la città è quotidianamente stuprata da criminali senza scrupoli.
Per ristabilire l'ordine bisogna necessariamente passare per il disordine, in modo da giustificare la repressione.
Il "Padulo" (Richard Conte), muove gli ingranaggi di una macchina criminale messa a punto per "normalizzare" la città e il Paese.
Servendosi di piccoli criminali, organizza rapine in banca dove ci scappa spesso il morto. Il fine ultimo dell'organizzazione di cui fa parte è quello di portare alla guida del paese partiti e uomini in grado di dar vita ad un governo autoritario.
Il commissario Caneparo (Luc Merenda) con i suoi metodi un po' discutibili ma efficaci vuole vederci chiaro e si infiltra nell'organizzazione malavitosa del "padulo".
Commento: Sergio Martino dirige tenendo presenti le esigenze del film d’azione e infarcisce il film con spettacolari inseguimenti.
La figura di Caneparo, violento ma che mette a repentaglio la sua vita per salvare la comunità deve molto (come tutti quelli che verranno in seguito) al primo Dirty Harry (Il caso scorpio è tuo - 1971).
Sergio Martino dimostra di conoscere quali ingredienti scegliere per servire al pubblico un piatto prelibato e il Luc Merenda poliziotto infiltrato è un intuizione indovinata.
Il commissario Caneparo (Luc merenda) è (insieme al personaggio interpretato da Franco Nero ne LA POLIZIA INCRIMINA LA LEGGE ASSOLVE di Enzo G. Castellari) il primo esempio di poliziotto aitante e dai metodi brutali, figura chiave di tutto il filone polizittesco.
Curiosità/Notizie: La spettacolare sequenza dell'inseguimento (quella più lunga) è molto nota tra gli appassionati del genere poliziesco. Infatti questa scena (con montaggio diverso) è presente in ben 3 film: oltre che in MILANO TREMA: LA POLIZIA VUOLE GIUSTIZIA (1973); è inserita anche in MILANO ODIA:LA POLIZIA NON PUO' SPARARE (1974); ROMA A MANO ARMATA (1975).
Questo è dovuto al fatto che il produttore dei 3 film era LUCIANO MARTINO (fratello del regista Sergio) che aveva commissionato delle scene di inseguimenti allo stuntman francese JULIANNE REMY, che era solito girare con auto proprie e con operatori di sua fiducia. Una volta entrato in possesso del materiale girato, il produttore per sopperire alla mancanza di risorse economiche utilizzò le scene in più film.
Un'altra sequenza di questo film, riguardante un inseguimento-scontro automobilistico è presente in LA POLIZIA ACCUSA: IL SERVIZIO SEGRETO UCCIDE (1975) sempre diretto da Sergio Martino.
MILANO TREMA: LA POLIZIA VUOLE GIUSTIZIA incassò oltre un miliardo di lire.
Fabrizio Luperto
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italia,
Italia '70 - Il cinema a mano armata,
recensioni
giovedì, dicembre 27, 2012
Film in sala dal 27 dicembre 2012
La bottega dei suicidi
(Le Magasin des suicides)
GENERE: Animazione, Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITA': Belgio, Canada, Francia
REGIA: Patrice Leconte
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film in uscita 2012
Vita di Pi
VIta di Pi
regia di Ang Lee
con Suraj Sharma, Irrfan Khan
Usa, 2012
A fronte dei continui cambiamenti, raccontare per immagini è ancora una delle funzioni principali della settima arte, probabilmente la più importante. Un esempio di tale affermazione è sicuramente “Vita di Pi”, il nuovo lavoro di Ang Lee che, narrando le conseguenze di un naufragio, quello di Piscine, adolescente sensibile ed attratto dalle religioni, e di Richard Parker, soprannome dato alla tigre che gli farà compagnia in quell’esperienza, prova a parlare in maniera semplice, ma non banale del senso della vita, ed in generale dell’esistenza umana.
Nel farlo il regista Taiwanese lavora in due direzioni, ugualmente valide a rafforzare l’assunto. Da una parte amplifica l’atto stesso del “narrare”, costruendo il film stratificato a più livelli, ognuno dei quali costruito sulle parole del protagonista, a cui dapprima viene chiesto di esporre quanto gli è accaduto, affinché la sua impresa possa ispirare uno scrittore alle prese con la sindrome del foglio bianco.
Successivamente, all’intero stesso di quel resoconto Pi è costretto a riformulare la vicenda con una versione meno vera, ma più credibile agli occhi di chi, subito dopo il salvataggio, gli chiederà una versione più plausibile, anche se meno vera, indispensabile per poter otenere i soldi per il risarcimento dei danni subiti.
Dall’altra, riferendosi ad un immaginario letterario e romanzesco che trova nelle opere di uno scrittore come Ruyard Kipling, ripreso nella cornice esotica e nella dimensione avventurosa che il film condensa negli espedienti che Pi metterà in atto per sopravvivere al destino già scritto, un punto di riferimento nuovamente legato alla capacità di affabulare.
Un surplus di istanze narrative che Ang Lee attualizza e ci consegna attraverso un apparato visivo all’avanguardia, che, soprattutto quando deve dare respiro al mistero della vita che cerca di capire, e ci riferiamo ai vari momenti in cui il divino si manifesta attraverso la bellezza ma anche l’indifferenza del paesaggio naturale, avvicina la perfezione ed una poesia della modernità già presente in un film come “Avatar”(2009).
Una sfida non da poco, quella di Lee, che in un solo colpo riassume il meglio del cinema dell’ultimo millennio, quello che intrattiene, e nello stesso tempo riflette senza appesantire lo stato d’animo dello spettatore. Obiettivo riuscito solo in parte perché se è vero che la classicità post moderna del regista è perfetta per gli intenti divulgativi e spettacolari che si propone, al tempo stesso non riesce ad alzare i contenuti a livello delle immagini, che finiscono per polarizzare l’attenzione con la loro meraviglia, relegando la filosofia new age ed il punto di vista ecologico ambientalista ad appendice senza pretese.
lunedì, dicembre 24, 2012
Love Is All You Need
Love Is All You Need
di Susan Bier
con Pierce Brosnan, Trine Dyrholm
Per chi ha avuto modo di vedere il film della danese Lone Scherfig, "Italiano per principianti" (2000) non è una novità. In quella storia infatti l'amore per il nostro paese era così potente da spingere i protagonisti ad impararne l'idioma frequentando il corso a cui il titolo dell'opera allude. A dimostrazione di una fascinazione tutt'altro che casuale, arriva nelle sale un'altra opera danese, questa volta ben più blasonata per la popolarità di una regista da Oscar, Susan Bier premiata per "In un mondo migliore" (2010) in cui il territorio italico, in altro modo, ma con ben più forza, continua a funzionare non solo come collante narrativo di varia umanità, ma soprattutto come fattore scatenante di una sensualità che proprio il paesaggio nostrano aiuta a risvegliare.
Ad offrire l'occasione è il matrimonio che Patrick ed Astrid decidono di organizzare nello splendido scenario della costiera sorrentina dove Philip (un ottimo Pierce Brosnan), il padre del ragazzo, vedovo inconsolabile e proprietario di un'azienda agricola, possiede una splendida villa. A fargli compagnia, tra invitati stravaganti e dubbi prematrimoniali c'è anche Ida, la madre della sposa, appena abbandonata dal marito, e reduce da una chemioterapia dai risultati ancora incerti. Apparentemente diversi nel carattere e dopo un approccio a dir poco complicato i due finiranno per innamorarsi.
In una filmografia interamente occupata da drammi a forti tinte, un'opera come "Love is all you need" rappresenta sicuramente un'eccezione. A testimoniarlo c'è la scelta dei toni, ora leggeri quando si tratta di deliniare i personaggi attraverso tenere ingenuità - è il caso di Ida che continua a giustificare il consorte nonostante la sua natura fedigrafa - ed insistenti ossessioni - Philip il cui aplomb elegante e distaccato fa a pugni con i nomi degli ortaggi che occupano i suoi discorsi - ora romantici, quando, nella seconda parte, l'attrazione prenderà il sopravvento seppure nei modi controllati della cultura protestante. Ed ancora l'opzione di un paesaggio, definito non dal punto di vista topografico, ma piuttosto dalla somma dei suoi elementi naturali e folkloristici - i colori, la luce, il mare, il contesto perennemente festivaliero, l'evergreen musicale "That's Amore" vero e proprio tormentone - che insieme concorrono a rappresentare l'idea di un altrove a cui tutti i personaggi per diversi motivi anelano, e che fa da contrappunto positivo a quello danese, monocorde e piatto (le composizione delle sequenze casalinghe dominate dal bianco e dal grigio ed attraversate da una geometria lineare sono indicative) di cui nessuno sente la mancanza. C'è soprattutto nel film della Bier la fiducia cieca e tipicamente comedy di antipodi, Ida e Philip, destinati a coincidere nonostante una premessa di evidente diversità. Ci sono le battute, le atmosfere scherzose ed un clima scanzonato decisamente inedito per la regista danese. Eppure nonostante questa diversità "Love Is All You Need" appartiene comunque a chi l'ha fatto, perché il senso di morte è sempre incombente, la famiglia rimane la causa di tutti i mali ( un leitmotiv da Von Trier a Vinterberg) e sullo sfondo si agita un malessere tout court che neanche il finale a lieto fine riesce a stemperare. Più che una pausa di riflessione il film sembra il tentativo di rinnovare la forma di un cinema ormai collaudato, e forse per questo a rischio di maniera. Il primo passo è sicuramente incoraggiante.
(pubblicata su ondacinema.it)
domenica, dicembre 23, 2012
Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato
"Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato"
regia di: P. Jackson
con: M. Freeman, I. McKellen, R. Armitage, I. Holm, C. Lee
La bellezza dell'opera di J.R.R. Tolkien - al netto delle inclinazioni e delle
sensibilità dei singoli che vi si avvicinano - sta nel gesto estetico,
temerario quanto caparbio, di aver forgiato una cosmogonia, un universo
completo, con le sue ere temporali, i paesaggi, i popoli, addirittura i
molteplici linguaggi che consentono ad un mondo di esistere e di trasformarsi.
Su una scala diversa, il tentativo portato avanti in questi anni dal
neozelandese Peter Jackson, mira ad un traguardo simile: costruire un'opera
"monstre" che, al tempo, s'ispiri e rispetti almeno il nucleo essenziale del
testo di riferimento (inserendovi aggiustamenti, digressioni, licenze) e si
esprima in un suo originale idioma, in grado di tenere insieme e far risuonare
con armonia, avventura fantastica, lirismo fiabesco, toni da commedia,
riflessione sul Bene e sul Male, azione pura.
In questo "Lo Hobbit", primo assaggio di una seconda trilogia dopo i fasti
planetari di una prima realizzata a partire da quello che Tolkien considerava
un unico libro - "Il Signore degli Anelli" - assistiamo pero', contrariamente
alle premesse, a qualcosa che via via si rivela poco inaspettato, a ciò che, a
momenti alterni, era emerso anche nelle visioni precedenti: splendidi momenti
d'invenzione fantastica e progressione narrativa vorticosa intervallate da
lunghe parentesi statiche, in un ciclo che, tra cime innevate, orridi senza
fondo, sterminate vallate battute dal sole radente del mattino e da quello
stanco del crepuscolo, foreste fittissime, come aggrovigliate in un gigantesco
abbraccio, Bilbo Baggins, Gandalf/protoMerlino, draghi, nani, elfi, orchi,
troll, tende continuamente a tornare su se stesso.
Indipendentemente dall'aver costruito tre opere (le altre due arriveranno a cadenza, come vuole sua maestà il mercato) di durata consistente da un corpo letterario di poco più di trecento pagine - cosa, in se', non necessariamente
una pecca - nel film Jackson ripropone (spesso con sequenze tra loro molto
simili) l'identico e già collaudato schema "ad elastico" del tipo pausa-
riflessione-spiegazione/azione-catastrofe-scontro reiterato negli altri
capitoli della serie, spezzettando la fluidità narrativa in una sorta di
altalena guidata delle emozioni, per cui alla sarabanda virtuosistica in stile
spielberghiano di certe scene tratteggiate come un coloratissimo ottovolante,
s'incastra la divagazione interlocutoria sullo stato dell'avventura nei modi di
una sorta di riassunto/aggiornamento della situazione, utile solo a creare,
nemmeno tanto subliminalmente, rimandi e agganci con gli episodi di questa che
oramai potremmo definire - e non e' una forzatura - una unica "super saga".
L'indubbio talento visivo di Jackson (pensiamo, per restare nei paraggi, al
troppo repentinamente archiviato "Amabili resti", del 2009, sintesi di numerose
spinte interne al suo cinema), forse proprio per le "dimensioni" stesse
dell'opera, per questa sua specie di inderogabile linea guida interna, si fa
allora spazio a tratti, sgomita in inquadrature dense di cromatismi vistosi,
negli infiniti dettagli di un paesaggio pazzesco, al di la' del meraviglioso -
quello neozelandese esaltato ancora di più dall'iperdefinizione dell'immagine a
48 fotogrammi al secondo - fa capolino nel gusto rabelaisiano volutamente
grezzo e diretto per il grottesco e il deforme (si veda, per esempio la
tendenza a "vestire" i personaggi di lunghe barbe, capelli fluenti, abiti
ingombranti e pesanti, addirittura concrezioni organiche: un unico grande
insieme vivente che sembra in diretta continuità con le escrescenze vegetali,
ramificate, avviluppate, pronte ad intrufolarsi ovunque, a costruire una sorta
di tutt'uno organico - un mondo appunto, la galassia-lontana-lontana di Jackson
- tra corpi, piante, case, rocce, acqua); si nota nell'occhio sarcastico per il
macabro, nell'allusione ad un soprannaturale tutt'altro che consolatorio:
emerge in rapidi tocchi horror. Ma sono perlopiu dettagli. Roba da fissati o da
esteti inguaribili. Troppo scarsi gli indizi, troppo labili e incoerenti,
facilmente assimilati dall'enorme mastodonte spettacolare che poco concede ad
un vaglio più esigente. Un film del gigantismo de "Lo Hobbit", come del resto
quelli della precedente trilogia, s'impone, insomma, di pura stazza: nel caso,
intrattiene nonostante le lungaggini, pure se immedesimazione e coinvolgimento
sono sporadici e alterni. In attesa delle ulteriori potenziali sei ore e passa
dei prossimi appuntamenti, può bastare immaginarsi il professor Tolkien che
esce dalla sala stiracchiandosi e facendo tap tap con la pipa sul dorso della
mano.
TheFisherKing
venerdì, dicembre 21, 2012
FilmTelecomandati: Serendipity
"Serendipity. Quando l'amore e' magia"
di: P. Chelsom
con: J. Cusack, K. Beckinsale, J. Piven, M. Shannon
- USA 2001 -
Commedia romantica ma non cretina. Ragguaglio semplice ma tutt'altro che
secondario e che dovrebbe bastare per inquadrare un film lieve e piacevole come
"Serendipity", ulteriormente ingentilito dalla presenza di una certa sottile
malinconia che riduce di molto il melenso e lo stucchevole comunque in agguato
in operazioni del genere.
Se la storia ruota attorno al concetto di "serendipita'" - ovvero la sagacia
d'interpretare nel giusto senso i segni casuali di un fenomeno, in questo caso
sentimental amoroso, giungendo a consapevolezze diverse dalle premesse di
partenza, del genere cercando-qualcosa-ne-trovi-un'altra - la progressione
della vicenda se ne avvale più come pretesto per innescare equivoci, corse
riparatorie contro il tempo, momenti di euforia e disillusioni, che per
speculare o divagare sul versante filosofico.
Sara (Kate Beckinsale) e Jonathan (John Cusack) s'incontrano un giorno
qualunque in una New York prenatalizia e, in capo a qualche ora, fraternizzano.
Già impegnati dal lato sentimentale, pero', affidano gli eventuali sviluppi di
quel loro incrocio ai capricci della sorte e alla volubilità del tempo, con la
segreta speranza/certezza di ravvisarne nelle circostanze del quotidiano
ipotetiche avvisaglie e insospettate rivelazioni. Riusciranno, alla fine, Sara
e Jonathan a convogliare le giravolte delle proprie vite sulla stessa
coordinata geografica ? Domanda oziosa: turbamenti, ironie, dubbi e aspettative
in "Serendipity" scaturiscono - ecco il pregio e il tratto distintivo - più
ancora che dalla "ronde" amorosa che ne rappresenta la ovvia ragion d'essere,
dalla contagiosa e nient'affatto scontata chimica dei protagonisti, affiatati e
complici, empatici e credibili, in specie nel loro meditabondo girovagare alla
ricerca uno dell'altra (con spesso alle calcagna amici solleciti, tipo
l'irrefrenabile Jeremy Piven, vero vecchio sodale di Cusack).
Kate Beckinsale, silhouette sottile di straordinaria fotogenia quanto di
alterna e in fondo poco eclatante carriera, divisa tra incerti tentativi di
cinema "adulto" e una più routinaria quanto remunerativa permanenza nei
"generi" (si pensi solo all'ennesima inesauribile saga, "Underworld"), offre al
carattere di Sara tratti impazienti e febbrili che contrastano felicemente col
suo charme altolocato molto soave, molto "british" donandole/donandoci
l'illusione di uno splendore accessibile perché intimamente vulnerabile.
John Cusack, uno degli "eterni ragazzi" americani, attore forse poco
apprezzato ma in grado di giocare con un discreto bagaglio di sfaccettature,
tratteggia Jonathan in parte tornando in linea con quel suo personaggio
scanzonato e un tanto sopra le righe, in apparenza risolto ma in fondo
inquieto, degli episodi meno banali della "teen comedy" americana della seconda
meta' degli anni '80. Qui solo un po' appesantito, più scaltro ma con guizzi di
quella logorroica ingenuità degna della gloria antica di film come "Sacco a
pelo a tre piazze/"The sure thing" (1985) di quel gran commediante che e' Rob
Rainer, o "Non per soldi... ma per amore"/"Say anything..." (1989), esordio
alla regia per Cameron Crowe, che non a caso aveva intrigato il Woody Allen pre-
senile ("Pallottole su Broadway", 1994).
Pur perdendo un po' di mordente nella seconda parte, "Serendipity" si riscatta
nel finale sulla pista di pattinaggio di Central Park - mentre impalpabile
comincia a fioccare la neve - con Jonathan/Cusack che si stende sul ghiaccio ad
aspettare che il suo destino si compia e da qualche parte si fa strada la
morbida mestizia di "Northern sky" di Nick Drake.
TheFisherKing
Raitre, ore 21,05
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Film Telecomandati,
recensioni
martedì, dicembre 18, 2012
Film telecomandati: Carlito's Way
Carlito's Way
di Brian De Palma
con Al Pacino, Sean Penn, Penelope Ann Miller, John Leguizamo
Usa, 1993
durata 144'
L’idea di felicità è la spiaggia tropicale disegnata sul cartellone pubblicitario che Carlito (Al Pacino) guarda prima di perdere coscienza. Apparentemente laterale rispetto al contesto che la circonda quell’immagine associata al corpo del protagonista ferito a morte e riverso sul pavimento riproduce nella sua artificialità l’impossibilità di un altrove in cui rifarsi una vita. Prima di quel momento , drammatico e definitivo, Brian De Palma e con lui il film si sono messi d’impegno per impedire a Carlito Brigante di arrivare fin lì. L’hanno fatto uscire dal carcere con la voglia di non tornarci, permettendogli di ritrovare l’antica fiamma, ma soprattutto gli hanno messo a disposizione la gestione di un locale che gli consentirà di guadagnare i soldi necessari per cambiare ambiente, magari per sfuggire in quella spiaggia da sogno insieme alla donna della sua vita. Un piano a misura d’uomo, ispirato dal cuore di un regista che in fin dei conti ha sangue italiano e di conseguenza è abituato a ragionare in termini di rinascita e di riscatto. Poi però ci si sono le regole del genere, le formule calcolate al millimetro per esaltare l’altr’alternanza di inferno e paradiso. I sogni infranti e gli uomini divisa tra angeli e diavoli. Ma soprattutto ci sono le “catene della colpa” che impediscono ai personaggi di emanciparsi dal proprio passato. Al Pacino e Brian De Palma si ritrovano sul set dopo l’esperienza di “Scarface” (1983). Se Carlito Brigante è un Tony Montana piu romantico e meno autodistruttivo, De Palma ha ancora in mente “Gli intoccabili” (1987) con meno grandeur ma con la stessa malinconia. Il risultato è un gangster noir che sfiora il melo e si riveste di una violenza priva di sangue, espressa soprattutto dalla tensione che caratterizza i rapporti umani all’interno del film. Nel ruolo di un avvocato nevrotico e cocainomane trova conferma l’istrionismo di Sean Penn, mentre Pacino per una volta riesce a contenersi, consegnando il suo personaggio alla categoria degli imperdibili di quell’annata.
Sky ore 2100
di Brian De Palma
con Al Pacino, Sean Penn, Penelope Ann Miller, John Leguizamo
Usa, 1993
durata 144'
L’idea di felicità è la spiaggia tropicale disegnata sul cartellone pubblicitario che Carlito (Al Pacino) guarda prima di perdere coscienza. Apparentemente laterale rispetto al contesto che la circonda quell’immagine associata al corpo del protagonista ferito a morte e riverso sul pavimento riproduce nella sua artificialità l’impossibilità di un altrove in cui rifarsi una vita. Prima di quel momento , drammatico e definitivo, Brian De Palma e con lui il film si sono messi d’impegno per impedire a Carlito Brigante di arrivare fin lì. L’hanno fatto uscire dal carcere con la voglia di non tornarci, permettendogli di ritrovare l’antica fiamma, ma soprattutto gli hanno messo a disposizione la gestione di un locale che gli consentirà di guadagnare i soldi necessari per cambiare ambiente, magari per sfuggire in quella spiaggia da sogno insieme alla donna della sua vita. Un piano a misura d’uomo, ispirato dal cuore di un regista che in fin dei conti ha sangue italiano e di conseguenza è abituato a ragionare in termini di rinascita e di riscatto. Poi però ci si sono le regole del genere, le formule calcolate al millimetro per esaltare l’altr’alternanza di inferno e paradiso. I sogni infranti e gli uomini divisa tra angeli e diavoli. Ma soprattutto ci sono le “catene della colpa” che impediscono ai personaggi di emanciparsi dal proprio passato. Al Pacino e Brian De Palma si ritrovano sul set dopo l’esperienza di “Scarface” (1983). Se Carlito Brigante è un Tony Montana piu romantico e meno autodistruttivo, De Palma ha ancora in mente “Gli intoccabili” (1987) con meno grandeur ma con la stessa malinconia. Il risultato è un gangster noir che sfiora il melo e si riveste di una violenza priva di sangue, espressa soprattutto dalla tensione che caratterizza i rapporti umani all’interno del film. Nel ruolo di un avvocato nevrotico e cocainomane trova conferma l’istrionismo di Sean Penn, mentre Pacino per una volta riesce a contenersi, consegnando il suo personaggio alla categoria degli imperdibili di quell’annata.
Sky ore 2100
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Film Telecomandati,
recensioni
L'innocenza di Clara
L'innocenza di Clara
di Toni D'angelo
con Chiara Conti, Luca Lionello
Italia, 2012
Forse qualcuno osservando la giovane donna che in maniera sinuosa ma decisa si impadronisce del film e delle sue immagini, potrebbe meravigliarsi della confidenza inaspettata con i lineamenti di un volto che il cinema ha fin qui utilizzato con una certa parsimonia. Nel far questo lo spettatore ricorderebbe di certo il precedente illustre, quello che si imprime nella memoria del cinefilo per la rappresentazione di un assoluto altrimenti irraggiungibile. Era infatti il 2002 quando Chiara Conti, dopo un preludio non certo indimenticabile, entrava di diritto nel cinema che conta prendendo parte al capolavoro di Marco Bellocchio "L'ora di religione", passato alla cronache più per il clamore suscitato dalla bestemmia presente nel copione che per l'indubbia qualità del talento messo in campo. Nel film la Conti interpretava un personaggio in bilico tra realtà e fantasia, costruito su una sensualità carnale ed allo stesso tempo eterea. Avvolta in un velo di mistero, e tratteggiata con delicata ambiguità la sua presenza si faceva portatrice di un anomalia esistenziale capace di mettere in discussione le certezze di Ernesto Picciafuoco, il protagonista della storia. Un parte breve ma determinante nel consegnare all'attrice un cotè iconografico che Toni D'angelo ripropone quasi per intero nel suo nuovo film "L'innocenza di Clara", appena uscito nelle sale italiane dopo l'apprendistato festivaliero in quel di Montreal dove il film è stato selezionato per il concorso principale. Un'analogia che non riguarda solamente gli aspetti esteriori, quelli legati all'elemento biografico ed estetico - Clara potrebbe essere per fascino e movenze la sorella maggiore della Diana Sereni del film di Bellocchio - ma piuttosto la funzione svolta all'interno della storia, che alla pari di quella pensata dal regista piacentino, ma con conseguenze ben più drammatiche, agisce come fattore disgregante di una realtà altrettanto consolidata. Il personaggio di Clara infatti, con un passato sconosciuto ed un'attualità di intrigante femminilità corrisponde perfettamente all'eterno femmineo che nel cinema "noir", a cui "L'innocenza di Clara" chiaramente si informa, è da sempre sinonimo di un ambiguità che genera dolore. In questo caso a subire le conseguenze di quella manifestazione è l'amicizia tra Maurizio e Giovanni, due uomini legati da un sentimento di reciproco soccorso e mutua collaborazione, sancito dalla comune passione per la caccia, a cui entrambi si dedicano con metodica cadenza. Tutto funziona fino a quando Clara, dopo il matrimonio con Maurizio, reagisce all'assenza del consorte occupato nella conduzione della cava di marmo di cui è titolare, riallacciando i rapporti con un ex amante, ed iniziando a frequentare Giovanni, segretamente invaghito di lei. Un triangolo "allargato" capace di scatenare gelosie e vendette che solo il sangue sarà in grado di mondare.
Ambientato in un paesaggio lunigiano utilizzato sia come catalizzatore di uno stato emotivo - la cava di marmo ripresa dall'alto, con i protagonisti schiacciati nel fondo della sua depressione orografica evoca il gorgo in cui gli stessi stanno lentamente scivolando - sia nella sue possibilità di diventare metafora - la frana che blocca i lavori nella cava, che, nella corrispondenza tra le immagini del marmo frantumato e la presenza in loco dei due protagonisti sembra alludere allo sgretolamento delle loro certezze - "L'innocenza di Clara" è un altro di quei film italiani che prova a distinguersi inseguendo strade poco battute dalle nostre produzioni. E lo fa con una storia di personaggi e stilemi che appartengono di diritto al cinema di genere, e che, soprattutto nella figura di Clara, dark lady designata da un peccato originale che la porta inevitabilmente, e per sua stessa ammissione, a distruggere tutto quello con cui viene a contatto, ma anche in quelle maschili, vittime privilegiate di un destino fatto apposta per esaltare l'azione demolitrice della controparte femminile, trova la sua ragione di essere. D'Angelo è bravo a far corrispondere la forma al contenuto, rappresentando il disfacimento psicologico e materiale dell'universo che racconta con immagini apparentemente lineari, come lo è a prima vista la vita dei personaggi, e come quella invece, subdolamente difettosa, nella artificiosa ripetizione di alcune sequenze (quelle di Clara che fa visita al padre accompagnata da Maurizio e successivamente anche da Giovanni sono realizzate in fotocopia) nelle prospettive leggermente sghembe e nella a fuoco appena sfocata, oppure nel ricorso continuo ad oggetti (specchi, bicchieri, finestre) che duplicano la figura di Clara, richiamandone la doppiezza che ad un certo punto distingue i suoi comportamenti. Adottando uno stile che procede per sottrazione e utilizza l'ellissi come mezzo per intensificare il clima di sospensione in cui è immersa la vicenda, D'angelo si sottrae alla ridondanza di molto cinema nostrano rivestendo la sua opera di un alone affascinante ed allo stesso tempo inedito, anche per la presenza di attori poco sfruttati, e quindi necessari con la loro "neutralità" a far da contrappunto ad una storia per altri versi eccezionale. Al contrario "L'innocenza di Clara" mostra la sua debolezza quando, invece di lasciare intatto il mistero, continuando ad affidarsi alla rarefazione visuale , decide di dargli corpo, con una scrittura che non ha la forza di farlo. In questo modo consegna la figura femminile ad un'evoluzione che si arricchisce di situazioni transitorie e ripetitive, che anche nel tema dell'amore impossibile proposto nella sottotrama dedicata alla relazione tra la figlia di Giovanni ed il ragazzo straniero fatica a dimostrare una reale necessità. E così in un anno in cui il cinema d'autore made in Italy ha mostrato la sua vitalità con riconoscimenti ottenuti nei festival di tutto il mondo "L'innocenza di Clara" è nel chiaroscuro del suo risultati la cartina di tornasole di un movimento che può già contare su registi ed interpreti di grande qualità. Nell'anno che verrà gli auguriamo di trovare anche le penne capaci di scriverne le storie.
(pubblicata su ondacinema.it)
di Toni D'angelo
con Chiara Conti, Luca Lionello
Italia, 2012
Forse qualcuno osservando la giovane donna che in maniera sinuosa ma decisa si impadronisce del film e delle sue immagini, potrebbe meravigliarsi della confidenza inaspettata con i lineamenti di un volto che il cinema ha fin qui utilizzato con una certa parsimonia. Nel far questo lo spettatore ricorderebbe di certo il precedente illustre, quello che si imprime nella memoria del cinefilo per la rappresentazione di un assoluto altrimenti irraggiungibile. Era infatti il 2002 quando Chiara Conti, dopo un preludio non certo indimenticabile, entrava di diritto nel cinema che conta prendendo parte al capolavoro di Marco Bellocchio "L'ora di religione", passato alla cronache più per il clamore suscitato dalla bestemmia presente nel copione che per l'indubbia qualità del talento messo in campo. Nel film la Conti interpretava un personaggio in bilico tra realtà e fantasia, costruito su una sensualità carnale ed allo stesso tempo eterea. Avvolta in un velo di mistero, e tratteggiata con delicata ambiguità la sua presenza si faceva portatrice di un anomalia esistenziale capace di mettere in discussione le certezze di Ernesto Picciafuoco, il protagonista della storia. Un parte breve ma determinante nel consegnare all'attrice un cotè iconografico che Toni D'angelo ripropone quasi per intero nel suo nuovo film "L'innocenza di Clara", appena uscito nelle sale italiane dopo l'apprendistato festivaliero in quel di Montreal dove il film è stato selezionato per il concorso principale. Un'analogia che non riguarda solamente gli aspetti esteriori, quelli legati all'elemento biografico ed estetico - Clara potrebbe essere per fascino e movenze la sorella maggiore della Diana Sereni del film di Bellocchio - ma piuttosto la funzione svolta all'interno della storia, che alla pari di quella pensata dal regista piacentino, ma con conseguenze ben più drammatiche, agisce come fattore disgregante di una realtà altrettanto consolidata. Il personaggio di Clara infatti, con un passato sconosciuto ed un'attualità di intrigante femminilità corrisponde perfettamente all'eterno femmineo che nel cinema "noir", a cui "L'innocenza di Clara" chiaramente si informa, è da sempre sinonimo di un ambiguità che genera dolore. In questo caso a subire le conseguenze di quella manifestazione è l'amicizia tra Maurizio e Giovanni, due uomini legati da un sentimento di reciproco soccorso e mutua collaborazione, sancito dalla comune passione per la caccia, a cui entrambi si dedicano con metodica cadenza. Tutto funziona fino a quando Clara, dopo il matrimonio con Maurizio, reagisce all'assenza del consorte occupato nella conduzione della cava di marmo di cui è titolare, riallacciando i rapporti con un ex amante, ed iniziando a frequentare Giovanni, segretamente invaghito di lei. Un triangolo "allargato" capace di scatenare gelosie e vendette che solo il sangue sarà in grado di mondare.
Ambientato in un paesaggio lunigiano utilizzato sia come catalizzatore di uno stato emotivo - la cava di marmo ripresa dall'alto, con i protagonisti schiacciati nel fondo della sua depressione orografica evoca il gorgo in cui gli stessi stanno lentamente scivolando - sia nella sue possibilità di diventare metafora - la frana che blocca i lavori nella cava, che, nella corrispondenza tra le immagini del marmo frantumato e la presenza in loco dei due protagonisti sembra alludere allo sgretolamento delle loro certezze - "L'innocenza di Clara" è un altro di quei film italiani che prova a distinguersi inseguendo strade poco battute dalle nostre produzioni. E lo fa con una storia di personaggi e stilemi che appartengono di diritto al cinema di genere, e che, soprattutto nella figura di Clara, dark lady designata da un peccato originale che la porta inevitabilmente, e per sua stessa ammissione, a distruggere tutto quello con cui viene a contatto, ma anche in quelle maschili, vittime privilegiate di un destino fatto apposta per esaltare l'azione demolitrice della controparte femminile, trova la sua ragione di essere. D'Angelo è bravo a far corrispondere la forma al contenuto, rappresentando il disfacimento psicologico e materiale dell'universo che racconta con immagini apparentemente lineari, come lo è a prima vista la vita dei personaggi, e come quella invece, subdolamente difettosa, nella artificiosa ripetizione di alcune sequenze (quelle di Clara che fa visita al padre accompagnata da Maurizio e successivamente anche da Giovanni sono realizzate in fotocopia) nelle prospettive leggermente sghembe e nella a fuoco appena sfocata, oppure nel ricorso continuo ad oggetti (specchi, bicchieri, finestre) che duplicano la figura di Clara, richiamandone la doppiezza che ad un certo punto distingue i suoi comportamenti. Adottando uno stile che procede per sottrazione e utilizza l'ellissi come mezzo per intensificare il clima di sospensione in cui è immersa la vicenda, D'angelo si sottrae alla ridondanza di molto cinema nostrano rivestendo la sua opera di un alone affascinante ed allo stesso tempo inedito, anche per la presenza di attori poco sfruttati, e quindi necessari con la loro "neutralità" a far da contrappunto ad una storia per altri versi eccezionale. Al contrario "L'innocenza di Clara" mostra la sua debolezza quando, invece di lasciare intatto il mistero, continuando ad affidarsi alla rarefazione visuale , decide di dargli corpo, con una scrittura che non ha la forza di farlo. In questo modo consegna la figura femminile ad un'evoluzione che si arricchisce di situazioni transitorie e ripetitive, che anche nel tema dell'amore impossibile proposto nella sottotrama dedicata alla relazione tra la figlia di Giovanni ed il ragazzo straniero fatica a dimostrare una reale necessità. E così in un anno in cui il cinema d'autore made in Italy ha mostrato la sua vitalità con riconoscimenti ottenuti nei festival di tutto il mondo "L'innocenza di Clara" è nel chiaroscuro del suo risultati la cartina di tornasole di un movimento che può già contare su registi ed interpreti di grande qualità. Nell'anno che verrà gli auguriamo di trovare anche le penne capaci di scriverne le storie.
(pubblicata su ondacinema.it)
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recensioni
domenica, dicembre 16, 2012
New Hollywood (8): Panico a Needle Park
"Panic in the Needle Park"
(Panico a Needle Park)
di: Jerry Schatzberg
con: A. Pacino, K. Winn, A. Vint, R. Bright, R. Julia
- USA 1971 -
110'
La forza immane e segreta, materiale e psicologica, nel cuore di quello strano universo che conosciamo col nome di America, risiede in gran parte nell'indifferente disinvoltura con cui amalgama e sbriciola i desideri, le illusioni ma pure le debolezze e le viltà di coloro che la abitano.
La disadorna parabola narrata da Jerry Schatzberg in "Panico a Needle Park", tratto dal libro omonimo di James Mills e sceneggiato da Joan Didion insieme a John Gregory Dunne, e' una delle migliori testimonianze e conferma del precedente assunto, nonché emblema e riferimento di quelle scelte stilistico- espressive che ridefinendo buona parte dei contorni della cinematografia made in USA del periodo hanno dato vita alla cosiddetta "New Hollywood".
All'inizio degli anni '70, la società americana prendeva già a scontare i postumi della sbornia immaginifica e libertaria della "fantasia al potere" che dal culmine della sua spinta in avanti - la "summer of love" del '67 - aveva via via smarrito la leggerezza, l'ingenuità colorata di misticismo e afflato di
pacificazione universale ma soprattutto la convinzione di modificare lo spirito dei tempi e il calco interiore degli uomini, per ripiegare verso esperienze sempre più estreme e autolesionistiche, da un lato, o tentando di moderare il disincanto e la delusione attraverso forme più o meno spinte di autoemarginazione e ammutolito distacco, dall'altro: tutto malamente intruppato nel clima mortifero alimentato dal conflitto vietnamita (che continuava a trascinarsi senza apparenti sbocchi in uno stillicidio di "spiragli risolutivi" e repentini rovesci, questi e quelli punteggiati di cadaveri), e nell'opaco quadro politico affermatosi con la seconda amministrazione Nixon che, inauguratasi col celebre appello elettorale alla "maggioranza silenziosa", ostile alla controcultura come alle proposte progressiste più radicali, sarebbe sprofondata qualche anno dopo nella tragicommedia del Watergate.
Il sovrapporsi e l'incrociarsi spesso rabbioso di queste istanze (pensiamo a
tutto il sotterraneo mondo del movimentismo americano in più di un caso terreno
di coltura per derive di tipo terroristico) produceva confitti sociali aspri di
cui le giovani generazioni erano al tempo protagonisti, sostenitori/denigratori
e vittime. Ad esempio, la trappola della tossicodipendenza più miserabile -
quella metropolitana di strada - nucleo narrativo del film, non aveva vissuto,
nemmeno di riflesso, la stagione "maudit" che aveva caratterizzato per un certo
lasso il microcosmo privilegiato che teorizzava riguardo una "cultura della
droga". Spaccio, abuso e i loro addentellati più ovvi, furto e prostituzione,
erano ne' più ne' meno che stazioni di un calvario penoso inesorabilmente
uguale a se stesso, fondato sulla reiterazione coatta, nella stragrande
maggioranza dei casi destinato alla tragedia.
Il film di Schatzberg che, e' bene ricordarlo, si colloca già al suo apparire
come "oggetto singolare" su una scena che proponeva altri sguardi critici,
feroci, violenti, da "Il braccio violento della legge"/"French connection" di
Friedkin, passando per "Ispettore Callaghan..."/"Dirty Harry" di Siegel, sino a
"Cane di paglia"/"Straw dogs" di Peckinpah, tutti e tre del '71, non esita a
muoversi entro i limiti severi di una messinscena impietosa, scevra di
indulgenze melodrammatiche come di sospetti di adesione consolatoria al destino
dei caratteri, ricca com'e' di piani ad altezza-uomo e inquadrature "intime"
(grazie all'uso della macchina a mano), di tagli bruschi e stacchi improvvisi a
stroncare il rischio dell'immedesimazione ruffiana e del patetico. Anzi, la
desolazione di ambienti e situazioni; la mancanza di un commento sonoro
sostituito dalle voci e dai rumori della strada; la povertà dei dialoghi
sovente poco più che sottolineature indifferenti, neutre o risentite, secondo
la cantilena del bisogno tipiche del milieu degli schiavi della "roba"; le
sembianze sinistre e respingenti di una New York mai così ostile e distante
dallo stereotipo delle sue eterne "mille luci", splendidamente resa dai colori
logori e atrofizzati di Adam Holender (già collaboratore di Schatzberg per il
suo esordio del '70, "Mannequin"/"Puzzle of a downfall child", nonché operatore
per Schlesinger in "Un uomo da marciapiede"/"Midnight cowboy", 1969),
concorrono ad asciugare vieppiù il corpo del film, conducendolo in una
dimensione quasi astratta, dove fedeltà semi-documentaristica allo "sbattersi"
quotidiano in cerca della tregua chimica e impostazione molto vicina al sentire
teatrale si fondono in una rappresentazione fredda ma essenziale, scostante ma
lucidissima, ravvivata unicamente dalla flebile quanto tenace fiamma del
sentimento che lega, nonostante ogni vicissitudine, i due protagonisti.
Da un lato c'è Bobby, piccolo spacciatore attivo nei dintorni dell'"ago" di
verde (Needle Park) tra Broadway, Amsterdam Avenue e Manhattan: di tanto in
tanto cliente di se stesso con la droga che vende; rotto al taccheggio e in
generale al furto per restare a galla ed evitare la prigione di cui e' altresì
ospite abituale. Un personaggio, come si vede, fin troppo tipico di certe
storie, se ad interpretarlo non fosse stato chiamato un Al Pacino pressoché
agli inizi che, letteralmente, irrompe nella storia del cinema con questa
parte, mettendo in mostra da subito la febbrile frenesia di uomo animato da una
energia e da una presenza di spirito fuori dal comune. Corpo minuto ma
mobilissimo; occhi in continua perlustrazione. Mimica trattenuta ma come pronta
in ogni istante a palesarsi. Quell'istrionismo naturale, insomma, che tutti
abbiamo imparato a riconoscergli, era già li'. Ora misurato, ora come indifeso
ma sempre percorso da improvvisi accessi d'iperattivismo e nevrosi. Di rimpetto
abbiamo Helen (l'esile Kitty Winn, palma d'oro a Cannes per l'interpretazione),
ragazza timida e gentile con generiche aspirazioni artistiche che il cuore di
pietra della Grande Mela impiegherà poco ad ingoiare ed evacuare. Intorno, la
varia umanità dolente di ogni abiezione: mezze tacche, poveri cristi,
sconfitti, tutti attaccati alla vita coi denti e pronti a tradire per niente o
per il "panico" che si diffonde sulla piazza temporaneamente orfana della roba.
Tante solitudini, alla fin fine, e due vite a perdere, Bobby e Helen, destinate
ad incontrarsi e ad appoggiarsi l'una all'altra per drenare la disperazione,
senza che nulla gli venga risparmiato (e a noi non mostrato): l'iniziazione
all'eroina (Helen); lo sprofondare nella dipendenza (Bobby); il vendersi per
una dose (Helen); tentare/illudersi di entrare nel giro grosso (Bobby). Giù
giù, fino alla collaborazione delatoria con la polizia per Helen (polizia che,
sotto la maschera ingannevole dell'autorita' e della giustizia, non ha la
minima intenzione di "recuperarla" ma di nuovo e daccapo, come tutto e tutti,
si limita ad usarla nella contabilità cieca di "un mezzo per uno scopo") e
l'ennesimo soggiorno in galera per Bobby.
Coerentemente e in perfetta sintonia coi tempi, Schatzberg si distacca - e qui risiede uno dei lasciti più duraturi della Nuova Hollywood - dalla drammaturgia tradizionale per porre al centro dell'indagine e della Storia le vite di persone estromesse a vario titolo dalla tenaglia produzione/consumo perché
anelli deboli della catena del profitto, sottoprodotti difettosi quanto ingombranti di un meccanismo che non ammette intoppi o esitazioni, entità spendibili unicamente nella prospettiva residuale di una progressiva dissipazione di se'. Analisi, questa, che verra' portata alle estreme conseguenze un paio di anni più tardi, nel '73, con "Lo spaventapasseri"/"The scarecrow", di nuovo insieme a Pacino e con l'apporto di un'altra figura- feticcio di quel cinema - Gene Hackman - riflettendo con taglio intimista sul senso dell'amicizia virile e sul disagio di vivere in un mondo che sembra aver smarrito tutti i suoi riferimenti.
"Panico a Needle Park" si chiude, allora, come si era aperto: senza enfasi e senza liberatorie vie d'uscita. Poche frasi in un'alba livida, appena fuori dal
carcere, ribadiscono l'ostinazione di restare insieme, comunque. Nessuna
certezza, nemmeno quella estrema per cui l'ulteriore chance di libertà implichi
di per se' l'impossibilità di giocarsela per un "buco": un buco magari troppo
ricco, stavolta. Magari tagliato male. Negli occhi e nel cuore solo quella
testardaggine. Forse basterà per cominciare un altro tipo di viaggio.
TheFisherKing
(Panico a Needle Park)
di: Jerry Schatzberg
con: A. Pacino, K. Winn, A. Vint, R. Bright, R. Julia
- USA 1971 -
110'
La forza immane e segreta, materiale e psicologica, nel cuore di quello strano universo che conosciamo col nome di America, risiede in gran parte nell'indifferente disinvoltura con cui amalgama e sbriciola i desideri, le illusioni ma pure le debolezze e le viltà di coloro che la abitano.
La disadorna parabola narrata da Jerry Schatzberg in "Panico a Needle Park", tratto dal libro omonimo di James Mills e sceneggiato da Joan Didion insieme a John Gregory Dunne, e' una delle migliori testimonianze e conferma del precedente assunto, nonché emblema e riferimento di quelle scelte stilistico- espressive che ridefinendo buona parte dei contorni della cinematografia made in USA del periodo hanno dato vita alla cosiddetta "New Hollywood".
All'inizio degli anni '70, la società americana prendeva già a scontare i postumi della sbornia immaginifica e libertaria della "fantasia al potere" che dal culmine della sua spinta in avanti - la "summer of love" del '67 - aveva via via smarrito la leggerezza, l'ingenuità colorata di misticismo e afflato di
pacificazione universale ma soprattutto la convinzione di modificare lo spirito dei tempi e il calco interiore degli uomini, per ripiegare verso esperienze sempre più estreme e autolesionistiche, da un lato, o tentando di moderare il disincanto e la delusione attraverso forme più o meno spinte di autoemarginazione e ammutolito distacco, dall'altro: tutto malamente intruppato nel clima mortifero alimentato dal conflitto vietnamita (che continuava a trascinarsi senza apparenti sbocchi in uno stillicidio di "spiragli risolutivi" e repentini rovesci, questi e quelli punteggiati di cadaveri), e nell'opaco quadro politico affermatosi con la seconda amministrazione Nixon che, inauguratasi col celebre appello elettorale alla "maggioranza silenziosa", ostile alla controcultura come alle proposte progressiste più radicali, sarebbe sprofondata qualche anno dopo nella tragicommedia del Watergate.
Il sovrapporsi e l'incrociarsi spesso rabbioso di queste istanze (pensiamo a
tutto il sotterraneo mondo del movimentismo americano in più di un caso terreno
di coltura per derive di tipo terroristico) produceva confitti sociali aspri di
cui le giovani generazioni erano al tempo protagonisti, sostenitori/denigratori
e vittime. Ad esempio, la trappola della tossicodipendenza più miserabile -
quella metropolitana di strada - nucleo narrativo del film, non aveva vissuto,
nemmeno di riflesso, la stagione "maudit" che aveva caratterizzato per un certo
lasso il microcosmo privilegiato che teorizzava riguardo una "cultura della
droga". Spaccio, abuso e i loro addentellati più ovvi, furto e prostituzione,
erano ne' più ne' meno che stazioni di un calvario penoso inesorabilmente
uguale a se stesso, fondato sulla reiterazione coatta, nella stragrande
maggioranza dei casi destinato alla tragedia.
Il film di Schatzberg che, e' bene ricordarlo, si colloca già al suo apparire
come "oggetto singolare" su una scena che proponeva altri sguardi critici,
feroci, violenti, da "Il braccio violento della legge"/"French connection" di
Friedkin, passando per "Ispettore Callaghan..."/"Dirty Harry" di Siegel, sino a
"Cane di paglia"/"Straw dogs" di Peckinpah, tutti e tre del '71, non esita a
muoversi entro i limiti severi di una messinscena impietosa, scevra di
indulgenze melodrammatiche come di sospetti di adesione consolatoria al destino
dei caratteri, ricca com'e' di piani ad altezza-uomo e inquadrature "intime"
(grazie all'uso della macchina a mano), di tagli bruschi e stacchi improvvisi a
stroncare il rischio dell'immedesimazione ruffiana e del patetico. Anzi, la
desolazione di ambienti e situazioni; la mancanza di un commento sonoro
sostituito dalle voci e dai rumori della strada; la povertà dei dialoghi
sovente poco più che sottolineature indifferenti, neutre o risentite, secondo
la cantilena del bisogno tipiche del milieu degli schiavi della "roba"; le
sembianze sinistre e respingenti di una New York mai così ostile e distante
dallo stereotipo delle sue eterne "mille luci", splendidamente resa dai colori
logori e atrofizzati di Adam Holender (già collaboratore di Schatzberg per il
suo esordio del '70, "Mannequin"/"Puzzle of a downfall child", nonché operatore
per Schlesinger in "Un uomo da marciapiede"/"Midnight cowboy", 1969),
concorrono ad asciugare vieppiù il corpo del film, conducendolo in una
dimensione quasi astratta, dove fedeltà semi-documentaristica allo "sbattersi"
quotidiano in cerca della tregua chimica e impostazione molto vicina al sentire
teatrale si fondono in una rappresentazione fredda ma essenziale, scostante ma
lucidissima, ravvivata unicamente dalla flebile quanto tenace fiamma del
sentimento che lega, nonostante ogni vicissitudine, i due protagonisti.
Da un lato c'è Bobby, piccolo spacciatore attivo nei dintorni dell'"ago" di
verde (Needle Park) tra Broadway, Amsterdam Avenue e Manhattan: di tanto in
tanto cliente di se stesso con la droga che vende; rotto al taccheggio e in
generale al furto per restare a galla ed evitare la prigione di cui e' altresì
ospite abituale. Un personaggio, come si vede, fin troppo tipico di certe
storie, se ad interpretarlo non fosse stato chiamato un Al Pacino pressoché
agli inizi che, letteralmente, irrompe nella storia del cinema con questa
parte, mettendo in mostra da subito la febbrile frenesia di uomo animato da una
energia e da una presenza di spirito fuori dal comune. Corpo minuto ma
mobilissimo; occhi in continua perlustrazione. Mimica trattenuta ma come pronta
in ogni istante a palesarsi. Quell'istrionismo naturale, insomma, che tutti
abbiamo imparato a riconoscergli, era già li'. Ora misurato, ora come indifeso
ma sempre percorso da improvvisi accessi d'iperattivismo e nevrosi. Di rimpetto
abbiamo Helen (l'esile Kitty Winn, palma d'oro a Cannes per l'interpretazione),
ragazza timida e gentile con generiche aspirazioni artistiche che il cuore di
pietra della Grande Mela impiegherà poco ad ingoiare ed evacuare. Intorno, la
varia umanità dolente di ogni abiezione: mezze tacche, poveri cristi,
sconfitti, tutti attaccati alla vita coi denti e pronti a tradire per niente o
per il "panico" che si diffonde sulla piazza temporaneamente orfana della roba.
Tante solitudini, alla fin fine, e due vite a perdere, Bobby e Helen, destinate
ad incontrarsi e ad appoggiarsi l'una all'altra per drenare la disperazione,
senza che nulla gli venga risparmiato (e a noi non mostrato): l'iniziazione
all'eroina (Helen); lo sprofondare nella dipendenza (Bobby); il vendersi per
una dose (Helen); tentare/illudersi di entrare nel giro grosso (Bobby). Giù
giù, fino alla collaborazione delatoria con la polizia per Helen (polizia che,
sotto la maschera ingannevole dell'autorita' e della giustizia, non ha la
minima intenzione di "recuperarla" ma di nuovo e daccapo, come tutto e tutti,
si limita ad usarla nella contabilità cieca di "un mezzo per uno scopo") e
l'ennesimo soggiorno in galera per Bobby.
Coerentemente e in perfetta sintonia coi tempi, Schatzberg si distacca - e qui risiede uno dei lasciti più duraturi della Nuova Hollywood - dalla drammaturgia tradizionale per porre al centro dell'indagine e della Storia le vite di persone estromesse a vario titolo dalla tenaglia produzione/consumo perché
anelli deboli della catena del profitto, sottoprodotti difettosi quanto ingombranti di un meccanismo che non ammette intoppi o esitazioni, entità spendibili unicamente nella prospettiva residuale di una progressiva dissipazione di se'. Analisi, questa, che verra' portata alle estreme conseguenze un paio di anni più tardi, nel '73, con "Lo spaventapasseri"/"The scarecrow", di nuovo insieme a Pacino e con l'apporto di un'altra figura- feticcio di quel cinema - Gene Hackman - riflettendo con taglio intimista sul senso dell'amicizia virile e sul disagio di vivere in un mondo che sembra aver smarrito tutti i suoi riferimenti.
"Panico a Needle Park" si chiude, allora, come si era aperto: senza enfasi e senza liberatorie vie d'uscita. Poche frasi in un'alba livida, appena fuori dal
carcere, ribadiscono l'ostinazione di restare insieme, comunque. Nessuna
certezza, nemmeno quella estrema per cui l'ulteriore chance di libertà implichi
di per se' l'impossibilità di giocarsela per un "buco": un buco magari troppo
ricco, stavolta. Magari tagliato male. Negli occhi e nel cuore solo quella
testardaggine. Forse basterà per cominciare un altro tipo di viaggio.
TheFisherKing
giovedì, dicembre 13, 2012
Vorrei vederti ballare
Vorrei vederti ballare
di Nicola Deorsola
con Giulio Forges Davanzati, Chiara Chiti
Ita, 2009
I due mesi che precedono il periodo natalizio sono diventati il terminale di una distribuzione a dir poco impazzita, capace di concentrare in un lasso di tempo relativamente breve una quantità di opere così elevata da rischiare la congestione. Stipati a forza nelle sale i film danno vita ad un calderone senza capo ne coda, in cui il prodotto è messo in vendita con scarsa sensibilità delle sue caratteristiche, e senza alcuna salvaguardia nei confronti di quei titoli che sprovvisti di un' adeguata campagna promozionale, sono destinate a fugaci apparizioni. Una condizione che accomuna soprattutto il cinema italiano prodotto al di fuori del duopolio Rai/Mediaset, e quindi un film come quello dell'esordiente Nicola Deorsola, "Vorrei vederti ballare" commissionato dalla camera di commercio di Cosenza per sponsorizzare il turismo di una regione tra le meno frequentate dagli autori nostrani.
Il paesaggio calabrese, con le sue bellezze naturali, è dunque chiamato a fare da sfondo alla storia di Martino ed Ilaria, figli incompresi di genitori che in qualche modo riversano su di loro le frustrazioni di matrimoni distrutti dalle circostanze della vita, o logorati da ripetuta disaffezione. Una condizione comune destinata ad incontrarsi attraverso lo stratagemma messo in piedi da Martino che, innamoratosi della ragazza, decide di conoscerla sostituendosi al padre piscologo nelle sedute terapeutiche a cui Ilaria si sottopone per curare i problemi di anoressia. Tra equivoci ed infingimenti lo stratagemma funziona fino a quando il caso farà venire a galla la verità. Da quel momento tutto diventerà tremendamente complicato.
Se da una parte "Vorrei vederti ballare" si muove nel territorio di un cinema che ha destabilizzato l'irresponsabilità giovanile riducendola ad un libro di Liala, e parliamo tanto per intenderci di un film seminale come "Tre metri sopra al cielo" (2004) e dei vari cloni che sotto mentite spoglie hanno cercato di imitarne gli stilemi e soprattutto il successo, d'altro canto non si può fare a meno di notare il tentativo di personalizzare il canovaccio con una riflessione sulla settima arte capace di abbracciare sia gli aspetti puramente teorici, sia quelli squisitamente cinefili. Istanza di cui il film si fa portatore nell'attitudine di Martino di difendersi da un mondo che non lo capisce - appassionato di tartarughe, vorrebbe fare il biologo ma il padre in maniera pragmatica lo costringe a studiare psicologia - diventandone dapprima un osservatore distante, e successivamente prendendovi parte sotto mentite spoglie. Nel primo caso è l'atto del "guardare" a fare da riferimento, con una serie di passaggi sufficientemente indicativi a rivelarne l'intento. Dapprima è l'occhio di Martino a diventare strumento di una conoscenza indiretta ma necessaria a tenere vivo il desiderio, presente nella volontà di spiare la ragazza durante gli esercizi di danza che la stessa esegue di fronte alla finestra della propria abitazione. Successivamente sono due sequenze ambientate in una sala cinematografica a chiamare in causa nuovamente il cinema nella sua essenza, ed insieme a delineare la dimensione emotiva della vicenda: la prima caratterizzata da una profonda solitudine, ci mostra Martino immerso nella proiezione, attraverso una ripresa in soggettiva effettuata dal punto di vista dello schermo; nella seconda invece, più o meno dello stesso tenore, il ragazzo non è più solo ma segue il film insieme ad Ilaria. Se nel primo caso la scelta di una doppia osservazione, quella dell'oggetto osservato ed insieme osservante, costruisce un mondo chiuso in cui la coincidenza tra arte/schermo e vita/Martino corrisponde ad un ideale amoroso ancora lungi dall'essere reale, nella seconda, che arriva quando i due ragazzi hanno già iniziato a frequentarsi, trasformando di fatto quello stato ideale in qualcosa di concreto, lo scarto emotivo è reso da una ripresa più convenzionale, in cui lo sguardo del protagonista, finalmente disgiunto dalla finzione dello schermo, torna a vivere di vita propria, attraverso una composizione del quadro per la prima volta occupato dalle immagini del film ("L'imbalsamatore" di Matteo Garrone) che i ragazzi stanno guardando. Ed è ancora il cinema, questa volta declinato nelle sue capacità mimetiche a farla da padrone, con il protagonista che nella parte centrale della storia finge di essere un altro per riuscire a conquistare l'oggetto del suo desiderio, assolvendo in questo modo la funzione di meccanismo narrativo necessario a far evolvere la storia, ed insieme, ma su un altro livello, a decostruire il mestiere dell'attore attraverso i diversi aggiustamenti che Martino mette in atto per supplire agli imprevisti di quel "lavoro". Una passione cinematografica tout court che Nicola Deorsola trasmette anche nella cura delle scenografie, traboccanti di poster cinematografici, nei dettagli di un acconciatura, che nel caso della cassiera del cinema interpretata da Paola Barale fa il verso a Marylin, nelle citazioni di frasi passate agli annali, come quella pronunciata da Natalie Baye in "Effetto notte"(1973) "Io mollerei un uomo per un film, ma non riuscirei mai a mollare un film per un uomo". E' quindi un peccato che "Vorrei vederti ballare" debba scontare certe ingenuità presenti nell'inserimento di intermezzi comici, come quelli che accompagnano il personaggio intepretato da Gian Marco Tognazzi che, nella performance sopra le righe dell'attore romano, poco si addicono alla drammaticità del contesto. Allo stesso modo è impossibile non sentire la programmaticità di certi snodi emotivi che, nell'intento di far progredire la vicenda finiscono per consegnarla a cambiamenti un pò troppo frettolosi. Luci ed ombre di un esordio comunque apprezzabile, e supportato da un cast di valore, in cui si distingue la prova nervosa e sofferta di Chiara Chiti, già vista al cinema nel primo film di Matteo Rovere (Gioco da ragazze,1981) e qui felicemente riscoperta.
(pubblicata su ondacinema.it)
di Nicola Deorsola
con Giulio Forges Davanzati, Chiara Chiti
Ita, 2009
I due mesi che precedono il periodo natalizio sono diventati il terminale di una distribuzione a dir poco impazzita, capace di concentrare in un lasso di tempo relativamente breve una quantità di opere così elevata da rischiare la congestione. Stipati a forza nelle sale i film danno vita ad un calderone senza capo ne coda, in cui il prodotto è messo in vendita con scarsa sensibilità delle sue caratteristiche, e senza alcuna salvaguardia nei confronti di quei titoli che sprovvisti di un' adeguata campagna promozionale, sono destinate a fugaci apparizioni. Una condizione che accomuna soprattutto il cinema italiano prodotto al di fuori del duopolio Rai/Mediaset, e quindi un film come quello dell'esordiente Nicola Deorsola, "Vorrei vederti ballare" commissionato dalla camera di commercio di Cosenza per sponsorizzare il turismo di una regione tra le meno frequentate dagli autori nostrani.
Il paesaggio calabrese, con le sue bellezze naturali, è dunque chiamato a fare da sfondo alla storia di Martino ed Ilaria, figli incompresi di genitori che in qualche modo riversano su di loro le frustrazioni di matrimoni distrutti dalle circostanze della vita, o logorati da ripetuta disaffezione. Una condizione comune destinata ad incontrarsi attraverso lo stratagemma messo in piedi da Martino che, innamoratosi della ragazza, decide di conoscerla sostituendosi al padre piscologo nelle sedute terapeutiche a cui Ilaria si sottopone per curare i problemi di anoressia. Tra equivoci ed infingimenti lo stratagemma funziona fino a quando il caso farà venire a galla la verità. Da quel momento tutto diventerà tremendamente complicato.
Se da una parte "Vorrei vederti ballare" si muove nel territorio di un cinema che ha destabilizzato l'irresponsabilità giovanile riducendola ad un libro di Liala, e parliamo tanto per intenderci di un film seminale come "Tre metri sopra al cielo" (2004) e dei vari cloni che sotto mentite spoglie hanno cercato di imitarne gli stilemi e soprattutto il successo, d'altro canto non si può fare a meno di notare il tentativo di personalizzare il canovaccio con una riflessione sulla settima arte capace di abbracciare sia gli aspetti puramente teorici, sia quelli squisitamente cinefili. Istanza di cui il film si fa portatore nell'attitudine di Martino di difendersi da un mondo che non lo capisce - appassionato di tartarughe, vorrebbe fare il biologo ma il padre in maniera pragmatica lo costringe a studiare psicologia - diventandone dapprima un osservatore distante, e successivamente prendendovi parte sotto mentite spoglie. Nel primo caso è l'atto del "guardare" a fare da riferimento, con una serie di passaggi sufficientemente indicativi a rivelarne l'intento. Dapprima è l'occhio di Martino a diventare strumento di una conoscenza indiretta ma necessaria a tenere vivo il desiderio, presente nella volontà di spiare la ragazza durante gli esercizi di danza che la stessa esegue di fronte alla finestra della propria abitazione. Successivamente sono due sequenze ambientate in una sala cinematografica a chiamare in causa nuovamente il cinema nella sua essenza, ed insieme a delineare la dimensione emotiva della vicenda: la prima caratterizzata da una profonda solitudine, ci mostra Martino immerso nella proiezione, attraverso una ripresa in soggettiva effettuata dal punto di vista dello schermo; nella seconda invece, più o meno dello stesso tenore, il ragazzo non è più solo ma segue il film insieme ad Ilaria. Se nel primo caso la scelta di una doppia osservazione, quella dell'oggetto osservato ed insieme osservante, costruisce un mondo chiuso in cui la coincidenza tra arte/schermo e vita/Martino corrisponde ad un ideale amoroso ancora lungi dall'essere reale, nella seconda, che arriva quando i due ragazzi hanno già iniziato a frequentarsi, trasformando di fatto quello stato ideale in qualcosa di concreto, lo scarto emotivo è reso da una ripresa più convenzionale, in cui lo sguardo del protagonista, finalmente disgiunto dalla finzione dello schermo, torna a vivere di vita propria, attraverso una composizione del quadro per la prima volta occupato dalle immagini del film ("L'imbalsamatore" di Matteo Garrone) che i ragazzi stanno guardando. Ed è ancora il cinema, questa volta declinato nelle sue capacità mimetiche a farla da padrone, con il protagonista che nella parte centrale della storia finge di essere un altro per riuscire a conquistare l'oggetto del suo desiderio, assolvendo in questo modo la funzione di meccanismo narrativo necessario a far evolvere la storia, ed insieme, ma su un altro livello, a decostruire il mestiere dell'attore attraverso i diversi aggiustamenti che Martino mette in atto per supplire agli imprevisti di quel "lavoro". Una passione cinematografica tout court che Nicola Deorsola trasmette anche nella cura delle scenografie, traboccanti di poster cinematografici, nei dettagli di un acconciatura, che nel caso della cassiera del cinema interpretata da Paola Barale fa il verso a Marylin, nelle citazioni di frasi passate agli annali, come quella pronunciata da Natalie Baye in "Effetto notte"(1973) "Io mollerei un uomo per un film, ma non riuscirei mai a mollare un film per un uomo". E' quindi un peccato che "Vorrei vederti ballare" debba scontare certe ingenuità presenti nell'inserimento di intermezzi comici, come quelli che accompagnano il personaggio intepretato da Gian Marco Tognazzi che, nella performance sopra le righe dell'attore romano, poco si addicono alla drammaticità del contesto. Allo stesso modo è impossibile non sentire la programmaticità di certi snodi emotivi che, nell'intento di far progredire la vicenda finiscono per consegnarla a cambiamenti un pò troppo frettolosi. Luci ed ombre di un esordio comunque apprezzabile, e supportato da un cast di valore, in cui si distingue la prova nervosa e sofferta di Chiara Chiti, già vista al cinema nel primo film di Matteo Rovere (Gioco da ragazze,1981) e qui felicemente riscoperta.
(pubblicata su ondacinema.it)
mercoledì, dicembre 12, 2012
Shell
Vincitore della 30 edizione del TFF
Shell
di Scott Graham
con Chloe Pirrie, Tam Dean Burn
Le Highlands scozzesi, una pompa di benzina, un padre ed una figlia. Esistenze in bianco e nero, appena schizzate sulla tavolozza della vita, quel tanto che basta per essere visibili al resto del mondo. Nella landa desolata e ventosa Shell, adolescente inquieta, e suo padre, vedovo taciturno, sono il nucleo di riferimento di un'umanità ridotta ad un grumo di anime inquiete. Con appuntamenti scanditi dalla necessità di un pieno di carburante o di un'automobile da riparare, uomini e donne si alternano al capezzale di un attività che sembra un pretesto per rimanere aggrappati a quel luogo di orizzonti senza speranza. Presenze saltuarie ed anonime, eppure invadenti, perché ricordano la possibilità di un'altrove. Una ripetizione scontata negli esiti, ma capace di riaccendere il desiderio di fuga che Shell tiene a freno per il bisogno di non perdere l'amore del genitore, laconico e perennemente piegato su un lavoro che non da frutti.
Si presenta come il paesaggio in cui è ambientato il secondo film di Scott Graham, privo di appigli e ripiegato su se stesso nella stessa misura in cui lo sono i due protagonisti, appartati e soli, integrati da un linguaggio appartenente solo a loro, e che in mancanza di parole può essere compreso a patto di armonizzarsi su ciò che è invisibile agli occhi ma comprensibile al cuore. Ed è proprio sotto l'apparenza delle cose che bisogna cercare per cogliere il senso di un film che procede sintonizzandosi sulla ripetizione di gesti senza importanza, di quelli che non lasciano memoria, e che si accompagnano ai silenzi interminabili di cui l'opera è piena. Graham lo suggerisce in maniera impercettibile, annullandosi dietro la macchina da presa con inquadrature che scrutano nello sguardo delle persone, seguendone le traiettorie spesso incongruenti quando, negli snodi della storia, sono presi in contropiede dalle azioni dei personaggi, pronti a fare quello che non ti aspetti, a trasformare l'abbraccio filiale nelle premesse di un amplesso incestuoso mai consumato, e destinato a ripetersi più volte nel corso del film a sottolineare il tema centrale della storia, che è appunto la natura di un legame familiare definito da un'assenza — della madre morta prematuramente — che segna in maniera devastate l'esistenza di chi rimane. Come accade alla protagonista che si sente il dovere di compensare quella mancanza rinunciando di fatto alla propria vita.
Se il tema e la storia non erano nuovi, basti pensare all'inedito "The ballad of Jack and Rose" (2005), che in maniera diversa metteva in scena una vicenda quasi simile, bisogna dire che Graham si mette al riparo da qualsiasi stereotipo o imitazione con un lavoro di sottrazione che se da una parte elimina la tentazione del compiacimento autoriale, dall'altra arriva all'essenza di ciò che racconta, con un processo di scarnificazione che non riguarda solo i personaggi e gli ambienti, ripresi con inquadrature parziali, mai in grado di riprodurli nella loro interezza— la casa ma anche la piccola officina contigua alla pompa di benzina — oppure utilizzati come luoghi dell'anima — la natura sublime ed aspra riflette il sentire represso ma altrettanto basico e selvaggio dei due protagonisti — ma anche la forma, costruita su una tensione interna che rimane quasi sempre implosa, grazie ad un montaggio secco ed antiretorico. In egual modo "Shell" è anche la storia di un distacco in cui l'accumularsi degli avvenimenti, oggettivamente ordinari ma nella prospettiva di un' esistenza dove non accade mai nulla decisamente epocali — ci riferiamo per esempio alla morte del cervo investito da una macchina, oppure agli avventori occasionali che permettono a Shell l'opportunità di confrontarsi con altri modelli di vita — determina una presa di coscienza di sè e del mondo che la protagonista realizza in modo casuale ma netto nella sequenza in cui rincorre affannosamente la macchina per restituire alla bambina la bambola dimenticata nel negozio. Un passaggio in cui la forza di quella rivelazione è resa attraverso l'immagine del luogo natio, mostrato per la prima volta dall'esterno, con una campo lungo che lo comprende, ed insieme lo isola, rendendolo estraneo alla ragazza che lo sta guardando. E' in quel ribaltamento di prospettive, realizzato lavorando sulle immagini, e materializzato da un susseguirsi ravvicinato di dinamismo e staticità, che si concentrano simultaneamente la qualità di un film rigoroso e dolente. Ma "Shell" non sarebbe lo stesso senza la presenza di Chloe Pirrie, meravigliosa ed unica nel donare al film un'umanità che entra sotto la pelle e lì rimane. Vincitore del Torino Film Festival 2012 e di altri premi collaterali "Shell" non ha ancora trovato una distribuzione. E' quello che gli auguriamo insieme alla speranza di ritrovare un autore così promettente.
(pubblicato su ondacinema.it)
Shell
di Scott Graham
con Chloe Pirrie, Tam Dean Burn
Le Highlands scozzesi, una pompa di benzina, un padre ed una figlia. Esistenze in bianco e nero, appena schizzate sulla tavolozza della vita, quel tanto che basta per essere visibili al resto del mondo. Nella landa desolata e ventosa Shell, adolescente inquieta, e suo padre, vedovo taciturno, sono il nucleo di riferimento di un'umanità ridotta ad un grumo di anime inquiete. Con appuntamenti scanditi dalla necessità di un pieno di carburante o di un'automobile da riparare, uomini e donne si alternano al capezzale di un attività che sembra un pretesto per rimanere aggrappati a quel luogo di orizzonti senza speranza. Presenze saltuarie ed anonime, eppure invadenti, perché ricordano la possibilità di un'altrove. Una ripetizione scontata negli esiti, ma capace di riaccendere il desiderio di fuga che Shell tiene a freno per il bisogno di non perdere l'amore del genitore, laconico e perennemente piegato su un lavoro che non da frutti.
Si presenta come il paesaggio in cui è ambientato il secondo film di Scott Graham, privo di appigli e ripiegato su se stesso nella stessa misura in cui lo sono i due protagonisti, appartati e soli, integrati da un linguaggio appartenente solo a loro, e che in mancanza di parole può essere compreso a patto di armonizzarsi su ciò che è invisibile agli occhi ma comprensibile al cuore. Ed è proprio sotto l'apparenza delle cose che bisogna cercare per cogliere il senso di un film che procede sintonizzandosi sulla ripetizione di gesti senza importanza, di quelli che non lasciano memoria, e che si accompagnano ai silenzi interminabili di cui l'opera è piena. Graham lo suggerisce in maniera impercettibile, annullandosi dietro la macchina da presa con inquadrature che scrutano nello sguardo delle persone, seguendone le traiettorie spesso incongruenti quando, negli snodi della storia, sono presi in contropiede dalle azioni dei personaggi, pronti a fare quello che non ti aspetti, a trasformare l'abbraccio filiale nelle premesse di un amplesso incestuoso mai consumato, e destinato a ripetersi più volte nel corso del film a sottolineare il tema centrale della storia, che è appunto la natura di un legame familiare definito da un'assenza — della madre morta prematuramente — che segna in maniera devastate l'esistenza di chi rimane. Come accade alla protagonista che si sente il dovere di compensare quella mancanza rinunciando di fatto alla propria vita.
Se il tema e la storia non erano nuovi, basti pensare all'inedito "The ballad of Jack and Rose" (2005), che in maniera diversa metteva in scena una vicenda quasi simile, bisogna dire che Graham si mette al riparo da qualsiasi stereotipo o imitazione con un lavoro di sottrazione che se da una parte elimina la tentazione del compiacimento autoriale, dall'altra arriva all'essenza di ciò che racconta, con un processo di scarnificazione che non riguarda solo i personaggi e gli ambienti, ripresi con inquadrature parziali, mai in grado di riprodurli nella loro interezza— la casa ma anche la piccola officina contigua alla pompa di benzina — oppure utilizzati come luoghi dell'anima — la natura sublime ed aspra riflette il sentire represso ma altrettanto basico e selvaggio dei due protagonisti — ma anche la forma, costruita su una tensione interna che rimane quasi sempre implosa, grazie ad un montaggio secco ed antiretorico. In egual modo "Shell" è anche la storia di un distacco in cui l'accumularsi degli avvenimenti, oggettivamente ordinari ma nella prospettiva di un' esistenza dove non accade mai nulla decisamente epocali — ci riferiamo per esempio alla morte del cervo investito da una macchina, oppure agli avventori occasionali che permettono a Shell l'opportunità di confrontarsi con altri modelli di vita — determina una presa di coscienza di sè e del mondo che la protagonista realizza in modo casuale ma netto nella sequenza in cui rincorre affannosamente la macchina per restituire alla bambina la bambola dimenticata nel negozio. Un passaggio in cui la forza di quella rivelazione è resa attraverso l'immagine del luogo natio, mostrato per la prima volta dall'esterno, con una campo lungo che lo comprende, ed insieme lo isola, rendendolo estraneo alla ragazza che lo sta guardando. E' in quel ribaltamento di prospettive, realizzato lavorando sulle immagini, e materializzato da un susseguirsi ravvicinato di dinamismo e staticità, che si concentrano simultaneamente la qualità di un film rigoroso e dolente. Ma "Shell" non sarebbe lo stesso senza la presenza di Chloe Pirrie, meravigliosa ed unica nel donare al film un'umanità che entra sotto la pelle e lì rimane. Vincitore del Torino Film Festival 2012 e di altri premi collaterali "Shell" non ha ancora trovato una distribuzione. E' quello che gli auguriamo insieme alla speranza di ritrovare un autore così promettente.
(pubblicato su ondacinema.it)
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anteprime,
recensioni
Film in sala dal 13 Dicembre 2012
di Giulio Manfredonia
Commedia - ITA 2012 - 01 Distribution - 96"
Antonio Albanese, Paolo Villaggio, Fabrizio Bentivoglio
Lorenza Indovina, Lunetta Savino, Nicola Rignanese, Vito
Christopher Lee, Ian McKellen, James Nesbitt
Daniel Portman, Lorne MacFadyen
Anna Foglietta, Luisa Ranieri
L'INNOCENZA DI CLARA
Bobo Rondelli, Giulio Beranek
Lorenza Indovina, Lunetta Savino, Nicola Rignanese, Vito
LO HOBBIT: UN VIAGGIO INASPETTATO (3D)
(The Hobbit: An unexpected journey)
di Peter Jackson
Fantasy - USA/New Zeland - 2012 - Warner Bros - 164"
Aidan Turner, Andy Serkis, Cate BlanchettChristopher Lee, Ian McKellen, James Nesbitt
(The Angels' Share)
di Ken Loach
Drammatico - GB/Francia 2012 - BIM - 101"
Roger Allam, John Henshaw, Gary MaitlandDaniel Portman, Lorne MacFadyen
di Neri Parenti
Commedia - Italia 2012 - Universal Pictures - 104"
Christian De Sica, Lillo (Pasquale Petrolo), Claudio GregoriAnna Foglietta, Luisa Ranieri
L'INNOCENZA DI CLARA
di Toni D'Angelo
Drammatico - Italia 2012 - Cinecittà Luce - 82"
Chiara Conti, Luca Lionello, Alberto GimignaniBobo Rondelli, Giulio Beranek
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film in uscita 2012
martedì, dicembre 11, 2012
Birthdays
12/12/2012.
Compie oggi gli anni una delle brave e belle dell'"altra Hollywood", quella, per intendersi, discosta dai riflettori piu grossi.
Avendo dimostrato col tempo di saperci fare,
la lontananza alla fine e' diventata giusta distanza.
Il breve profilo che le abbiamo dedicato prova ad inquadrarne il percorso.
Auguri, allora, a Jennifer Lynn Connelly, capelli neri e occhi grigio-verdi da Catskill, stato di New York, e buona lettura.
TheFisheKing
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Jennifer Connelly
lunedì, dicembre 10, 2012
Itaker - Proibito agli italiani
Itaker
di Toni Trupia
con Francesco Scianna, Michele Placido
Ita, 2012
Dopo essere stati protagonisti in prima persona di un esodo che dagli inizi del Novecento ha visto migliaia di connazionali lasciare l'Italia in cerca di fortuna e di lavoro, negli ultimi trent'anni si è assistito ad un'inversione di tendenza, con i flussi migratori convergenti sui territori della nostra penisola. Un processo naturale e in qualche modo prevedibile, ma comunque capace di risvegliare i ricordi di un trauma da quel momento riconsiderato alla luce di questo inedito accadimento. Un ripensamento che il cinema ha metabolizzato con uno sforzo che, salvo rare eccezioni ("Così ridevano" di Gianni Amelio e "Nuovomondo" di Emanuele Crialese) si è impegnato soprattutto a raccontare le storia dei nuovi "stranieri" e le difficoltà di un' integrazione tutt'altro che scontata. In tal senso, "Itaker" di Toni Trupia rappresenta in questo periodo un corpo anomalo non solo dal punto di vista estetico, con i panni della miseria di nuovo associati a volti ed accenti casalinghi, ma anche contenutistico, nella considerazione che le situazioni del film si riallacciano ad una pubblicistica che aveva avuto il suo massimo fulgore in un cinema d'altri tempi.
"Itaker" (termine usato dai tedeschi in senso dispregiativo per definire la nazionalità dei nostri compatrioti) narra le vicende di Pietro, un bambino di nove anni rimasto improvvisamente orfano, e di Benito, un magliaro dai trascorsi malavitosi, uniti dal viaggio che li sta portando in Germania, una terra promessa dove il primo spera di ritrovare il padre che l'aveva abbandonato, ed in cui il secondo ha intenzione di rifarsi una vita con un'attività finalmente onesta. Una volta arrivati le loro aspettative vengono frustrate dalla durezza della fabbrica in cui Benito lavora, e da una serie di difficoltà che spingono il ragazzo a riallacciare i rapporti con Pantanò, il boss locale per il quale inizia a lavorare nella speranza di realizzare i suoi sogni di gloria.
Giunto al suo secondo film Trupia si confronta con il passato rievocandolo da un punto di vista personale, e all'interno di un racconto che si affida ai personaggi secondari per ricordare le vicissitudini e i sacrifici di chi negli anni Sessanta fu costretto ad immigrare. Una manciata di figure sofferte e sofferenti che sbarcano il lunario lavorando come muli, a cui il lungometraggio concede uno spazio minimo, qualche inserto di breve durata, quel tanto che basta per contestualizzare l'ambiente attorno al quale si muovono Pietro e Benito, su cui invece "Itaker" si concentra. Trupia ce li mostra dapprima attraverso il conflitto che si sviluppa tra di loro, quando Benito è costretto in assenza del genitore ad occuparsi del bambino; successivamente, nell'alleanza sancita con una sequenza di sapore chapliniano, nella quale Pietro finge un pianto disperato e sofferto per intenerire gli acquirenti a cui Pietro sta cercando di piazzare stoffe di seconda qualità. Un sodalizio che si colora di contorni drammatici e persino violenti, quando sulle orme de "Il padrino" (1972) il film cambia strada, assumendo le forme di un "romanzo criminale", per le conseguenze scatenate dal tentativo di Benito di fare le scarpe a Pantanò. Se Trupia è bravo a confrontarsi con un budget limitato, rinunciando all'affresco epocale, sicuramente più costoso, a favore di un contenitore sentimentale e melò, è altrettanto vero che "Itaker" così facendo non riesce ad essere né lo specchio di come eravamo, né una metafora di come siamo diventati. Un'opera spuria che il regista dota di buona compattezza, soprattutto dal punto di vista delle performance recitative, con Francesco Scianna ("Baarìa", 2009) sufficientemente guascone per incarnare la quintessenza del maschio italico, ma penalizzata da orizzonti di tipo televisivo tanto nelle immagini, didascaliche e piatte, quanto nella scrittura, che semplifica le differenze psicologiche ed alimenta il luogo comune. Così se da una parte fanno impressione i rimandi iconografici della fabbrica e degli annessi alloggi, simili in modo inequivocabile alla Germania dei lager e del Terzo Reich, non può non lasciare perplessi il ritratto unidimensionale del popolo tedesco, perennemente imbronciato nelle poche volte che compare sulla scena, o di quello italiano, ridotto ad un coacervo di orgoglio e di passione, con le donne in un modo o nell'altro a fare la differenza tra felicità e disperazione. Offerto ai festival di Roma e di Torino "Itaker" secondo le dichiarazioni rilasciate da Michele Placido, qui anche in veste di produttore, è stato in entrambi i casi rifiutato. In qualche modo ne capiamo le ragioni.
(pubblicata su ondacinema.it)
di Toni Trupia
con Francesco Scianna, Michele Placido
Ita, 2012
Dopo essere stati protagonisti in prima persona di un esodo che dagli inizi del Novecento ha visto migliaia di connazionali lasciare l'Italia in cerca di fortuna e di lavoro, negli ultimi trent'anni si è assistito ad un'inversione di tendenza, con i flussi migratori convergenti sui territori della nostra penisola. Un processo naturale e in qualche modo prevedibile, ma comunque capace di risvegliare i ricordi di un trauma da quel momento riconsiderato alla luce di questo inedito accadimento. Un ripensamento che il cinema ha metabolizzato con uno sforzo che, salvo rare eccezioni ("Così ridevano" di Gianni Amelio e "Nuovomondo" di Emanuele Crialese) si è impegnato soprattutto a raccontare le storia dei nuovi "stranieri" e le difficoltà di un' integrazione tutt'altro che scontata. In tal senso, "Itaker" di Toni Trupia rappresenta in questo periodo un corpo anomalo non solo dal punto di vista estetico, con i panni della miseria di nuovo associati a volti ed accenti casalinghi, ma anche contenutistico, nella considerazione che le situazioni del film si riallacciano ad una pubblicistica che aveva avuto il suo massimo fulgore in un cinema d'altri tempi.
"Itaker" (termine usato dai tedeschi in senso dispregiativo per definire la nazionalità dei nostri compatrioti) narra le vicende di Pietro, un bambino di nove anni rimasto improvvisamente orfano, e di Benito, un magliaro dai trascorsi malavitosi, uniti dal viaggio che li sta portando in Germania, una terra promessa dove il primo spera di ritrovare il padre che l'aveva abbandonato, ed in cui il secondo ha intenzione di rifarsi una vita con un'attività finalmente onesta. Una volta arrivati le loro aspettative vengono frustrate dalla durezza della fabbrica in cui Benito lavora, e da una serie di difficoltà che spingono il ragazzo a riallacciare i rapporti con Pantanò, il boss locale per il quale inizia a lavorare nella speranza di realizzare i suoi sogni di gloria.
Giunto al suo secondo film Trupia si confronta con il passato rievocandolo da un punto di vista personale, e all'interno di un racconto che si affida ai personaggi secondari per ricordare le vicissitudini e i sacrifici di chi negli anni Sessanta fu costretto ad immigrare. Una manciata di figure sofferte e sofferenti che sbarcano il lunario lavorando come muli, a cui il lungometraggio concede uno spazio minimo, qualche inserto di breve durata, quel tanto che basta per contestualizzare l'ambiente attorno al quale si muovono Pietro e Benito, su cui invece "Itaker" si concentra. Trupia ce li mostra dapprima attraverso il conflitto che si sviluppa tra di loro, quando Benito è costretto in assenza del genitore ad occuparsi del bambino; successivamente, nell'alleanza sancita con una sequenza di sapore chapliniano, nella quale Pietro finge un pianto disperato e sofferto per intenerire gli acquirenti a cui Pietro sta cercando di piazzare stoffe di seconda qualità. Un sodalizio che si colora di contorni drammatici e persino violenti, quando sulle orme de "Il padrino" (1972) il film cambia strada, assumendo le forme di un "romanzo criminale", per le conseguenze scatenate dal tentativo di Benito di fare le scarpe a Pantanò. Se Trupia è bravo a confrontarsi con un budget limitato, rinunciando all'affresco epocale, sicuramente più costoso, a favore di un contenitore sentimentale e melò, è altrettanto vero che "Itaker" così facendo non riesce ad essere né lo specchio di come eravamo, né una metafora di come siamo diventati. Un'opera spuria che il regista dota di buona compattezza, soprattutto dal punto di vista delle performance recitative, con Francesco Scianna ("Baarìa", 2009) sufficientemente guascone per incarnare la quintessenza del maschio italico, ma penalizzata da orizzonti di tipo televisivo tanto nelle immagini, didascaliche e piatte, quanto nella scrittura, che semplifica le differenze psicologiche ed alimenta il luogo comune. Così se da una parte fanno impressione i rimandi iconografici della fabbrica e degli annessi alloggi, simili in modo inequivocabile alla Germania dei lager e del Terzo Reich, non può non lasciare perplessi il ritratto unidimensionale del popolo tedesco, perennemente imbronciato nelle poche volte che compare sulla scena, o di quello italiano, ridotto ad un coacervo di orgoglio e di passione, con le donne in un modo o nell'altro a fare la differenza tra felicità e disperazione. Offerto ai festival di Roma e di Torino "Itaker" secondo le dichiarazioni rilasciate da Michele Placido, qui anche in veste di produttore, è stato in entrambi i casi rifiutato. In qualche modo ne capiamo le ragioni.
(pubblicata su ondacinema.it)
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recensioni
sabato, dicembre 08, 2012
Di nuovo in gioco
Di nuovo in gioco (Trouble with the curve)
di Robert Lorenz
con Clint Eastwood, Amy Adams, Justin Timberlake
Usa, 2102
Durata, 111'
di Robert Lorenz
con Clint Eastwood, Amy Adams, Justin Timberlake
Usa, 2102
Durata, 111'
Il
vecchio Clint è tornato in azione. Dopo le dichiarazioni di commiato
rilasciate a suo tempo e le notizie di un reality incentrato sulla sua
famiglia,Eastwood torna a sorpresa nelle vesti d'attore con un film che
gli appartiene più di quanto non voglia far credere. A parte il regista,
antico sodale della ormai leggendaria Malpaso Productions, sono una
serie di indizi a confermarcelo. Dalla storia, ancora una volta
incentrata su un uomo in
disaccordo con il proprio tempo, ai temi incentrati sul confronto
generazionale, dalla difficoltà dei rapporti filiali, alla
riproposizione di valori di un America "old scholl", per non dire
dei compagni di viaggio che sono quelli di sempre a cominciare dalle
luci di Tom Stern accanto all'Eastwood che fa incetta di premi e di
consensi.E poi se vogliamo anche in quel pizzico di metacinema che "Di
nuovo in gioco" ci presenta nell'incipit costruito su un uomo che sta
perdendo la vista, e che per questo è costretto ad affidarsi all'udito
per cogliere la giustezza o meno del colpo che intercetterà la palla. Una metafora neanche troppo
nascosta su uno sguardo (cinematografico), quello di Eastwood, capace di
reagire allo scorrere del tempo grazie ad un'acuita sensibilità.
Una somiglianza così netta da chiamare in causa in modo naturale eventuali varianti che in questo caso sono presenti soprattutto in una regia ancora una volta classica,tesa a portare avanti il meccanismo narrativo, ma priva di quelle sfumature anche formali che alimentano il cinema Eastwodiano,solitamente propenso ad allargare lo spettro dei significati e delle possibili interpretazioni. E poi ad una vena di insolito ottimismo ascrivibile alla presenza della schermaglia amorosa tra il personaggio di Justin Timberlake, ex giocatore di baseball che alla pari di Gus,il protagonista della storia, fa il talent scout in giro per l'America, e quello di Amy Adams, figlia di Gus ed avvocato in ascesa che il film ci presenta lontano dalle aule di tribunale ma, in maniera più prosaica, seduta nelle gradinate dello stadio per aiutare il padre che sta perdendo la vista e forse anche il lavoro.
Una somiglianza così netta da chiamare in causa in modo naturale eventuali varianti che in questo caso sono presenti soprattutto in una regia ancora una volta classica,tesa a portare avanti il meccanismo narrativo, ma priva di quelle sfumature anche formali che alimentano il cinema Eastwodiano,solitamente propenso ad allargare lo spettro dei significati e delle possibili interpretazioni. E poi ad una vena di insolito ottimismo ascrivibile alla presenza della schermaglia amorosa tra il personaggio di Justin Timberlake, ex giocatore di baseball che alla pari di Gus,il protagonista della storia, fa il talent scout in giro per l'America, e quello di Amy Adams, figlia di Gus ed avvocato in ascesa che il film ci presenta lontano dalle aule di tribunale ma, in maniera più prosaica, seduta nelle gradinate dello stadio per aiutare il padre che sta perdendo la vista e forse anche il lavoro.
Certamente non siamo in presenza di un capolavoro ma il carisma del
vecchio cowboy, la sua gestualità, e lo sguardo perennemente accigliato bastano ed avanzanzo ad un prodotto comunque
in grado di raccontare una storia tenendo desta l'attenzione senza fare a meno della logica e dei personaggi. Un po
poco se paragonato all'eccellenza Eastwoodiana, abbastanza per i tempi
che corrono.
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recensioni
venerdì, dicembre 07, 2012
The Grey
The Grey
di Joe Carnahan
con Liam Neeson
Usa, 2012
durata 117
Il cinema come forma di terapia.
Non solo per chi lo guarda ma anche per chi lo fa.
Non è un mistero che l'identificazione tra la realtà dello spettatore e la finzione dello schermo possa favorire la presa di coscienza di un determinato aspetto della nostra vita oppure cambiare uno stato interiore attraverso i processi catartici che un film può stimolare.
Se poi annulliamo la distanza tra il mondo ideale e quello vissuto come avviene per gli attori che quella trasposizione le devono interpretare, allora il transfert è totale, così come gli effetti da quello provocato.
Di conseguenza non sarà stato facile per Liam Neeson impersonare un uomo tormentato dal ricordo della moglie morta prematuramente. "Non avere paura" ripete la giovane donna rivolgendosi al compagno che la assiste durante gli ultimi giorni.
Una frase che deve essere riecheggiata spesso nella mente dell'attore mentre cercava di entrare dentro un personaggio che come lui era alle prese con un lutto ancora fresco.
E' da lì che deve essere partito per interpretare John Ottway cacciatore di lupi assoldato per proteggere gli operai di una compagnia petrolifera dagli assalti dei feroci animali. Un processo di assimilazione capace di ridisegnare il volto dell'attore consegnandolo ad un espressivirtà colorata di sofferenza vissuta sulla pelle.
Una trasformazione che Joe Carnahan utilizza per accrescere il carisma di un uomo che si ritrova a capo di un manipolo di uomini scampati ad un terribile incidente aereo. Persi in un deserto di ghiaccio e minacciati da un branco di lupi, i superstiti cercheranno di attaccarsi alla vita con la disperazione di chi non ha più nulla da perdere.
Joe Carnahan, un regista di belle speranze convertitosi a produzioni di routine aveva due possibilità: enfatizzare i meccanismi della suspence e dell' azione per puntare ad un intrattenimento spettacolare, basato sul continuo confronto tra il cacciatore e la sua preda, oppure innestare in un racconto di avventura dalle venature horror elementi di riflessione scaturiti dal contatto con l'elemento naturale prima e con quello animale poi.
Ne sceglie invece una terza in cui dapprima riduce i personaggi a una tipologia caratteriale, funzionale ad alterare le dinamiche relazionali all'interno del gruppo, e poi li consegna alla morte con una serie di espedienti che diminuiscono una credibilità ricercata nella scelta di location reali e particolarmente disagiate, per la stupidità dei comportamenti messi in atto.
In questo modo il film si riempie di sentimenti infarciti di nostalgie familiari e solitudine interiore, di lunghe attese aspettando il prossimo attacco di un avversario che il film centellina con apparizioni quasi sempre nascoste all’occhio dello spettatore.
Una soluzione in economia che lascia spazio a lunghi momenti di pausa, troppi per una trama che punta in maniera scontata allo scontro finale, quello in cui il protagonista rimarrà da solo di fronte al suo destino. Alla fine l’unica cosa che rimane è la maschera di dolore di Neeson/Ottway .
Neanche un film così poco suggestivo riesce a farcela dimenticare.
di Joe Carnahan
con Liam Neeson
Usa, 2012
durata 117
Il cinema come forma di terapia.
Non solo per chi lo guarda ma anche per chi lo fa.
Non è un mistero che l'identificazione tra la realtà dello spettatore e la finzione dello schermo possa favorire la presa di coscienza di un determinato aspetto della nostra vita oppure cambiare uno stato interiore attraverso i processi catartici che un film può stimolare.
Se poi annulliamo la distanza tra il mondo ideale e quello vissuto come avviene per gli attori che quella trasposizione le devono interpretare, allora il transfert è totale, così come gli effetti da quello provocato.
Di conseguenza non sarà stato facile per Liam Neeson impersonare un uomo tormentato dal ricordo della moglie morta prematuramente. "Non avere paura" ripete la giovane donna rivolgendosi al compagno che la assiste durante gli ultimi giorni.
Una frase che deve essere riecheggiata spesso nella mente dell'attore mentre cercava di entrare dentro un personaggio che come lui era alle prese con un lutto ancora fresco.
E' da lì che deve essere partito per interpretare John Ottway cacciatore di lupi assoldato per proteggere gli operai di una compagnia petrolifera dagli assalti dei feroci animali. Un processo di assimilazione capace di ridisegnare il volto dell'attore consegnandolo ad un espressivirtà colorata di sofferenza vissuta sulla pelle.
Una trasformazione che Joe Carnahan utilizza per accrescere il carisma di un uomo che si ritrova a capo di un manipolo di uomini scampati ad un terribile incidente aereo. Persi in un deserto di ghiaccio e minacciati da un branco di lupi, i superstiti cercheranno di attaccarsi alla vita con la disperazione di chi non ha più nulla da perdere.
Joe Carnahan, un regista di belle speranze convertitosi a produzioni di routine aveva due possibilità: enfatizzare i meccanismi della suspence e dell' azione per puntare ad un intrattenimento spettacolare, basato sul continuo confronto tra il cacciatore e la sua preda, oppure innestare in un racconto di avventura dalle venature horror elementi di riflessione scaturiti dal contatto con l'elemento naturale prima e con quello animale poi.
Ne sceglie invece una terza in cui dapprima riduce i personaggi a una tipologia caratteriale, funzionale ad alterare le dinamiche relazionali all'interno del gruppo, e poi li consegna alla morte con una serie di espedienti che diminuiscono una credibilità ricercata nella scelta di location reali e particolarmente disagiate, per la stupidità dei comportamenti messi in atto.
In questo modo il film si riempie di sentimenti infarciti di nostalgie familiari e solitudine interiore, di lunghe attese aspettando il prossimo attacco di un avversario che il film centellina con apparizioni quasi sempre nascoste all’occhio dello spettatore.
Una soluzione in economia che lascia spazio a lunghi momenti di pausa, troppi per una trama che punta in maniera scontata allo scontro finale, quello in cui il protagonista rimarrà da solo di fronte al suo destino. Alla fine l’unica cosa che rimane è la maschera di dolore di Neeson/Ottway .
Neanche un film così poco suggestivo riesce a farcela dimenticare.
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anteprime,
recensioni
giovedì, dicembre 06, 2012
FIlm Telecomandati: Solo due ore
Solo due ore (16 Blocks)
di Richard Donner
con Bruce Willis, Mos Def
Usa 2006
Il contrasto tra realtà ed
apparenza è entusiasmante, e “Bruno” risulta credibile per l’intero tragitto.
Sviluppato all’interno di un’unità di tempo che tiene conto del titolo e sembra svolgersi in diretta,
“Solo due ore” (16 Blocks, 2006)
flirta con il cinema western trasformando il centro urbano in una specie
di Fort Apache, con Mosley costretto a districarsi dai tentatoli di un mondo
caotico e sovraffollato, dominato dai rumori e dalla paura dell’ennesimo
agguato messo a punto da chi vuole impedirgli di portare a termine la missione.
Richard Donner è un artigiano d’altri tempi. Mettendo a sistema la clessidra
temporale che agita la storia con le facce stravolte dei due protagonisti
riesce a far sentire la tensione che ne accompagnano le gesta. Sembra cinema
degli anni 80 ancora influenzato da quello della decade che l’aveva preceduto.
Ci sono il pragmatismo grezzo di “Dirty Harry” e le emozioni dell’azione senza
effetti speciali. Assolutamente impedibile. E Bruce Willis con un perfetto understatement interpretativo azzecca
uno dei suoi ruoli migliori.
Rai 3 ore 21,05
durata 105'
di Richard Donner
con Bruce Willis, Mos Def
Usa 2006
Bruce
Willis prende coscienza del tempo che và. Visibilmente appesantito nella
camicia deformata dalla presenza di una pancia che si fa vedere, e con indosso
vestiti che avrebbero bisogno di un bucato in lavatrice. E’ così che appare
l’attore, lontanissimo dalla tonicità oliata e guascona esibita nella
quadrilogia del grattacielo, e più vicino ad un umanesimo da film esistenziale.
Il regista ci mette del suo, infierendo con delle immagini che c’è lo mostrano
malfermo e claudicante, perennemente affaticato dagli sforzi di un vita già
finita. In realtà è un’ enfasi fatta apposta per esaltare quello che viene
dopo, e cioè un film d’azione serratissimo in cui un poliziotto prossimo alla
pensione, Jack Mosley deve attraversare i sedici isolati che dividono la cella
dov’è detenuto Eddie Bauer dal tribunale dove lo deve scortare per farlo
testimoniare contro una banda di insospettabili manigoldi. In questo
contenitore di adrenalina e spostamenti Bruce Willis finisce per indossare di
nuovo il costume da super eroe, pur mantenendo intatta l’incipiente
dismissione.
Rai 3 ore 21,05
durata 105'
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Film Telecomandati,
recensioni
mercoledì, dicembre 05, 2012
Les Misérables - Premiere mondiale a Londra
Les Misérables è il nuovo straordinario film del regista Premio Oscar Tom Hooper, con Hugh Jackman (Jean Valjean), Russell Crowe (Ispettore Javert), Anne Hathaway (Fantine), Sacha Baron Cohen, Helena Bonham Carter (i Thénardier), Amanda Seyfried (Cosette), Eddie Redmayne (Marius) e Samantha Barks (Eponine).
A partire dalle 17.45 di oggi 5 dicembre 2012 (ora di Londra), arriveranno sul red carpet i seguenti talent:
Hugh Jackman (Valjean), Anne Hathaway (Fantine), Russell Crowe (Javert), Amanda Seyfried (Cosette), Samantha Barks (Éponine), Eddie Redmayne (Marius), Sacha Baron Cohen (Thénardier), Helena Bonham Carter (Madame Thénardier), Isabelle Allen (young Cosette) e Tom Hooper (Regista).
Seguili con I CINEMANIACI in anteprima mondiale streaming:
Film in sala dal 6 Dicembre 2012
LA BICICLETTA VERDE
(Wadjda)
di Haifaa al-Mansour
Drammatico - Arabia Saudita/Germania 2012 - A2/Archibald Film - 98"
Reem Abdullah, Waad Mohammed, Abdullrahman Algohani, Ahd Kamel, Sultan Al Assaf
Helena Bonham Carter, Ralph Fiennes, Jeremy Irvine, Jason Flemyng
Robbie Coltrane, Holliday Grainger, Ewen Bremner
RUBY SPARKS
di Jonathan Dayton, Valerie Faris
Commedia - USA 2012 - 20th Century Fox - 104" Antonio Banderas - Deborah Ann Woll - Alia Shawkat - Annette Bening
TROPPO AMICI
(Tellement proches)
di Eric Toledano, Olivier Nakache
Commedia - FRA 2012 - Moviemax - 102"
di Eric Toledano, Olivier Nakache
Commedia - FRA 2012 - Moviemax - 102"
Vincent Elbaz, Isabelle Carré, François-Xavier Demaison
Audrey Dana, Omar Sy, Joséphine de Meaux
Leighton Meester, Hugh Laurie, Catherine Keener, Alia Shawkat, Adam Brody
Bianca Guaccero, Corrado Fortuna, Maurizio Battista, Bonaria Decorato, Marina Rocco
VORREI VEDERTI BALLARE
di Nicola Deorsola
Commedia - USA 2012 - Micorcinema - 83"
Paola Barale, Chiara Chiti, Giuliana De Sio, Adriana Toman
Alessandro Haber, Gian Marco Tognazzi
Marco Foschi, Alice Palazzi, Massimo Foschi, Veronica De Laurentiis, Hanna Schygulla
Jordin Sparks, Whitney Houston, Derek Luke
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film in uscita 2012
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