Si può riuscire a far ridere della nostra attualità
senza mortificare l’intelligenza dello spettatore. Dopo la visione dell’ultimo
film di Sacha Baron Cohen, il nome del regista in questo caso appare veramente
superfluo, la risposta non può che essere positiva. Ultimo arrivato in una
galleria di personaggi dall’ego iperdotato “Il dittatore” non vuol essere da
meno aggiungendo un cotè politico e militare alla ben nota stravaganza
fisiognomica e caratteriale a cui il mattatore ci ha da sempre abituato. Ed
allora all’insegna del politicamente scorretto e con lo scopo di dissacrare i
luoghi comuni della nostra contemporaneità Baron Cohen rovescia l’incipit
iniziale riducendo il suo dittatore alla stregua di un comune cittadino quando,
dopo essere sfuggito ad un complotto organizzato dal cugino viene sostituito da
un sosia e si ritrova a dover sbarcare il lunario a New York dove si era recato
per rispondere ad una convocazione delle Nazioni Unite a proposito del sua
politica dispotica ed intransigente. Dalle stelle alle stalle e con
l’aggravante di una mentalità che non retrocede di un gradino Aladeen si
ritrova impiegato in un negozio ecologista gestito da un’ attivista politica
che sembra fatta apposta per confermare i suoi pregiudizi sull’occidente e sul
sesso femminile. Ma nei film si sa che gli opposti sono destinati a combaciare.
Con il suo corpo sghembo e con una mimica assecondata dall’eccesso estetico –
questa volta è la barba a fare la differenza – Baron Cohen come al solito
non risparmia nessuno riuscendo a coinvolgere con uno spettacolo tiratissimo
(solo 90 minuti, un record di questi tempi) tutto e tutti, dai media messi alla
berlina simulando una diretta in cui due giornalisti si impegnano a dare senso
alla gestualità spaesata e molto sciroccata del sosia del sovrano, allo Star
System messo in mezzo quando dopo una notte d’amore a pagamento con XXXX la
telecamera si sofferma su una parete tappezzata dalle foto di altrettante
conquiste provenienti da quel mondo, alla natura stessa del potere preso in
giro dall’inizio alla fine con una serie di battute fulminanti in cui razzismo,
misoginia e gusto del paradosso la fanno da padrone. Una capacità di fare
ridere che si potrebbe racchiudere nel gesto con cui il sovrano indica ai suoi
sgherri di tagliare la gola di chi non l’aggrada. Un movimento che diventa
riflesso incondizionato, e che ricorda per tempismo ed ironia il saluto nazista
del dottor stranamore di Stanley Kubrick. Un paragone forse eccessivo ma che
serve a sottolineare le potenzialità di un attore pronto per il salto di
qualità definitivo.