mercoledì, maggio 08, 2013

Mayo no takkyubin / Kiki. Consegne a domicilio

di: Miyazaki Hayao.
Animazione. Dal romanzo omonimo di Eiko Kadono (1985).
- GIA 1989 -
102 min



Che Miyazaki Hayao (classe 1941) abbia sovente esaltato la propria immaginazione sino a lambire il meraviglioso e' cosa nota anche ai ciottoli non levigati in fondo al Lete. Ciò che e' interessante osservare da subito - e parliamo di un lungometraggio del 1989 (!), arrivato solo ora al suo luogo d'elezione, il buio della sala, grazie all'ennesima prova di labirintica imperscrutabilità offerta dalla distribuzione nostrana, capace stavolta di mettere insieme un tortuoso percorso a tappe che ha visto una prima uscita su dvd nel 2002, un nuovo adattamento per la presentazione al Festival del Cinema di Roma del 2010 e l'odierno esordio sul grande schermo - e' la freschezza e la soavità pressoché intatte, dopo quasi un quarto di secolo, di una storia semplice (nella struttura e negli snodi) di crescita e formazione riguardante una persona dotata di qualità fuori dal comune.

La figura di Kiki, strega tredicenne in casacca nera, ballerine arancio scuro, grosso fiocco rosso in testa a contenere la zazzera bruna, radiolina portatile e scopa d'ordinanza, che abbandona il suo paese natale per un periodo di apprendistato in una nuova città, arricchisce la lista dei fanciulli svegli e sensibili di Miyazaki, ne preconizza di futuri, protagonisti di altre avventure (dalla "Principessa Mononoke", 1997, a "La città incantata", 2001, fino a "Ponyo sulla scogliera", 2008), e prosegue nell'esplorazione dell'infanzia e della prima giovinezza come età dell'incanto e al tempo banco di prova per la definizione della qualità umana di un individuo. La mini fattucchiera, in compagnia del gatto Jiji (con cui dialoga correntemente), osservatore rilassato e ironico della realtà, si sceglie una città "affacciata sul mare" (uno dei tanti ibridi architettonico/stilistici con cui il regista giapponese suole reinventare luoghi lontani: qui ritroviamo suggestioni scandinave, olandesi, proprie di borghi della Francia settentrionale o del Belgio, come pure morbidezze e punti di fuga tipici di latitudini più mediterranee), decide di prendervi dimora e dopo un primo momento d'incomprensione e diffidenza - per nulla causato, e' opportuno sottolinearlo, dalla sua natura di strega, a ribadire, da un lato, l'essenza fondamentalmente prodigiosa dell'esistenza stessa e, dall'altro, l'altrettanto radicato istinto guardingo nei confronti del "diverso", dello "straniero" in quanto tale - trova impiego presso un forno che vende pani e dolciumi, inventandosi il ruolo di fattorino volante per le consegne a domicilio.

Col tempo scoprirà aspetti del mondo che non conosceva; farà amicizia (con Ursula la pittrice, in particolare, in cui Kiki ragazzina si rispecchia e s'intravede da adulta e che le insegna l'onore e l'onere impliciti nell'avere dei doni. "Il sangue della strega; il sangue del pittore; il sangue del fornaio... doni per i quali possiamo anche soffrire", le dice). E si sentirà frustrata e delusa; proverà lo smarrimento di non trovarsi più a suo agio con se stessa (poteri che si affievoliscono; Jiji che diventa incomprensibile: il suo frasario pacato e sardonico torna ad essere un qualunque miagolio). Collegherà alcuni suoi rossori a sensazioni ancora indistinte, forse avvisaglie di amori a venire: comprenderà, soprattutto, la relazione indissolubile tra privilegio e sacrificio.

La curiosa bellezza della vicenda - così lineare si e' detto - deriva pero' dal suo modo di essere restituita con un tono lieve eppure sotterraneamente frenetico (a non secondario vantaggio del ritmo interno del film): Kiki e' sempre in movimento, accompagnata e sospinta dal vento, dalle nuvole che sembrano anticiparla/rincorrerla; dalle anatre selvatiche che la instradano o dai corvi che la incalzano. L'unica stasi e', in realtà, una forma d'immobilità forzata che si manifesta in un febbrone, diretta conseguenza dei continui strapazzi e di un'abbondante fradiciata. E ancora, con un taglio narrativo e un punto di vista in cui curiosità, apertura all'esterno, gentilezza, sono sempre contrappuntati da inaspettati momenti di amarezza, di ripensamento: qui e la' un'incertezza, una piccola inquietudine, quasi a rendere in extremis avvertita l'intuitiva propensione anagogica dell'occhio infantile. Per questo, quando sembra che lo "zucchero" stia per prevalere, una tempesta incombente fa sbattere con clamore le finestre; i lampi squarciano il cielo - quel pastello turchese che pareva indistruttibile facendo capolino a più riprese nelle inquadrature come in certe tele di Bonnard o di Pissarro, infinito territorio di promesse tanto caro a Miyazaki come a Moebius, suo amico, presenza viva nelle opere di entrambi e legata a filo doppio all'altra grande passione dei due, il volo e le macchine volanti, qui materializzate o evocate di continuo, fino alla bicicletta ad elica e al "numero" finale col dirigibile - O si rincasa a testa bassa camminando scalzi sulle pietre. O si e' soli sotto la pioggia e calano silenzi tanto lunghi quanto presaghi. A dire: davvero, a tratti, diventa palpabile la possibilità di estorcere alla ragione e al cinismo barlumi di sgomento per il mero stare al mondo, per l'irriducibile grazia gratuita e misteriosa malia delle cose. Cose che, riportandoci a noi stessi, a quell'ideale romantico, ingenuo ma puro che sta prima della galera degli opportunismi, prima delle viltà e delle grettezze, regalano la tregua dell'illusione e fanno incontrare lo stupore, l'allegria, i sorrisi irenici di Kiki, il suo pragmatismo e la sua testardaggine, il suo accordo immediato con la natura - fiori e alberi, sabbia e mare, aria e nuvole - agglomerati di forze eterne non necessariamente benigne, comunque, di fatto, lenitive e (ri) generatrici: qualità queste che, unite a volubilità e arrendevolezza, ad ostinazione ed impertinenza, e' facile - per dire - non siano state dimenticate da un vecchio estimatore dell'animazione e del fumetto come Besson per sbozzare certe pieghe caratteriali della dodicenne Mathilda in "Leon" (1994).

E se alcuni personaggi di contorno appaiono si' un po' leziosi, sempre puntuale e' l'apporto delle partiture di Joe Hisaishi (compositore storico anche di Kitano), pronto a variare registro passando da un allegro twist introduttivo a fraseggi di tastiere ed archi - morbidi quanto insinuanti - ad interagire negl'intermezzi di spaesamento e tensione. Come pure resta, nella generale leggerezza, il punto fermo che la magia non e' tanto o solo un insieme di poteri da utilizzare (come all'inizio fa Kiki per la sua professione) ma un vero e proprio modo di stare al mondo (rifiutare di galleggiare nel presente, per esempio, e volarci sopra ); un linguaggio, una chiave per entrare in quello degli altri e conoscerlo.


TFK


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