Il grande Gatsby
di Baz Lurhman
di Leonardo Di Caprio, Tobey McGuire, Carey Mulligan
Usa 2013
genere, drammatico
durata 142'
Un fatto è certo: Baz Lurhman non solo conosce bene il “carpe diem” latino ma si potrebbe dire che la sua stessa vita, personale ed artistica siano il monumento a questo motto. Se così non fosse il suo esordio registico ed il successo che ne è derivato sarebbero rimasti uguali a quelli di tanti colleghi che dopo il grande exploit si sono persi per strada. Ed invece partendo dalle opportunità offertigli da “Ballroom”(1992) un film piccolo ed indipendente capace di conquistare la mecca del cinema rinnovando la storia di Davide e Golia, Lurhman è stato capace dapprima a coinvolgere Di Caprio e chi ci metteva i soldi ad imbarcarsi nell’impresa di trasformare Shakespeare in un fast food cineletteratio (“Romeo + Juliet",1996) e successivamente di conquistare la fantasia degli addetti ai lavori, pronti ad affidargli tempo e denaro per realizzare le sue visioni in celluloide. Un modo di essere e di sentire, quello del regista australiano, incapace di restare in disparte e pronto a diventare il baccanale delle opere successive, con la Parigi della “Belle Epoque” e “l’outskirt” australiano ("Australia", 2008) trasformati in una opulenza di colori, suoni e disponibilità finanziarie capaci di destabilizzare anche il più scettico degli spettatori.
La grandeur si ripete all’ennesima potenza con il suo ultimo film “Il grande Gatsby” che prende in prestito il romanzo più famoso di Francis Scott Fitzgerald, ed un personaggio, Gatsby, diventato negli anni il simbolo di un idealismo (l’amore eterno) e di un'utopia (la possibilità di ripetere il passato) in grado di affascinare generazioni di lettori ed anche il cinema, con ben quattro trasposizioni ed un divo come Robert Redford a prestare il suo fascino all'eroe letterario. Dunque Di Caprio come Redford? Nulla di tutto questo perché laddove il primo interpretava il ruolo in un contento filologicamente ricostruito, il secondo si trova a recitare in una versione riveduta e corretta ai sensi di un melting pop che riproduce i roaring twenties e NY con il dinamismo e le forme della nostra contemporaneità. Così se i costumi e lo scenario sono quelli di un tempo così non si può dire del resto, con i personaggi trasformati in dei viveur contemporanei, capaci di sfrecciare per le strade della città con supersonica velocità, di ubriacarsi e “funkeggiare” in una reggia (di Gatsby) che assomiglia al mitico studio 54, alternando pene d'amore e divertimento sfrenato. Ad accompagnarci nel racconto di questa epopea è la voce di Nick Carraway (Tobey McGuire), aspirante scrittore giunto a New York sull’onda dell’entusiasmo e delle possibilità promesse dal fermento sociale e finanziario di cui Gatsby, ricco e mondano rappresenta una delle punte di diamante. Ed è proprio sulla fascinazione di un momento irripetibile che Baz Lurhman spinge l’acceleratore, dispiegando energie e talento per catapultare lo spettatore in un caleidoscopio di immagini e musica, con la telecamera che alla maniera di “Moulin Rouge” (2001) taglia lo schermo e come la biglia di un flipper impazza in lungo ed in largo per ricreare l’onnipotenza e le fantasia di quegli anni.
Purtroppo però rispetto alla vertigine visiva tutto sembra restare indietro oppure perdersi. A farne le spese è innanzitutto lo sviluppo della storia, didascalico quando, “finita la festa”, c’è bisogno di dare conto degli avvenimenti che stanno dietro a quell’incipit vorticoso, e poi la caratterizzazione dei personaggi, letteralmente esclusi da qualsiasi progressione psicologica e risolti con uno scarto repentino che a tempo scaduto li rivela per quello che sono veramente: Daisy innanzitutto, la donna sposata che il protagonista perdutamente innamorato cerca di strappare dalle braccia di un uomo che non la ama; origine di tutti i mali Daisy (Carey Mulligan) è dapprima descritta in chiave salvifica, e poi in una manciata di sequenze risucchiata nel vortice degli eventi. Ma anche Gatsby, a cui Di Caprio imbrigliato da una sceneggiatura che non l’aiuta, ed alla pari degli altri personaggi è costretto ad impersonare con una recitazione da cinema muto, con strabuzzamenti degli occhi (superato solo da McGuire, espressivamente monotematico) sguardi stupefatti oppure perduti in un infinito di stati d’animo e sensazioni. Derubata della sua essenza, liofilizzata in una serie di atteggiamenti di maniera, l'escursus di Gatsby, non la sua rappresentazione, retrocede a melò televisivo, in cui persino le immagini, superlative nella maggior parte dei casi, scadono in una patina di portata catodica. In questo modo la versione di Lurhman assomiglia ad un matrimonio già finito, dove gli amanti per dimostrare la passione ormai svanita enfatizzano gesti e parole che evocano senza successo gli antichi furori. Il cinema pulsante del regista australiano funziona bene per riaccendere le fantasie degli stilisti, per rilanciare le mode e per riscoprire uno scrittore imprescindibile. Quando si tratta di fare cinema però Lurhman ripropone un idea cinematografica interamente protesa alla perfezione visiva che almeno in questo caso incapace di compensare l'assenza di sostanza.
di Baz Lurhman
di Leonardo Di Caprio, Tobey McGuire, Carey Mulligan
Usa 2013
genere, drammatico
durata 142'
Un fatto è certo: Baz Lurhman non solo conosce bene il “carpe diem” latino ma si potrebbe dire che la sua stessa vita, personale ed artistica siano il monumento a questo motto. Se così non fosse il suo esordio registico ed il successo che ne è derivato sarebbero rimasti uguali a quelli di tanti colleghi che dopo il grande exploit si sono persi per strada. Ed invece partendo dalle opportunità offertigli da “Ballroom”(1992) un film piccolo ed indipendente capace di conquistare la mecca del cinema rinnovando la storia di Davide e Golia, Lurhman è stato capace dapprima a coinvolgere Di Caprio e chi ci metteva i soldi ad imbarcarsi nell’impresa di trasformare Shakespeare in un fast food cineletteratio (“Romeo + Juliet",1996) e successivamente di conquistare la fantasia degli addetti ai lavori, pronti ad affidargli tempo e denaro per realizzare le sue visioni in celluloide. Un modo di essere e di sentire, quello del regista australiano, incapace di restare in disparte e pronto a diventare il baccanale delle opere successive, con la Parigi della “Belle Epoque” e “l’outskirt” australiano ("Australia", 2008) trasformati in una opulenza di colori, suoni e disponibilità finanziarie capaci di destabilizzare anche il più scettico degli spettatori.
La grandeur si ripete all’ennesima potenza con il suo ultimo film “Il grande Gatsby” che prende in prestito il romanzo più famoso di Francis Scott Fitzgerald, ed un personaggio, Gatsby, diventato negli anni il simbolo di un idealismo (l’amore eterno) e di un'utopia (la possibilità di ripetere il passato) in grado di affascinare generazioni di lettori ed anche il cinema, con ben quattro trasposizioni ed un divo come Robert Redford a prestare il suo fascino all'eroe letterario. Dunque Di Caprio come Redford? Nulla di tutto questo perché laddove il primo interpretava il ruolo in un contento filologicamente ricostruito, il secondo si trova a recitare in una versione riveduta e corretta ai sensi di un melting pop che riproduce i roaring twenties e NY con il dinamismo e le forme della nostra contemporaneità. Così se i costumi e lo scenario sono quelli di un tempo così non si può dire del resto, con i personaggi trasformati in dei viveur contemporanei, capaci di sfrecciare per le strade della città con supersonica velocità, di ubriacarsi e “funkeggiare” in una reggia (di Gatsby) che assomiglia al mitico studio 54, alternando pene d'amore e divertimento sfrenato. Ad accompagnarci nel racconto di questa epopea è la voce di Nick Carraway (Tobey McGuire), aspirante scrittore giunto a New York sull’onda dell’entusiasmo e delle possibilità promesse dal fermento sociale e finanziario di cui Gatsby, ricco e mondano rappresenta una delle punte di diamante. Ed è proprio sulla fascinazione di un momento irripetibile che Baz Lurhman spinge l’acceleratore, dispiegando energie e talento per catapultare lo spettatore in un caleidoscopio di immagini e musica, con la telecamera che alla maniera di “Moulin Rouge” (2001) taglia lo schermo e come la biglia di un flipper impazza in lungo ed in largo per ricreare l’onnipotenza e le fantasia di quegli anni.
Purtroppo però rispetto alla vertigine visiva tutto sembra restare indietro oppure perdersi. A farne le spese è innanzitutto lo sviluppo della storia, didascalico quando, “finita la festa”, c’è bisogno di dare conto degli avvenimenti che stanno dietro a quell’incipit vorticoso, e poi la caratterizzazione dei personaggi, letteralmente esclusi da qualsiasi progressione psicologica e risolti con uno scarto repentino che a tempo scaduto li rivela per quello che sono veramente: Daisy innanzitutto, la donna sposata che il protagonista perdutamente innamorato cerca di strappare dalle braccia di un uomo che non la ama; origine di tutti i mali Daisy (Carey Mulligan) è dapprima descritta in chiave salvifica, e poi in una manciata di sequenze risucchiata nel vortice degli eventi. Ma anche Gatsby, a cui Di Caprio imbrigliato da una sceneggiatura che non l’aiuta, ed alla pari degli altri personaggi è costretto ad impersonare con una recitazione da cinema muto, con strabuzzamenti degli occhi (superato solo da McGuire, espressivamente monotematico) sguardi stupefatti oppure perduti in un infinito di stati d’animo e sensazioni. Derubata della sua essenza, liofilizzata in una serie di atteggiamenti di maniera, l'escursus di Gatsby, non la sua rappresentazione, retrocede a melò televisivo, in cui persino le immagini, superlative nella maggior parte dei casi, scadono in una patina di portata catodica. In questo modo la versione di Lurhman assomiglia ad un matrimonio già finito, dove gli amanti per dimostrare la passione ormai svanita enfatizzano gesti e parole che evocano senza successo gli antichi furori. Il cinema pulsante del regista australiano funziona bene per riaccendere le fantasie degli stilisti, per rilanciare le mode e per riscoprire uno scrittore imprescindibile. Quando si tratta di fare cinema però Lurhman ripropone un idea cinematografica interamente protesa alla perfezione visiva che almeno in questo caso incapace di compensare l'assenza di sostanza.
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