giovedì, agosto 29, 2019

VENEZIA 76. PELIKANBLUT

Pelikanblut
di Katrin Gebbe
con Nina Hoss, Katerina Lipovska, Adelia-Constance Ocleppo
Germania, Bulgaria, 2019
genere: drammatico
durata, 121’




Katrin Gebbe è la sceneggiatrice e regista di “Pelikanblut”, film d’apertura della sezione “Orizzonti”.
La pellicola mostra la storia di Wiebke, addestratrice di cavalli, che, come donna single, ha già adottato una figlia, Nikolina, e si appresta ad accoglierne una seconda, la piccola Raya di soli 5 anni. Purtroppo la bambina ha un grande e profondo trauma alle spalle, vissuto i primissimi anni di vita che la porta a comportarsi in maniera particolare. Seguita da un professionista, Wiebke viene a conoscenza di una patologia particolare e complessa che non permette alla nuova arrivata in casa di provare emozioni, di nessun genere. L’addestratrice, per provare a Raya, a tutti e soprattutto a se stessa di essere in grado di farcela e dimostrare di essere una brava madre metterà tutto in discussione, intestardendosi molto spesso, quasi ai limiti dell’assurdo, in una causa ben più grande di lei, tralasciando ciò che di veramente importante c’è nella sua vita, Niki in primis.
Sicuramente è la maternità (in quanto essere madre) il tema principale del film della Gebbe. La regista cerca di mostrare al pubblico la differenza, in questo contesto più che evidente, fra bene e male e tenta di far capire non tanto da dove venga il male, quanto piuttosto come accettarlo o, eventualmente, combatterlo.

Nello specifico il film si basa sull’accettazione che il male può insediarsi anche in una bambina di cinque anni e a cosa questo può portare, nell’immediato o meno futuro.
Ma “Pelikanblut” è più di questo. Come si evince dal titolo che tradotto in italiano significa “sangue di pellicano”, un riferimento ad una rappresentazione mostrata all’inizio del film dove un pellicano, non avendo niente per sfamare i propri piccoli, si colpisce con il becco e li nutre con il proprio sangue, Wiebke va oltre l’accettazione in sé. Lei ha già accettato fin dal primo istante la situazione e il suo scopo diventa quello di aiutare Raya, liberandola, per quanto possibile, da questo male, anche ricorrendo a metodi particolari. E sono proprio questi metodi che sembrano quasi far pensare a un qualcosa che va al di là del “semplice” dramma. In certi momenti del film è come se lo spettatore si trovasse di fronte a qualcosa di sovrannaturale (ma anche di horror), ai limiti dell’assurdo, come anticipato.

Ed è assurdo anche che il personaggio in assoluto più saggio dell’intera pellicola sia Niki, la prima bambina ad essere stata adottata che, fin da subito, anche se non ci viene mostrato, è entrata in sintonia con la madre e con la vita di quest’ultima. Va a scuola e prende ottimi voti, in casa si comporta sempre bene e va molto d’accordo con il poliziotto Benedikt, innamorato della madre. E’ lei che ammonisce Wiebke ogni qualvolta la vede intenta a compiere scelte sbagliate e pericolose. E’ lei che invita la propria madre a riflettere per cercare di farle capire cosa è veramente giusto e sbagliato. Purtroppo il tutto con scarsi risultati.
Questo continuo comportamento “insistente” della protagonista (che si ripercuote in tutto, dalla casa, al lavoro, alle relazioni) non permette a questa di entrare in empatia con lo spettatore. Anzi, alla fine riesce a sortire l’effetto contrario.
Peccato perché, nonostante i toni cupi scelti dalla regista, la storia poteva svilupparsi in maniera differente.
Veronica Ranocchi

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