Challengers
di Luca Guadagnino
con Zendaya, Mike Faist, Josh
O’Connor
USA, 2024
genere: drammatico,
sportivo
durata: 131’
Finalmente il tanto
atteso titolo che avrebbe dovuto aprire l’edizione 2023 della Mostra del cinema
di Venezia è nelle sale. Come una sfida continua, il film di Guadagnino, sulla
scia del grande successo (e seguito) del tennis, soprattutto nostrano, mette in
scena un’interminabile partita, di sport e di vita in un intreccio di relazioni
e sentimenti, costantemente in equilibrio precario.
“Challengers” è la sfida
non solo del regista italiano Luca Guadagnino che, negli anni, si è ritagliato
un posto sempre più americano, giocando (e plasmando) i divi del momento, ma è
anche la sfida dei tre protagonisti e del loro complesso rapporto.
Un continuo salto
temporale permette al regista di mostrare le dinamiche tra la promessa del
tennis Tashi Duncan (una Zendaya per la prima volta protagonista quasi
assoluta) e due tennisti che se la contendono, Art Donaldson (Mike Faist) e
Patrick Zweig (un sempre più lanciato Josh O’Connor). Prima lei è una
campionessa destinata a grande successo, poi, a causa di un infortunio, diventa
allenatrice del marito, Art, costretto a disputare un incontro contro l’ex
amico (ed ex fidanzato di lei), Patrick.
Se lei può essere
considerata ciò che più si avvicina al deus ex machina, in una sorta di
ibrido tra allenatrice e arbitro, incarnando il punto di vista e soprattutto il
ruolo del regista, gli altri due sono, solo all’apparenza, pedine costrette a
muoversi in uno spazio già predisposto, sia esso una pista da ballo o un campo
da tennis.
Ad aiutarci in questa
comprensione ci pensa la prima emblematica immagine: quella di un campo da
tennis, visto dall’alto, diviso a metà, in maniera perpendicolare, dalla rete,
a marcare una divisione continua e costante tra le due fazioni del film. Due fazioni
che si equivalgono e, talvolta, si sovrappongono in un gioco di intrecci dove a
manovrare tutto, nel bene e nel male, c’è solo una persona che contribuisce a
rendere nulla qualsiasi presa di posizione a favore di uno piuttosto che
dell’altro. Perché non c’è un vincitore né un vinto, in nessun modo e in nessun
mondo. C’è solo l’estasi dell’osservare, dell’ammirare, in una maniera il più
distaccata possibile, almeno nelle apparenze. Perché nonostante Tashi provi in
ogni modo a distaccarsi da ciò che la circonda, dalla partita e da tutto ciò
che essa porta con sé, guardandola in maniera contrapposta rispetto a chiunque,
quell’eros costante e tangibile in ogni sfaccettatura del menage à trois
torna prepotentemente alla ribalta, che sia con un sorriso, con un churro o con
gesto inequivocabile della racchetta a marcare un limite invalicabile.
In “Challengers” ogni
personaggio è ben delineato e definito all’interno del proprio campo d’azione
(di gioco). Tashi è la leader, la macchina da guerra, la sfasciafamiglie,
colei che tiene le redini del gioco e che, per prima, ha il coraggio di dare
uno sguardo frontale. Ci bastano pochi secondi per inquadrarla all’interno di
un perimetro ben preciso, “rotto” soltanto dall’imprevisto, quell’unica
variabile non contemplata, ma che la costringerà a vedere il mondo da un’altra
prospettiva.
Art è il perdente (o il
vincente?) destinato a essere considerato la ruota di scorta, il meno peggio,
l’unica alternativa che può essere plasmata in base alla situazione, quello che
non ha molta voce in capitolo (e non a caso che inizia a parlare molto più
tardi rispetto agli altri), quello che deve perdere per poter tornare a
vincere, ma che deve vincere per capire di non dover perdere.
Patrick è il contraltare,
la controparte necessaria sia a Tashi che ad Art, colui che è disposto a
perdere tutto pur di dimostrare di aver ragione, senza mai arrendersi o chinare
il capo, ed è l’unico che riesce a vedere e mostrare, anche in modo
provocatorio, oltre le maschere.
“Il tennis è una
relazione” ci dice Tashi ed è proprio quello su cui ci vuole far riflettere
Guadagnino, (di)mostrando come una partita di tennis sia effettivamente la
metafora perfetta della vita, di una storia (d’amore), di una relazione che,
nonostante un arbitro provi a delineare e arginare per evitare che dirompa, è
destinata ad avere la meglio, su tutto e tutti. Pur mitigandola, pur cercando
di nasconderla evitando che escano allo scoperto segreti e sotterfugi, quella
relazione è come la pallina da tennis: piena di energia e costantemente in
movimento. Se scagliata con troppa energia può arrivare a superare i confini di
un campo da gioco; se non indirizzata bene può colpire la rete, ma se dosata
nel giusto modo può arrivare a colpire l’obiettivo nel miglior modo possibile.
Tashi gioca con il tennis
e gioca con i due amici, provocando e provocandoli, come solo una campionessa
in cerca di adrenalina riesce a fare; li usa e li plasma a suo piacimento per
raggiungere il suo scopo, uno scopo premeditato fin dal primo galeotto
incontro, quella prima partita, seppur giocata su una pista da ballo, ma
necessaria per studiare gli avversari. Con un chiaro parallelismo
all’emblematica scena di “Chiamami col tuo nome” nella quale Elio vede davvero
per la prima volta Oliver, allo stesso modo Tashi vede Art e Patrick e comincia
a tessere la sua tela.
Una tela che ha bisogno
del contributo imprescindibile di una musica che avvolge (e travolge) creando
un ulteriore livello di gioco e di sfida. E in questo sono molto efficaci le
scelte fatte da Trent Reznor e Atticus Ross che modellano una “melodia” sulla
pelle dei tre protagonisti e sui loro movimenti, spesso ricorrenti, ma
portatori, ogni volta, di un significato diverso. Musiche che contribuiscono
anche a dettare tempi, scandendo non solo il ritmo del gioco, ma anche della
relazione, e tempo in generale, spostando il film a un’epoca molto più vicina
alla contemporaneità nonostante i continui flashback.
Un’analisi quasi
metacinematografica sulle relazioni umane, un confronto continuo che gioca con
le inquadrature, spesso di profilo, come in un match da seguire, e che
rimbalza, con movimenti a volte inaspettati, da una parte all’altra a
dimostrazione che più che cercare un riferimento nei personaggi, è necessario
capire dove (e come) cadrà la pallina. Pallina che, di fatto, si nasconde
spesso all’occhio dello spettatore, facendolo concentrare su tutto il contesto
che ruota attorno.
La relazione tra i tre è
il filo conduttore della metafora che attraversa tutto il film, ma anche della
partita stessa che i due contendenti devono giocare per aggiudicarsi il trofeo
più ambito, la stessa Tashi. Una partita che diventa un ultimo estremo
tentativo di acciuffare quel qualcosa che è sempre mancato per arrivare a un
vero traguardo. Così uguali eppure così diversi, Art e Patrick si contendono
tutto (forse) per l’ultima volta.
“Challengers” è un film,
una partita o una relazione? O tutte e tre le cose insieme? I continui primi
piani e l’attesa, a volte interminabile, tra uno sguardo e l’altro a
sottolineare l’incessante scorrere del tempo della vita e di una partita che,
pur giocandosi in due, ha tre sfidanti. O forse anche di più.
Veronica Ranocchi