L'UOMO CHE VERRA'
regia di Giorgio Diritti
L’Empire, in piazza Vittorio Veneto a Torino, è uno dei pochi cinema a godere del privilegio di saper preservare l’atmosfera delle sale d’essai di una volta, quelle in cui si andava per investire il proprio tempo libero, magari serale, a favore di un’idea di arte cinematografica che andava affermandosi in maniera sempre più corposa nelle coscienze e nelle preferenze di qualcuno, quella
del cinema alternativo e di sperimentazione.
Un paio di anni fa, ero proprio all’Empire per vedere un film dal nome francamente
impronunciabile: “Odgrobadogroba” (che in italiano vuol dire più o meno “Di tomba in tomba”), una commedia nera slovena che avevo trovato davvero ben riuscita. Nell’altra sala davano un film di un regista a me (allora) sconosciuto, tale Giorgio Diritti, dal titolo “Il vento fa il suo giro”. Ebbi subito la sensazione di avere di fronte un film importante, o quantomeno un titolo poetico ed evocativo.
All’uscita dalla sala, dopo la visione del mio “Odgrobadogroba” che mi aveva riservato delle sorprese insperate - tra le altre cose, due deliziose versioni di “Sex Bomb” e di “I will survive” alla balcanica, con tanto di orchestrina dotata di ottoni, fisarmonica e tamburi al servizio di una delirante “unza-unza-dance”, ed una irriverente versione della celebre romanza “Nessun dorma” della Turandot pucciniana, spassosamente inquinata dal vago sapore partenopeo di “Te voglio bene assaje” - dedicai qualche minuto alla lettura delle recensioni di “Il vento fa il suo giro” esposte in vetrina. Il soggetto mi sembrò molto interessante: un ex insegnante francese si trasferisce in un piccolo paese delle valli cuneesi con tutta la sua famiglia, dove comincia a vivere di pastorizia, sotto gli sguardi diffidenti degli abitanti locali. Un film sulla conoscenza reciproca, genuino, non retorico, a cui qualcuno ha riconosciuto “la forza di un trattato antropologico”, ed in cui si parla addirittura il “patuà”, dialetto delle valli occitane piemontesi. Sempre più incuriosita, consultai quella sera stessa vari dizionari del cinema ed articoli-recensioni online: travolta da quella profusione infinita di “stelle- cinematografiche” e di suggerimenti tipo “Consigliato: Assolutamente Sì”, decisi che quel film sarebbe-Assolutamente!-entrato a far parte del mio bagaglio culturale.
Non sono mai riuscita a vedere quel film. Forse lo avevo scoperto troppo tardi: il tempo di organizzarmi e… puff!... scomparso dalla sala. Quelle cellette che il mio cervello aveva riservato e dedicato a “Il vento fa il suo giro” vennero, col passare dei giorni, utilizzate per altri scopi, peraltro molto meno nobili, ed il ricordo di quella visione mancata fu lentamente ed inesorabilmente insabbiato.
Venerdì 22 Gennaio 2010, uscita del film L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti.
Giorgio Diritti, Gior-gio Di-rit-ti, non mi diceva nulla, anche se… a pensarci bene… decisi che qualcosa mi diceva.
Una oscura associazione di idee mi riportò alla memoria il viso di un guerriero dall’espressione stanca, con la barba incolta, la chioma in disordine e gli occhi infossati. La mia mente aveva anche circondato quella fronte di una inesistente fascetta rossa che si intravvedeva tra i capelli, legata sul didietro, un po’ alla Ninja Turtles, che nel bianco e nero dell’immagine spiccava violentemente. Era
la locandina de “Il vento fa il suo giro”, con l’aggiunta di quel particolare, frutto esclusivo della mia fantasia che aveva sostituito un ornamento semi-bellico (la fascetta) a delle semplici ed espressive rughe frontali.
Dunque, “L’uomo che verrà” è il secondo film di Giorgio Diritti. Questa volta le
bieche logiche del mercato cinematografico non mi hanno fregata.
Il buio della sala non viene interrotto dall’incipit del film: una telecamera indaga nell’oscurità dell’interno di una casa di campagna, salendo e scendendo scalini, scrutando letti disfatti e muri incrostati. Poi, gradualmente, l’alba, il mattino, la luce. Siamo sugli Appennini bolognesi, sulle colline di Monte Sole, dove, nel 1944, la comunità contadina del luogo, che si esprime quasi esclusivamente nel dialetto locale (vecchio e geniale vizio di sceneggiatura!), vive e lavora i propri territori, sempre più alla mercè delle truppe naziste. La rabbia della comunità cresce e si trasforma nel tempo in organizzazioni partigiane ed in lotta esplicita contro quegli invasori e stupratori della tranquillità quotidiana che, con cattiveria strafottente, vengono assiduamente a chiedere loro uova e pane, ed ad osservare lascivi le loro donne. La fine è tristemente nota alla storia con il nome di strage di Marzabotto.
Già le prime scene palesano il carattere realista della pellicola. Come in preda ad un viaggio istantaneo ed inconsapevole, mi sono ritrovata catapultata nel ricordo di una famosissima opera di Ermanno Olmi, “L’albero degli zoccoli”, datata 1978. Forse il racconto della realtà agraria del nord, il suono dei dialetti settentrionali, l’atmosfera colma di particelle di nebbia nel fresco mattino di campagna, la consistenza e l’odore percepiti del terreno umido, le cascine vissute intensamente dai suoi abitanti, l’innocenza dei bambini dai vestiti strappati, la ruvida grettezza degli adulti, gli alberi, gli animali e gli altri elementi della natura, il profumo del pane fatto in quelle case, il crepitio di un fuoco consolatorio, sono tutti i particolari che hanno restituito vitalità ad un ricordo vecchio di almeno trent’anni. Diritti, come Olmi, scruta senza invadenza le vite di questi “cafoni” di una Fontamara emiliana, uomini e donne nati e vissuti nella rassegnazione della propria condizione di inferiorità sociale ed intellettuale (“se siamo nati ignoranti, dobbiamo rimanere ignoranti!”), in bilico tra le pulsioni dell’istinto ed un sincero timor Dei, che omaggiano inconsciamente l’uomo venuto dalla città tappezzando il ricovero a lui riservato di fogli di carta stampata, a rimarcare che
lor signori, sì, non sono cafoni-come-noi. L’arrendevolezza culturale però non uccide l’identità, l’orgoglio e la dignità di questa gente di fronte all’invasore, e questo fa sì che si inneschino dinamiche di inevitabile solidarietà tra simili, rivolte al tentativo della comune sopravvivenza.
Talvolta capita anche che ci si prenda involontariamente gioco del pericolo, e che si mettano tanti bambini in fila davanti ad un muro, e che si tenti di fucilarli tutti con un ramo-fucile; ma è solo la realtà di quella fanciullezza infelice cui anche il gioco della morte può divertire.
La speranza nel futuro è affidata all’”uomo che verrà”, custodito attentamente nella pancia di una delle protagoniste (Maya Sansa) che si affida a sua volta ad una impotente Madonna incinta intrappolata in una nicchia di montagna, ed allo sguardo di una bambina muta, Martina, dal cui punto di vista è osservata tutta la vicenda, non con lo scopo di addolcire e rabbonire la rude verità, ma piuttosto con quello di riportare allo spettatore la cronaca dei fatti depurata da ogni sorta di giudizio. La Natura è l’incontestata co-protagonista della storia, ed assume il ruolo di madre
assoluta e protettrice di quelle anime derelitte: le sfama e veglia su di loro offrendosi come rifugio accogliente nel momento del bisogno. A questo proposito, di notevole impatto è la scena dell’uomo che si nasconde nel ventre di un grosso albero per scappare alle truppe naziste. Ed ecco costituitasi una trinità sacra: l’Uomo, il Divino, la Natura. Ognuno di essi porta in grembo l’”uomo che verrà”: il nascituro nella protagonista, il Gesù nella Madonna, l’uomo rifugiato nella Natura. La trinità
affida il proprio compito di salvatrice ultima alla piccola Martina, che si batterà fino all’incoscienza per proteggere e preservare la vita del piccolo fratellino con un genuino istinto materno.
Il regista è decisamente ispirato e riesce a dosare in maniera perfetta la fissità delle immagini ed il movimento dei piani sequenza, le oscurità con le luci ed i colori, riuscendo in una fotografia dal carattere divino, dove il cielo dalle nuvole piene, i prati, la terra e le vallate sanno comunicare, e dove anche le ignare lucciole parlano di magia allo spettatore. Diritti si concede un unico strappo
alla regola del realismo: un ralenti nella sequenza culmine dell’esecuzione degli innocenti, dove tutto sembra fermarsi, le vene si raggelano, incluse quelle del pubblico in sala.
Anche la scelta delle facce della gente dona rigore ed onestà alla pellicola (in effetti, molti interpreti sono non professionisti): difficile ricordarsi di essere davanti a degli attori quando si guardano i visi di Maya Sansa e di Alba Rohrwacher, così autenticamente contadini, l’uno scuro dallo sguardo penetrante che racconta la fatica del lavoro nei campi, l’altro diafano e sciupato dalla pungente
purezza dell’aria di montagna. Per non citare l’importante prestazione di Claudio Casadio, uomo rubato al teatro, di cui anche le rughe ci sanno parlare di sofferenza.
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