Abduction
Con "Boyz'n The Hood" aveva fatto gridare al miracolo. Era il 1991, l'anno di "New Jack City" un altro fenomeno di quel periodo, ed il film era stato accolto con sorprendente successo alla Quinzaine des réalizateurs del festival di Cannes. Raccontando le tensioni della comunità afroamericana in chiave realistica e politica, John Singleton diventava uno degli esponenti di punta di un cinema capace di conquistare una fetta importante del mercato americano, e di imporre una leva di attori che per carisma e mestiere, parliamo di nomi come Wesley Snipes, Cuba Gooding jr., Ice Cube, Chris Rock, non avevano nulla da invidiare ai più famosi colleghi Wasp.
Chiamato a confermare quel successo, Singleton si è gradatamente tolto di scena, abbandonando le strade dell'impegno per trasformarsi in un onesto mestierante, capace di confezionare film in cui la violenza era solo un altro modo per stordire le platee. Fino ad "Abduction", prodotto costruito per assecondare le richieste di un seguito ancora stregato da Jacob Black, il tormentato personaggio interpretato da Taylor Lautner nella saga di "Twilight". Questa volta però si cambia scena ed il nostro, pur mantenendo intatta l'espressione da bel tenebroso, viene riciclato in una vicenda a base di intrighi e colpi bassi, relativi ad una fuga di informazioni di vitale importanza per la sicurezza nazionale. A complicare le cose, la scoperta di una famiglia che non è tale, perché i genitori di Nathan Harper, il personaggio interpretato da Lautner, altro non sono che agenti della Cia incaricati di proteggerlo dopo l'uccisione di quelli veri. Il passato che ritorna sotto le vesti di un implacabile killer costringerà il giovane ad una fuga eroica e disperata.
Alle prese con un icona in continua oscillazione tra la prestanza fisica e la fragilità umana, Singleton ne agevola le caratteristiche da un lato, infarcendo la componente action con una serie di combattimenti corpo a corpo che, nel valorizzare il realismo della vicenda, finiscono per esaltare le doti naturali della star, dall'altro, spingendo l'acceleratore sul fattore emotivo, stimolato non solo dalla drammatica rivelazione di una famiglia che non è mai esistita, ma anche dalla love story tra Nathan e la compagna di scuola, accidentalmente coinvolta nella vicenda. Evitando inutili disquisizioni sulle doti di un attore chiamato a raccolta per motivi esclusivamente funzionali, è opportuno evidenziare la pochezza del contorno, popolato da tipi umani così scialbi, soprattutto dalla parte dei cattivi, da non riuscire mai a far trepidare il pubblico sulle sorti dell'eroe. A poco serve la presenza cameo di Sigourney Weaver, nei panni di una psicologa molto particolare, e quella di Alfred Molina nella vesti dell'agente incaricato di recuperare il fuggitivo. La sua presunta ambiguità ridotta a qualche posa è l'emblema di un film che non soddisfa nessuno.
(pubblicata su ondacinema.it)
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