Morire giovani. Gli anni spezzati sono ancora una volta al centro dell’indagine filmata di Gus Van Sant in L'amore che resta, ma questa volta il working progress metacinematografico ha lasciato posto ad un melting pot di diversa provenienza. Tra rimandi cinefili che pescano a piene mani dal cinema della novelle vague, presente nell’eccentrico realismo dei caratteri così come nell’intellettualismo mascherato di fatua leggerezza con cui viene interpretato il tema della morte, alla citazioni letterarie anni 80 di un romanziere come David Leavitt, ripreso nell’utilizzo della malattia come allegoria di un malessere più grande che divide e rende soli, L’amore che resta è il film di un autore che si concede delle pause.
Perché se si eccettua la forma, improntata ad un impressionismo di alta confezione ed una scelta degli attori che non lascia dubbi sulle capacità di dare volto alla scrittura, il film non si differenzia molto dalla miriade di prodotti indipendenti targati Sundance Film Festival.
Certamente l’idea di concepire una storia d’amore a termine - Enoch si innamora di Annabel, malata terminale – ribaltandone le convenzioni non era una trovata da poco: Van Sant, e chi per lui – il film è infatti un lavoro su commissione – invece di farci sorbire il lento scivolare dentro il tragico destino dei due protagonisti, trasforma le tappe della via crucis in altrettanti momenti di giocosa complicità, in cui i due giovani innamorati si dilettano con la fantasia ed i sentimenti per costruire un mondo immaginario ed incantato.
In questo modo la realtà più prosaica diventa il luogo dove inventare un nuovo principio: basterebbe vedere la scena ambientata di fronte ai loculi di un obitorio, luogo ridisegnato ad hoc per un'uscita romantica, con Annabel intenta a riportare in vita quei defunti alla maniera di Spoon Rivers, tra aneddotti e amenità capaci di cambiare le prospettive ad un fato così iniquo, oppure al funerale ed alle sue liturgie, vissuto come un'epifania del sentimento a venire ed allo stesso tempo rivoluzione nei confronti di una contingenza fatta di lutto e di cordoglio.
Insomma la voglia di andare contro la natura delle cose, sommata alla volontà di ampliare la gamma espressiva del suo cinema, erano per Van Sant il segnale di un possibile cambiamento. Il risultato è un operazione riuscita solo in parte, perché se i pedinamenti lasciano il posto a quadri di ineccepibile bellezza, a cui molto contribuisce la morbidezza fotografica di Harry Savides, è altrettanto forte la sensazione di una vita simulata, troppo perfetta nell'algida compostezza della sua messinscena. Ed alla fine anche la freschezza degli interpreti, tra cui si distingue la nervosa vivacità di Henry Hopper (Enoch) figlio del mitico Dennis, deve pagare dazio a questa voglia di piacere.
(pubblicata su Roma giorno e notte)
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