I TRE GIORNI DEL CONDOR
Quando iniziano a girare “I tre giorni del condor” (1975) Robert Redford e Sidney Pollack si trovano probabilmente nel momento migliore delle loro rispettive carriere perché agli onori di un successo ottenuto con comunità d’intenti, da "Corvo rosso non avrai il mio scalpo" del 1972 a "Il grande Gatsby" del 1974, uniscono la visione di un cinema capace di mettere in discussione gli uomini e le loro storie, utilizzando gli strumenti dell’intrattenimento e dell’impegno.
Una formula collaudata quindi, adatta allo script ricavato dall’omonimo libro di James Grady, incentrato sulle vicenda di Joseph Turner (Robert Redford), nome in codice Condor, impiegato della CIA con l’incarico di decriptare eventuali informazioni contenute nelle pagine dei libri e dei giornali, casualmente sopravvissuto alla morte dei suoi colleghi sterminati di un fantomatico commando.
Dalle conseguenze di un incipit crudele e spiazzante, Pollack mette in scena le paure di un America che non riesce più a credere in se stessa, lacerata da guerre senza causa, quella del Vietnam si è appena conclusa, e tradita da chi la dovrebbe guidare, Nixon è appena stato costretto alle dimissioni per lo scandalo watergate. Uno smarrimento riprodotto in maniera paradigmatica dal protagonista, prototipo dell'uomo qualunque travolto da un bigger than life che lo porterà a smascherare il grande fratello nascosto all’interno della Cia.
Pollack parafrasa quel momento costruendo un congegno prelevato dalle istanze di genere spionistico riprese in una detection, di Turner per scoprire chi lo vuole morto ma anche dell’Agenzia disposta a farlo rientrare nei ranghi, che si sviluppa con l'andamento di una partita a scacchi giocata sul filo della ragione e dell’intuito; scandita da tempi dilatati quanto basta per aspettare l'inevitabile errore dell'avversario. Ma anche nel gioco di specchi che impedisce fino all'ultimo la comprensione dei caratteri, quello di Jobert ( uno splendido Max von Sydow) killer enigmatico e malinconico al soldo del miglior offerente, e del vicedirettore Higgins (Cliff Robertson), sospeso tra ragion di stato e la genuina ammirazione per le doti del fuggiasco, e per finire nell’accurata ricostruzione del metodo investigativo, non solo tecnologico, ma anche improvvisato secondo gli esempi forniti dai libri che Turner deve leggere.
Pollack è bravo a far convivere le parti arricchendole di pathos – l'amore impossibile tra il fuggiasco e la donna che finirà per aiutarlo – e di continua tensione.
In bilico tra l'autorialità de "La conversazione" (1974) ed il realismo di "Tutti gli uomini del presidente" (1976), questo film ancora oggi non ha perso neppure un grammo del suo appeal.
Decisamente un prodotto d’altri tempi.
2 commenti:
un intamontabile classico!
..rivedendolo ti rendi conto dell'attualità di un film che intrattendo parlava già di "querra infinta" e di scenari che poi si sarebbero realizzati ai nostri giorni...
nickoftime
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