Quasi amici - intouchables
Un suffragio universale.
E' questo il livello di consenso di cui si nutre l'attualità del cinema francese.
A qualsiasi latitudine, ed anche a costo di rinunciare al cotè intellettuale che si porta appresso.
"Quasi amici" traduzione ammorbidita del ben più forte "Intouchables" è l'ennesima dimostrazione di un industria che amministra bene i propri soldi, anzi li risparmia, spendendo il minimo indispensabile a fronte di ricavi stratosferici.
Roba da far impazzire le riviste di settore che da sempre si divertono a giocare con i numeri, smascherando con il gioco delle spese e dei ricavi il valore spesso gonfiato degli incassi.
A riguardo non ci sono dubbi. Il film ha messo d'accordo tutti, scavalcando "Giù al Nord" dal primato di maggior incasso di sempre cinema d'oltralpe.
Le ragioni del successo sono spesso imponderabili ed in fondo poco hanno a che fare con il cinema e la sua essenza.
Meglio è invece addentrarsi nel cuore dell'opera per constatare come i film siano spesso una questione di cuore e di empatia.
Come quella che si stabilisce tra Philippe, borghese miliardario e Driss, disoccupato delle banlieue, due tipi diversissimi per classe sociale e colore della pelle.
Ad aumentare le distanze la malattia del primo, paralizzato dalla testa in giù a causa di un incidente più meno ricercato. Costretto dalle procedure di disoccupazione a presentarsi ai colloqui di lavoro, Driss viene sorprendentemente assunto come bandante di Philippe di cui inizia, seppur svogliatamente ad occuparsi. Ovviamente lo farà a modo suo, ribaltando le regole ed infischiandosene del bon ton. Un comportamento che cancella in un sol colpo il mare d'ipocrisia che circonda la malattia di Philippe.
Diventare amici sarà solo questione di tempo.
Partendo da un tema di stretta attualità come quello della disuguglianza sociale raddoppiato dalla diversità che nasce dalla menomazione fisica, Toledano e Nakache costruiscono un meccanismo al quale da una parte all'altra è impossibile non identificarsi.
Ad accrescere il sentimento di partecipazione una progressione costellata di situazioni ed atteggiamenti che faranno giustizia delle disparità attraverso isorriso e buon umore.
In una trama lineare e senza particolari colpi di cosa quello che funziona è riuscire a prendersi gioco della sfortuna senza offendere chi nella vita reale si trova a dover vivere per davvero la finzione dello schermo.
Per riuscirci i due registi scommettono sulla genuinità di un esordiente e sul mestiere di un veterano.
Il risultato è una compensazione continua tra la recitazione controllata del navigato Fracois Clouzet e quella fuori controllo dell'estroso Omar Sy.
La Francia, ma non solo, finisce per ritrovarsi completamente in quella confronto. E se il film riesce a ricomporre la frattura sociale senza alcun incidente, la morale della favola potrebbe essere un monito ai peesi del mondo per risolvere le cose in fretta e con giudizio.
martedì, febbraio 28, 2012
Quasi amici - intouchables
lunedì, febbraio 27, 2012
THE ARTIST
THE ARTIST
Nel voler dare resoconto obiettivo di un film come “The Artist” lo scriba si trova di fronte diversi problemi. In primo luogo quello di dover parlare di un opera che prima della mente colpisce il cuore per la carica di nostalgia che la storia di George Valentine un star del muto caduto in disgrazia con l’avvento del cinema sonoro si porta con sé.
Successivamente, la componente cinefila legata ad un film che si piazza nel guado del cinema che fu, quello dei Douglas Fairbanks e di Rodolfo Valentino, con le sue ingenuità ma anche con lo freschezza delle cose che sono appena nate. Ed infine, non meno importante, con l’esagerata empatia di un attore sbucato dal nulla, almeno per chi non è francese, ed in un giro di pellicola capace di imprimersi nella pelle dello spettatore.
L’intero bagaglio cinematografico, con i suoi sogni e le sue cadute sono infatti racchiuse in un film che similmente al modello ispiratore, rinuncia alla modernità per riprodurre la purezza del cinema muto.
Con il suono a commentare le immagini sullo schermo ed i dialoghi riassunte più nel volto degli attori che nei dialoghi riportati negli appositi pannelli, “The Artist” riesce nel miracolo di fermare le lancette del tempo facendoci ridere ed anche piangere sulle modulazioni dello sguardo, sulla capacità di far parlare il corpo, quello atletico e sfrontato di Jean Dujardin, affiancato dalla muliebrità sbarazzina di Bérénice Bejo, una spalla capace di reggerne il confronto.
Un operazione dalla riuscita tutt’altro che scontata, non solo per l’anacronismo della confezione, a rischio per la tendenza in uso di sacrificare i contenuti della storia alla cornice generale che in questo caso prevedeva non solo la ricostruzione di un periodo storico, quello dell’America a cavallo degli anni 20’ e 30’, ma anche del cotè iconografico di un industria cinematografica notevolmente cambiata sotto il profilo produttivo, ma rimasta inalterata nella creazione dei suoi miti.
Un pericolo scampato per l’abilità del regista di far coincidere la storia con il mito, la ricostruzione dell’epoca con la sua rappresentazione.
Elementi destinati a convivere nel parallelismo tra la grande crisi economica che attraversò il paese, e quella artistica e personale dell’attore senza lavoro e costretto all’indigenza, nella sovrapposizione tra l'ottimismo di un arte ancora giovane e la rinascita che porterà l’artista a risollevarsi dalle sue disgrazie accettando di mettere da parte il proprio orgoglio per aprirsi all’aiuto di chi, la ragazza di cui in qualche modo aveva promosso la carriera, l’ha sostituito nell’immaginario popolare.
Il cinema, quello vero, è celebrato nel bianco e nero di una fotografia smagliante ed accaldata, nella maestosità patrizia degli studios, nel buio delle sale riempite dal pubblico trepidante, nell’ansia dei set in attesa del prossimo ciack.
E poi attraverso la performance di un attore in stato di grazia, sempre in bilico tra lo charme del tombeur de femme, capace di conquistare una donna con il magnetismo dello sguardo, e l’istrionismo del guitto di lunga gavetta, abile nel ballo – strepitosa la chiusa finale a celebrare la coppia Fred Astaire e Ginger Roger con un tip tap eseguito in coppia con l’altrettanto disinvolta Bejo – così come in un avanspettacolo di finezza sopraffina riassunto in modo esemplare nella guasconeria con cui Valentine attira su di sé le attenzioni del pubblico al termine di una proiezione .
E’ lui insieme ad un regista, Michel Hazanavicius, capace di annullare il tempo amalgamando un caleidoscopio di invenzioni, straordinaria quello dell’incubo del protagonista per lo straniamento prodotto dall’improvvisa irruzione del sonoro in un esistenza abituata a farne a meno, e di citazioni, a consentire al film di entrare nella lista degli indimenticabili. In tempi come questi una rarità da non lasciarsi sfuggire.
(recensione pubblicata il 13-12-2011)
Nel voler dare resoconto obiettivo di un film come “The Artist” lo scriba si trova di fronte diversi problemi. In primo luogo quello di dover parlare di un opera che prima della mente colpisce il cuore per la carica di nostalgia che la storia di George Valentine un star del muto caduto in disgrazia con l’avvento del cinema sonoro si porta con sé.
Successivamente, la componente cinefila legata ad un film che si piazza nel guado del cinema che fu, quello dei Douglas Fairbanks e di Rodolfo Valentino, con le sue ingenuità ma anche con lo freschezza delle cose che sono appena nate. Ed infine, non meno importante, con l’esagerata empatia di un attore sbucato dal nulla, almeno per chi non è francese, ed in un giro di pellicola capace di imprimersi nella pelle dello spettatore.
L’intero bagaglio cinematografico, con i suoi sogni e le sue cadute sono infatti racchiuse in un film che similmente al modello ispiratore, rinuncia alla modernità per riprodurre la purezza del cinema muto.
Con il suono a commentare le immagini sullo schermo ed i dialoghi riassunte più nel volto degli attori che nei dialoghi riportati negli appositi pannelli, “The Artist” riesce nel miracolo di fermare le lancette del tempo facendoci ridere ed anche piangere sulle modulazioni dello sguardo, sulla capacità di far parlare il corpo, quello atletico e sfrontato di Jean Dujardin, affiancato dalla muliebrità sbarazzina di Bérénice Bejo, una spalla capace di reggerne il confronto.
Un operazione dalla riuscita tutt’altro che scontata, non solo per l’anacronismo della confezione, a rischio per la tendenza in uso di sacrificare i contenuti della storia alla cornice generale che in questo caso prevedeva non solo la ricostruzione di un periodo storico, quello dell’America a cavallo degli anni 20’ e 30’, ma anche del cotè iconografico di un industria cinematografica notevolmente cambiata sotto il profilo produttivo, ma rimasta inalterata nella creazione dei suoi miti.
Un pericolo scampato per l’abilità del regista di far coincidere la storia con il mito, la ricostruzione dell’epoca con la sua rappresentazione.
Elementi destinati a convivere nel parallelismo tra la grande crisi economica che attraversò il paese, e quella artistica e personale dell’attore senza lavoro e costretto all’indigenza, nella sovrapposizione tra l'ottimismo di un arte ancora giovane e la rinascita che porterà l’artista a risollevarsi dalle sue disgrazie accettando di mettere da parte il proprio orgoglio per aprirsi all’aiuto di chi, la ragazza di cui in qualche modo aveva promosso la carriera, l’ha sostituito nell’immaginario popolare.
Il cinema, quello vero, è celebrato nel bianco e nero di una fotografia smagliante ed accaldata, nella maestosità patrizia degli studios, nel buio delle sale riempite dal pubblico trepidante, nell’ansia dei set in attesa del prossimo ciack.
E poi attraverso la performance di un attore in stato di grazia, sempre in bilico tra lo charme del tombeur de femme, capace di conquistare una donna con il magnetismo dello sguardo, e l’istrionismo del guitto di lunga gavetta, abile nel ballo – strepitosa la chiusa finale a celebrare la coppia Fred Astaire e Ginger Roger con un tip tap eseguito in coppia con l’altrettanto disinvolta Bejo – così come in un avanspettacolo di finezza sopraffina riassunto in modo esemplare nella guasconeria con cui Valentine attira su di sé le attenzioni del pubblico al termine di una proiezione .
E’ lui insieme ad un regista, Michel Hazanavicius, capace di annullare il tempo amalgamando un caleidoscopio di invenzioni, straordinaria quello dell’incubo del protagonista per lo straniamento prodotto dall’improvvisa irruzione del sonoro in un esistenza abituata a farne a meno, e di citazioni, a consentire al film di entrare nella lista degli indimenticabili. In tempi come questi una rarità da non lasciarsi sfuggire.
(recensione pubblicata il 13-12-2011)
domenica, febbraio 26, 2012
Knock out - resa dei conti
Knock out - resa dei conti
regia di S. Soderbergh
Ci sono registi a cui piace confondersi nelle storie che raccontano ed altri che usano il cinema come uno schermo capace di reinventare ogni volta la loro personalità.
Caratteri poliedrici, fantasie in movimento, questi autori non possono fare a meno di comunicare, ma per farlo hanno bisogno di un angolo sicuro, di un recesso dal quale esternare pensieri che altrimenti finirebbero per aumentare un sentimento di diversità in cui sicuramente si sono più volte imbattuti.
Nel caso di Steven Soderbergh poi questo camaleontismo emerge alla massima potenza per il fatto di lavorare in un ambiente come quello hollywoodiano per natura votato ad esibire il suo presenzialismo.
Così nonostante i molti premi vinti e la confidenza con alcune delle star più acclamate del pianeta l'uomo continua ad essere artista inafferrabile per la capacità di diventare una cosa sola con i film che realizza.
Ad aiutarne il diradamento la capacità di mantenersi in continuo movimento, non solo nel settore produttivo ma anche all'interno dei suoi stessi lavori, in cui spesso e volentieri figura nel ruolo di sceneggiatore, direttore della fotografia, sotto pseudonimo di Peter Andrew, e con quello di Mary Ann Bernard, anche montatore.
Ed ancora per un interesse onnivoro che non conosce limiti, e che lo porta a cimentarsi su diversi gradi di cultura e conoscenza: da Cannes ad Hollywood, passando dai capisaldi della letteratura mondiale, i fumetti, il pulp, l'erotismo, i film di genere e quelli d'autore. Una carriera postmoderna verrebbe da dire e forse lo è.
Giunto al suo nuovo film Soderbergh stupisce ancora una volta i suoi interlocutori con un fight movie come "Knock out" che mette al centro di una trama di servizi deviati ed agenti segreti il personaggio di Mallory Kane, ronin in gonnella decisa a vendere cara la propria pelle dopo una missione in cui qualcuno ha tentato di incastrarla.
Costretta a difendersi da chiunque le passi accanto la nostra eroina, a suo agio solo quando c'è da impugnare una pistola o indossare l'uniforme, non si fa certo pregare sciorinando una predisposizione a menar duro da far invidia agli esempi più barbari della controparte maschile.
Ovviamente è invincibile e con una spiccata avversione alle attenzioni dell'altro sesso, immancabilmente ripagate con letale noncuranza.
Per crearle il contesto Soderbergh utilizza uno stile fatto di improvvisazione e ricercatezza, perfettamente riassunto nella prima parte del film, quando la liberazione di un ostaggio ci da modo di osservare uno swing calibrato al millimetro, eppure realizzato con un associazioni di immagini e di suono ispirate ad una spontaneità che il film ricerca soprattuto negli atteggiamenti e nelle reazioni di un attrice, una convincente Gina Carano, non ancora abituata ad esserlo.
Per movimentare ancora di più le acque chiama a raccolta il cinema exploitation (nella violenza iperrealista e nella caratterizzazione dei personaggi quasi sempre lasciata alla vistosità dei dettagli esteriori) quello anni '70 (anche europeo per un pizzico di esistenzialismo ottenuto attraverso dialoghi volutamente sobri ed ambienti privi di orizzonte) ed una squadra di attori che si oppone nell'appeal da copertina alla rusticità della neofita.
Il risultato è un cinema da vedere più che da sentire, un intrattenimento intelligente, a tratti ironico - Fassbender attraverso il suo personaggio deve subire un contrappasso che mette alla berlina la sua immagine da tombeur de femmes - sicuramente competitivo nelle dinamiche action grazie al mestiere che la protagonista, nella vita reale campionessa di arti marziali, porta in dote al film e che si traducono in combattimenti finalmente liberati dagli artifici degli effetti speciali ed affidati alle qualità fisiche di Gina Carano, ripresa con long take che ne mostrano le plastiche capacità.
Ed anche la mancanza di emotività che ogni volta fa difetto al regista della Lousiana diventa l'unico modo di rapportarsi in un contesto dove l'unico problema è sopravvivere.
Interpretato anche da un redivivo Michael Douglas, e tra gli altri da Ewan Mc Gregor in un ruolo per lui insolito, “Knock out” è la conferma di una libertà che sa convivere con le leggi di mercato.
regia di S. Soderbergh
Ci sono registi a cui piace confondersi nelle storie che raccontano ed altri che usano il cinema come uno schermo capace di reinventare ogni volta la loro personalità.
Caratteri poliedrici, fantasie in movimento, questi autori non possono fare a meno di comunicare, ma per farlo hanno bisogno di un angolo sicuro, di un recesso dal quale esternare pensieri che altrimenti finirebbero per aumentare un sentimento di diversità in cui sicuramente si sono più volte imbattuti.
Nel caso di Steven Soderbergh poi questo camaleontismo emerge alla massima potenza per il fatto di lavorare in un ambiente come quello hollywoodiano per natura votato ad esibire il suo presenzialismo.
Così nonostante i molti premi vinti e la confidenza con alcune delle star più acclamate del pianeta l'uomo continua ad essere artista inafferrabile per la capacità di diventare una cosa sola con i film che realizza.
Ad aiutarne il diradamento la capacità di mantenersi in continuo movimento, non solo nel settore produttivo ma anche all'interno dei suoi stessi lavori, in cui spesso e volentieri figura nel ruolo di sceneggiatore, direttore della fotografia, sotto pseudonimo di Peter Andrew, e con quello di Mary Ann Bernard, anche montatore.
Ed ancora per un interesse onnivoro che non conosce limiti, e che lo porta a cimentarsi su diversi gradi di cultura e conoscenza: da Cannes ad Hollywood, passando dai capisaldi della letteratura mondiale, i fumetti, il pulp, l'erotismo, i film di genere e quelli d'autore. Una carriera postmoderna verrebbe da dire e forse lo è.
Giunto al suo nuovo film Soderbergh stupisce ancora una volta i suoi interlocutori con un fight movie come "Knock out" che mette al centro di una trama di servizi deviati ed agenti segreti il personaggio di Mallory Kane, ronin in gonnella decisa a vendere cara la propria pelle dopo una missione in cui qualcuno ha tentato di incastrarla.
Costretta a difendersi da chiunque le passi accanto la nostra eroina, a suo agio solo quando c'è da impugnare una pistola o indossare l'uniforme, non si fa certo pregare sciorinando una predisposizione a menar duro da far invidia agli esempi più barbari della controparte maschile.
Ovviamente è invincibile e con una spiccata avversione alle attenzioni dell'altro sesso, immancabilmente ripagate con letale noncuranza.
Per crearle il contesto Soderbergh utilizza uno stile fatto di improvvisazione e ricercatezza, perfettamente riassunto nella prima parte del film, quando la liberazione di un ostaggio ci da modo di osservare uno swing calibrato al millimetro, eppure realizzato con un associazioni di immagini e di suono ispirate ad una spontaneità che il film ricerca soprattuto negli atteggiamenti e nelle reazioni di un attrice, una convincente Gina Carano, non ancora abituata ad esserlo.
Per movimentare ancora di più le acque chiama a raccolta il cinema exploitation (nella violenza iperrealista e nella caratterizzazione dei personaggi quasi sempre lasciata alla vistosità dei dettagli esteriori) quello anni '70 (anche europeo per un pizzico di esistenzialismo ottenuto attraverso dialoghi volutamente sobri ed ambienti privi di orizzonte) ed una squadra di attori che si oppone nell'appeal da copertina alla rusticità della neofita.
Il risultato è un cinema da vedere più che da sentire, un intrattenimento intelligente, a tratti ironico - Fassbender attraverso il suo personaggio deve subire un contrappasso che mette alla berlina la sua immagine da tombeur de femmes - sicuramente competitivo nelle dinamiche action grazie al mestiere che la protagonista, nella vita reale campionessa di arti marziali, porta in dote al film e che si traducono in combattimenti finalmente liberati dagli artifici degli effetti speciali ed affidati alle qualità fisiche di Gina Carano, ripresa con long take che ne mostrano le plastiche capacità.
Ed anche la mancanza di emotività che ogni volta fa difetto al regista della Lousiana diventa l'unico modo di rapportarsi in un contesto dove l'unico problema è sopravvivere.
Interpretato anche da un redivivo Michael Douglas, e tra gli altri da Ewan Mc Gregor in un ruolo per lui insolito, “Knock out” è la conferma di una libertà che sa convivere con le leggi di mercato.
sabato, febbraio 25, 2012
Hugo Cabret
Hugo Cabret
regia di M. Scorsese
Un cinema agli antipodi di ciò che è stato.
Martin Scorsese dopo il riconoscimento dell’Academy sembra intenzionato ad esaltare la magnificenza della grande industria hollywoodiana con allestimenti che ne omaggiano a diversi livelli la storia e le possibilità.
E se quest’anno gli strilli di copertina gli sono stati, in parte, rubati dall’altrettanto celebrativo "The Artist", splendida sintesi del potere taumaturgico di un cinema che non c’è più, è pur vero che la cadenza produttiva e le ingenti risorse del laboratorio scorsesiano, un circolo di virtuosi al quale da qualche tempo appartiene anche il nostro Dante Ferretti, sono diventate il marchio di fabbrica di un cinema che cerca di ridurre le distanze tra le diverse stagioni cinematografiche.
In questo senso “Hugo Cabret” si presenta prima ancora di essere girato come un esempio di questo meticciato: prodotto da leggere e da guardare Hugo è un romanzo (di formazione) sotto forma di fumetto, graphic novel per la precisione, che nella sua forma cinematografica riesce a mettere tutti d’accordo. Rivisitazione aggiornata delle favole (nere) dickensiane, con Parigi al posto di Londra e la stazione di Paris Montparnasse a rappresentare idealmente il microcosmo picaresco ed aneddotico dello scrittore, il film si trasforma gradatamente in una scorribanda cinefila quando Scorsese, dopo aver soddisfatto le esigenze di merchandising di un prodotto fintamente destinato ai bambini, si lascia andare alla sua grande passione passando il testimone al vero protagonista del film, ovvero George Méliés, il grande sperimentatore, l’uomo capace di dare forma alla scoperta dei fratelli Lumière, caricando le immagini di un potere divinatorio che dà vita ai sogni.
Dopo averci abbagliato con il mirabolante dinamismo della cinepresa, utilizzata non solo nella sua propensione cinetica ma anche ordinativa - quello della stazione per natura dispersivo e frammentario diventerà un mondo regolato da leggi e principi - Scorsese si tuffa anima e corpo nella vicenda di un uomo sepolto nell’oblio che lui stesso si è costruito per annegare l’amarezza di un tempo grande si ritrova a vivere nel più assoluto anonimato.
Ed è proprio nel raccontare la parabola di un artista prima dimenticato e poi riscoperto grazie alle attenzioni del giovane protagonista che Scorsese fa rivivere se stesso sullo schermo: Méliés infatti nell’economia del film rappresenta non solo l’amore per il cinema ma anche la vicenda autobiografica del regista italo americano, dapprima escluso dalle grandi produzioni e poi definitivamente rilanciato dal sodalizio con Leonardo Di Caprio, per Scorsese un Hugo Cabret in carne ed ossa.
Un identificazione totale quindi, spirituale ed anche fisica, con il mitico pioniere che però finisce per attenuare la potenza del ritratto iniziale, relegando le vicissitudini del piccolo protagonista a quelle autoriali e personali dell’autore. Un peccato veniale condivisibile se non fosse per quella sensazione di scollamento tra le due vicende, quella dell’orfano in cerca di una famiglia, e quella di Méliés, in cerca del suo pubblico, che neanche l’incontro tra i due personaggi, suggellato da un finale di ritrovata normalità riesce a far dimenticare. Così la sincerità degli intenti deve fare i conti con la parziale artificialità del risultato.
Una coesistenza che Scorsese tiene in piedi più con il mestiere che con il cuore. Il piacere rimane in superficie, come un lembo di pelle destinato a staccarsi dopo lunga abbronzatura.
Si goda il sole il vecchio Martin, ad accendere i falò ci penserà qualcun’altro.
regia di M. Scorsese
Un cinema agli antipodi di ciò che è stato.
Martin Scorsese dopo il riconoscimento dell’Academy sembra intenzionato ad esaltare la magnificenza della grande industria hollywoodiana con allestimenti che ne omaggiano a diversi livelli la storia e le possibilità.
E se quest’anno gli strilli di copertina gli sono stati, in parte, rubati dall’altrettanto celebrativo "The Artist", splendida sintesi del potere taumaturgico di un cinema che non c’è più, è pur vero che la cadenza produttiva e le ingenti risorse del laboratorio scorsesiano, un circolo di virtuosi al quale da qualche tempo appartiene anche il nostro Dante Ferretti, sono diventate il marchio di fabbrica di un cinema che cerca di ridurre le distanze tra le diverse stagioni cinematografiche.
In questo senso “Hugo Cabret” si presenta prima ancora di essere girato come un esempio di questo meticciato: prodotto da leggere e da guardare Hugo è un romanzo (di formazione) sotto forma di fumetto, graphic novel per la precisione, che nella sua forma cinematografica riesce a mettere tutti d’accordo. Rivisitazione aggiornata delle favole (nere) dickensiane, con Parigi al posto di Londra e la stazione di Paris Montparnasse a rappresentare idealmente il microcosmo picaresco ed aneddotico dello scrittore, il film si trasforma gradatamente in una scorribanda cinefila quando Scorsese, dopo aver soddisfatto le esigenze di merchandising di un prodotto fintamente destinato ai bambini, si lascia andare alla sua grande passione passando il testimone al vero protagonista del film, ovvero George Méliés, il grande sperimentatore, l’uomo capace di dare forma alla scoperta dei fratelli Lumière, caricando le immagini di un potere divinatorio che dà vita ai sogni.
Dopo averci abbagliato con il mirabolante dinamismo della cinepresa, utilizzata non solo nella sua propensione cinetica ma anche ordinativa - quello della stazione per natura dispersivo e frammentario diventerà un mondo regolato da leggi e principi - Scorsese si tuffa anima e corpo nella vicenda di un uomo sepolto nell’oblio che lui stesso si è costruito per annegare l’amarezza di un tempo grande si ritrova a vivere nel più assoluto anonimato.
Ed è proprio nel raccontare la parabola di un artista prima dimenticato e poi riscoperto grazie alle attenzioni del giovane protagonista che Scorsese fa rivivere se stesso sullo schermo: Méliés infatti nell’economia del film rappresenta non solo l’amore per il cinema ma anche la vicenda autobiografica del regista italo americano, dapprima escluso dalle grandi produzioni e poi definitivamente rilanciato dal sodalizio con Leonardo Di Caprio, per Scorsese un Hugo Cabret in carne ed ossa.
Un identificazione totale quindi, spirituale ed anche fisica, con il mitico pioniere che però finisce per attenuare la potenza del ritratto iniziale, relegando le vicissitudini del piccolo protagonista a quelle autoriali e personali dell’autore. Un peccato veniale condivisibile se non fosse per quella sensazione di scollamento tra le due vicende, quella dell’orfano in cerca di una famiglia, e quella di Méliés, in cerca del suo pubblico, che neanche l’incontro tra i due personaggi, suggellato da un finale di ritrovata normalità riesce a far dimenticare. Così la sincerità degli intenti deve fare i conti con la parziale artificialità del risultato.
Una coesistenza che Scorsese tiene in piedi più con il mestiere che con il cuore. Il piacere rimane in superficie, come un lembo di pelle destinato a staccarsi dopo lunga abbronzatura.
Si goda il sole il vecchio Martin, ad accendere i falò ci penserà qualcun’altro.
giovedì, febbraio 23, 2012
Film in sala dal 24 febbraio 2012
Locandina: 50 e 50
50 e 50
(50/50)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Jonathan Levine
Hysteria
(Hysteria)
GENERE: Commedia, Sentimentale
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Germania, Francia, Gran Bretagna
REGIA: Tanya Wexler
Knockout - resa dei conti
(Haywire)
GENERE: Arti marziali, Azione, Spionaggio
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Steven Soderbergh
La scomparsa di Patò
GENERE: Drammatico
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Rocco Mortelliti
Qualcosa di straordinario
(Big Miracle)
GENERE: Drammatico, Sentimentale
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Ken Kwapis
Quasi amici
(Intouchables)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Olivier Nakache, Eric Toledano
Un giorno questo dolore ti sarà utile
(Someday this pain will be useful to you)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia, USA
REGIA: Roberto Faenza
Viaggio nell'isola misteriosa
(Journey 2: The Mysterious Island)
GENERE: Azione, Fantasy, Avventura, Family
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Brad Peyton
50 e 50
(50/50)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Jonathan Levine
Hysteria
(Hysteria)
GENERE: Commedia, Sentimentale
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Germania, Francia, Gran Bretagna
REGIA: Tanya Wexler
Knockout - resa dei conti
(Haywire)
GENERE: Arti marziali, Azione, Spionaggio
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Steven Soderbergh
La scomparsa di Patò
GENERE: Drammatico
ANNO: 2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Rocco Mortelliti
Qualcosa di straordinario
(Big Miracle)
GENERE: Drammatico, Sentimentale
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Ken Kwapis
Quasi amici
(Intouchables)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Olivier Nakache, Eric Toledano
Un giorno questo dolore ti sarà utile
(Someday this pain will be useful to you)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia, USA
REGIA: Roberto Faenza
Viaggio nell'isola misteriosa
(Journey 2: The Mysterious Island)
GENERE: Azione, Fantasy, Avventura, Family
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Brad Peyton
Post archiviato nelle categorie:
film in uscita 2012
mercoledì, febbraio 22, 2012
50/50
50/50 (Usa 2011)
Regia: Jonathan Levine
recensione di PARSEC
Ad un giovane ragazzo (J.G.Levitt) viene diagnosticata una rara forma di cancro, affronterà la terapia con il sostegno del suo migliore amico (Seth Rogen) della mamma apprensiva (Angelica Houston) e della psicologa (Anna Kendrick).
Terzo lungometraggio del 35enne newyorkese Levine - dopo All the boys love Mandy Lane e The Wackness - nonostante il tema drammatico il film ha i toni della commedia con momenti molto toccanti e altri molto divertenti, Seth Rogen vulcanico e lungimirante si conferma un bravo attore e soprattutto un acuto produttore.
Il film - che ha ricevuto il premio del pubblico - è già doppiato e pronto per la distribuzione nei circuiti commerciali (peccato per la voce italiana di Seth Rogen che non restituisce il vocione originale del simpatico attore).
Jonathan Levine al termine della proiezione racconta come sono andate le cose riguardo alla storia e alla produzione: si tratta di un momento autobiografico dell’autore dello script, Will Reiser, che si ammalò di cancro all’età di 20 anni, a quel tempo il suo miglior amico era proprio Seth Rogen il quale in seguito incoraggiò lo stesso Reiser a scrivere della sua esperienza.
Grazie alla presenza di Seth Rogen nel progetto relativamente low budget è stato più facile trovare i soldi e fare il film.
Sul film:
il regista afferma che non è stato poi così difficile come poteva sembrare trovare un equilibrio tra l’aspetto drammatico e quello più leggero, perché è qualcosa che rispecchia comunque la vita reale. Negli states c’è un po’ la tendenza a realizzare o un film triste o una commedia, a Levine invece è piaciuto combinare questi due elementi, affrontare un tema drammatico e parlare di cose tristi in modo divertente. Nello script inoltre era già presente l’equilibrio tra dramma e aspetti comici e c’è stato un incontro di affinità tra lui, Seth Rogen e Will Reiser con i quali all’inizio del progetto hanno discusso dei film di Hal Ashby, Cameron Crowe e James Brooks che avevano già affrontato e realizzato ottimamente le stesse idee.
Sulla location:
Il film ambientato a Seattle è stato in realtà girato a Vancouver per ragioni economiche. La scelta iniziale di ambientare la storia a L.A. - l’idea era quella di creare un forte contrasto tra la condizione di profonda tristezza del protagonista e una città luminosa e calda in cui splende sempre il sole - è stata abbandonata per evitare confronti con“Funny people”di Judd Appatow, un film il cui soggetto è simile a 50/50 e in cui Seth Rogen è di nuovo co-protagonista. Inoltre hanno optato per Seattle perché c’è un interessante fermento culturale e lavorativo giovanile che creava senso con la storia.
Su Angelica Houston:
la adora da sempre e in particolare per il suo lavoro con Wes Anderson - i Tenenbaum e The Life Aquatic - in questo ha portato molto di se stessa a causa del suo recente lutto - suo marito è morto sei mesi prima dell’inizio delle riprese - come regista è stato straordinario averla sul set per il contributo che ha dato al film sia dal punto di vista umano che professionale, per le emozioni che ha saputo esprimere e per gli aneddoti su suo padre (John Houston) che spesso raccontava.
Novembre 2011, Parsec
GALLERY
Regia: Jonathan Levine
recensione di PARSEC
Ad un giovane ragazzo (J.G.Levitt) viene diagnosticata una rara forma di cancro, affronterà la terapia con il sostegno del suo migliore amico (Seth Rogen) della mamma apprensiva (Angelica Houston) e della psicologa (Anna Kendrick).
Terzo lungometraggio del 35enne newyorkese Levine - dopo All the boys love Mandy Lane e The Wackness - nonostante il tema drammatico il film ha i toni della commedia con momenti molto toccanti e altri molto divertenti, Seth Rogen vulcanico e lungimirante si conferma un bravo attore e soprattutto un acuto produttore.
Il film - che ha ricevuto il premio del pubblico - è già doppiato e pronto per la distribuzione nei circuiti commerciali (peccato per la voce italiana di Seth Rogen che non restituisce il vocione originale del simpatico attore).
Jonathan Levine al termine della proiezione racconta come sono andate le cose riguardo alla storia e alla produzione: si tratta di un momento autobiografico dell’autore dello script, Will Reiser, che si ammalò di cancro all’età di 20 anni, a quel tempo il suo miglior amico era proprio Seth Rogen il quale in seguito incoraggiò lo stesso Reiser a scrivere della sua esperienza.
Grazie alla presenza di Seth Rogen nel progetto relativamente low budget è stato più facile trovare i soldi e fare il film.
Sul film:
il regista afferma che non è stato poi così difficile come poteva sembrare trovare un equilibrio tra l’aspetto drammatico e quello più leggero, perché è qualcosa che rispecchia comunque la vita reale. Negli states c’è un po’ la tendenza a realizzare o un film triste o una commedia, a Levine invece è piaciuto combinare questi due elementi, affrontare un tema drammatico e parlare di cose tristi in modo divertente. Nello script inoltre era già presente l’equilibrio tra dramma e aspetti comici e c’è stato un incontro di affinità tra lui, Seth Rogen e Will Reiser con i quali all’inizio del progetto hanno discusso dei film di Hal Ashby, Cameron Crowe e James Brooks che avevano già affrontato e realizzato ottimamente le stesse idee.
Sulla location:
Il film ambientato a Seattle è stato in realtà girato a Vancouver per ragioni economiche. La scelta iniziale di ambientare la storia a L.A. - l’idea era quella di creare un forte contrasto tra la condizione di profonda tristezza del protagonista e una città luminosa e calda in cui splende sempre il sole - è stata abbandonata per evitare confronti con“Funny people”di Judd Appatow, un film il cui soggetto è simile a 50/50 e in cui Seth Rogen è di nuovo co-protagonista. Inoltre hanno optato per Seattle perché c’è un interessante fermento culturale e lavorativo giovanile che creava senso con la storia.
Su Angelica Houston:
la adora da sempre e in particolare per il suo lavoro con Wes Anderson - i Tenenbaum e The Life Aquatic - in questo ha portato molto di se stessa a causa del suo recente lutto - suo marito è morto sei mesi prima dell’inizio delle riprese - come regista è stato straordinario averla sul set per il contributo che ha dato al film sia dal punto di vista umano che professionale, per le emozioni che ha saputo esprimere e per gli aneddoti su suo padre (John Houston) che spesso raccontava.
Novembre 2011, Parsec
GALLERY
Post archiviato nelle categorie:
anteprime,
recensioni
martedì, febbraio 21, 2012
ATM- Trappola mortale
ATM- Trappola mortale
In un momento in cui paura e spavento sembrano essere materia da sciamani, per il successo di produzioni infestate da spiriti maligni e pericolose possessioni, "ATM - Trappola mortale" segna nel suo piccolo un ritorno all'antico per i riferimenti ad un cinema che proponendo un serial killer privo di qualsiasi emotività ed assolutamente identificato con il male arrecato, si rifà senza mezzi termini a villain come Michael Meyer e Jason Voorhees, indimenticabili protagonisti di saghe come "Halloween" e "Venerdì 13".
Ad arricchire l'atmosfera vintageconcorrono nel ruolo delle vittime un terzetto di belli senza anima che alla maniera dei prodotti firmati dalla penna di Kevin Williamson ("So cosa hai fatto", "Scream" ma anche "Dawson's Creek") sembrano offrirsi su un piatto d'argento all'efferatezza del misterioso assalitore. A differenza dei predecessori, e forse nella ricerca di una caratteristica che ne giustifichi l'operazione, "ATM" fa piazza pulita dell'atmosfera vacanziera e della dimensione atemporale che in quelli si respirava per calare la sua storia in un contesto inconfutabilmente ordinario e metropolitano.
Così il pretesto della mattanza è una cabina del bancomat dove i tre cercano di effettuare un prelievo, e nella quale sono poi costretti a rifugiarsi per evitare le pericolose attenzioni di un enigmatico visitatore. Quando le intenzioni dello sconosciuto si trasformano in azioni omicide le probabilità di uscirne vivi diventerà una chimera.
Mettendo insieme continui richiami alla quotidianità che oltre all'incipit variamente distribuito lungo tutto il film, con i tentativi di forzare il bancomat per richiamare l'attenzione della polizia, prevedono anche l'utilizzo di un' oggettistica di uso comune trasformata per l'occasione in altrettanti strumenti d'offesa (dalla chiave inglese alla pompa dell'acqua usata per innondare la cabina), "ATM" si tiene lontano da eventuali spunti sociologici, legati al rapporto tra il mezzo tecnologico e gli sfortunati utilizzatori, mirando soprattutto a tenere alta la tensione.
Per farlo costruisce un meccanismo che vive sugli stratagemmi organizzati dall'assalitore per stanare le sue prede, e dai ragazzi per cercare di sfuggire all'assedio al quale sono sottoposti. Vittime e carnefici si sfidano in un gioco di resistenza e di estemporanee intuizioni che potrebbe assomigliare ad una partita a scacchi se il premio finale, con la morte del perdente, non rendesse inopportuno qualsiasi paragone ludico.
L'esordiente David Brooks è bravo ad evitare l'effetto splatter, limitando al minimo la visione del sangue ed assegnando allo sguardo degli attori il compito di restituire le varie efferatezze di cui si macchia l'assassino, mentre risulta notevole nella resa di uno spazio scenico che diventa reale, luogo esistente anche al di fuori della cornice filmica.
Dove invece il film viene a mancare è nella sua incapacità di presentare qualcosa che non sia stato già visto, nel ricalcare per filo e per segno, compreso quello di una possibile serializzazione, forme e contenuti ampiamente sfruttati.
Ed anche il tentativo di umanizzare l'assassino con un primo piano dei suoi occhi, e successivamente attribuendogli un modus operandi di incredibile raziocinio, rischia di ridimensionare il fascino che da sempre l'ignoto porta con se. Scritto da Chris Sparling ("Buried") ormai abbonato a vicende sviluppate in uno spazio circoscritto "ATM - Trappola mortale" ci dà la possibilità di vedere all'opera Alice Eve, barbie in ascesa del cinema hollywoodiano, qui nei panni di un' inconsapevole femme fatale alla quale non si può negare nulla, neanche una fantastica notte da incubo
(pubblicata su ondacinema.it)
GALLERY
In un momento in cui paura e spavento sembrano essere materia da sciamani, per il successo di produzioni infestate da spiriti maligni e pericolose possessioni, "ATM - Trappola mortale" segna nel suo piccolo un ritorno all'antico per i riferimenti ad un cinema che proponendo un serial killer privo di qualsiasi emotività ed assolutamente identificato con il male arrecato, si rifà senza mezzi termini a villain come Michael Meyer e Jason Voorhees, indimenticabili protagonisti di saghe come "Halloween" e "Venerdì 13".
Ad arricchire l'atmosfera vintageconcorrono nel ruolo delle vittime un terzetto di belli senza anima che alla maniera dei prodotti firmati dalla penna di Kevin Williamson ("So cosa hai fatto", "Scream" ma anche "Dawson's Creek") sembrano offrirsi su un piatto d'argento all'efferatezza del misterioso assalitore. A differenza dei predecessori, e forse nella ricerca di una caratteristica che ne giustifichi l'operazione, "ATM" fa piazza pulita dell'atmosfera vacanziera e della dimensione atemporale che in quelli si respirava per calare la sua storia in un contesto inconfutabilmente ordinario e metropolitano.
Così il pretesto della mattanza è una cabina del bancomat dove i tre cercano di effettuare un prelievo, e nella quale sono poi costretti a rifugiarsi per evitare le pericolose attenzioni di un enigmatico visitatore. Quando le intenzioni dello sconosciuto si trasformano in azioni omicide le probabilità di uscirne vivi diventerà una chimera.
Mettendo insieme continui richiami alla quotidianità che oltre all'incipit variamente distribuito lungo tutto il film, con i tentativi di forzare il bancomat per richiamare l'attenzione della polizia, prevedono anche l'utilizzo di un' oggettistica di uso comune trasformata per l'occasione in altrettanti strumenti d'offesa (dalla chiave inglese alla pompa dell'acqua usata per innondare la cabina), "ATM" si tiene lontano da eventuali spunti sociologici, legati al rapporto tra il mezzo tecnologico e gli sfortunati utilizzatori, mirando soprattutto a tenere alta la tensione.
Per farlo costruisce un meccanismo che vive sugli stratagemmi organizzati dall'assalitore per stanare le sue prede, e dai ragazzi per cercare di sfuggire all'assedio al quale sono sottoposti. Vittime e carnefici si sfidano in un gioco di resistenza e di estemporanee intuizioni che potrebbe assomigliare ad una partita a scacchi se il premio finale, con la morte del perdente, non rendesse inopportuno qualsiasi paragone ludico.
L'esordiente David Brooks è bravo ad evitare l'effetto splatter, limitando al minimo la visione del sangue ed assegnando allo sguardo degli attori il compito di restituire le varie efferatezze di cui si macchia l'assassino, mentre risulta notevole nella resa di uno spazio scenico che diventa reale, luogo esistente anche al di fuori della cornice filmica.
Dove invece il film viene a mancare è nella sua incapacità di presentare qualcosa che non sia stato già visto, nel ricalcare per filo e per segno, compreso quello di una possibile serializzazione, forme e contenuti ampiamente sfruttati.
Ed anche il tentativo di umanizzare l'assassino con un primo piano dei suoi occhi, e successivamente attribuendogli un modus operandi di incredibile raziocinio, rischia di ridimensionare il fascino che da sempre l'ignoto porta con se. Scritto da Chris Sparling ("Buried") ormai abbonato a vicende sviluppate in uno spazio circoscritto "ATM - Trappola mortale" ci dà la possibilità di vedere all'opera Alice Eve, barbie in ascesa del cinema hollywoodiano, qui nei panni di un' inconsapevole femme fatale alla quale non si può negare nulla, neanche una fantastica notte da incubo
(pubblicata su ondacinema.it)
GALLERY
Post archiviato nelle categorie:
recensioni
sabato, febbraio 18, 2012
In Time
IN TIME
regia A. Niccol
"In time" è un film non riuscito.
Niccol fa tutto da solo, ed oltre a dirigerlo, di per sè un compito già oneroso, lo scrive e lo produce. Troppe cose da fare possono generare confusione, fraintendimenti.
Affezionato agli scenari fantapolitici, la visionarietà del regista è abituata a mettersi in gioco allestendo meccanismi di genere solitamente pescati dal cinema noir ("Gattaga",1997) e utilizzando l'espediente romantico, in questo caso c'è una donna da salvare, per riscaldare atmosfere anaffettive, enfatizzate da una fotografia che sembra uscire direttamente da una camera d'obitorio.
Rispetto all'esordio a cui quest'ultimo si rifà non solo per la cornice futuristica ma anche per la centralità del fattore genetico (nel film l'umanità ha un autonomia di 25 anni che può essere allungata acquistando dosi di tempo) "In time" non riesce ad amalgamare le sue componenti.
Estremizzare le contraddizioni della contemporaneità in un contenitore capace di accellerarne le possibili conseguenze era la sfida che si era posto il regista.
La vicenda, nel tentativo di ristabilire la giustizia in un mondo dove il tempo ha sostituito il denaro ed in cui le disparità sociali sono create ad arte per alimentare i vantaggi di pochi, assume la forma di una versione futuristica di Bonnie and Clyde ma anche di Robin Hodd, con Will (Justin Timberlake) e Sylvia (Amanda Seyfried) uniti nell'impresa di rovesciare il sistema rubando il tempo per regalarlo a chi non ne ha.
L'escalation dell'imprendibile coppia non solo è costellata da una serie di errori di sceneggiatura (quelli più gravi si riferiscono proprio ai dettagli temporali violati con una facilità addirittura imbarazzante) e di molte situazioni inverosimili - la trama tra le altre cose non spiega come due super ricercati possano spostarsi liberamente per una città che assomiglia ad una caserma - ma appare fuori dal contesto che Niccol cerca di descrivere, una didascalica allegoria (passata al pubblico con l'espediente delle breaking news di cui zelanti televisori non mancano di informarci) del nostro tempo dove i cattivi sono però incapaci di esprimere le ragioni del loro operato, e quasi evanescenti nella difesa dello status quo.
Il film appare così sfilacciato e superficiale nella costruzione dei nessi logici che dovrebbero tenerlo insieme.
E se gli attori riescono ad essere un minimo convincenti, anche Timberlake una volta tanto, il loro lavoro si perde nella pochezza del contesto.
Non ci voleva certo "In Time" per sapere che è solo l'egoismo di pochi ad impedire una giusta ripartizione delle risorse. Sentirselo ripetere appare non solo beffardo ma fa sembrare il film ormai sorpassato. Quasi un paradosso per chi invece vuole il tempo voleva anticiparlo.
regia A. Niccol
"In time" è un film non riuscito.
Niccol fa tutto da solo, ed oltre a dirigerlo, di per sè un compito già oneroso, lo scrive e lo produce. Troppe cose da fare possono generare confusione, fraintendimenti.
Affezionato agli scenari fantapolitici, la visionarietà del regista è abituata a mettersi in gioco allestendo meccanismi di genere solitamente pescati dal cinema noir ("Gattaga",1997) e utilizzando l'espediente romantico, in questo caso c'è una donna da salvare, per riscaldare atmosfere anaffettive, enfatizzate da una fotografia che sembra uscire direttamente da una camera d'obitorio.
Rispetto all'esordio a cui quest'ultimo si rifà non solo per la cornice futuristica ma anche per la centralità del fattore genetico (nel film l'umanità ha un autonomia di 25 anni che può essere allungata acquistando dosi di tempo) "In time" non riesce ad amalgamare le sue componenti.
Estremizzare le contraddizioni della contemporaneità in un contenitore capace di accellerarne le possibili conseguenze era la sfida che si era posto il regista.
La vicenda, nel tentativo di ristabilire la giustizia in un mondo dove il tempo ha sostituito il denaro ed in cui le disparità sociali sono create ad arte per alimentare i vantaggi di pochi, assume la forma di una versione futuristica di Bonnie and Clyde ma anche di Robin Hodd, con Will (Justin Timberlake) e Sylvia (Amanda Seyfried) uniti nell'impresa di rovesciare il sistema rubando il tempo per regalarlo a chi non ne ha.
L'escalation dell'imprendibile coppia non solo è costellata da una serie di errori di sceneggiatura (quelli più gravi si riferiscono proprio ai dettagli temporali violati con una facilità addirittura imbarazzante) e di molte situazioni inverosimili - la trama tra le altre cose non spiega come due super ricercati possano spostarsi liberamente per una città che assomiglia ad una caserma - ma appare fuori dal contesto che Niccol cerca di descrivere, una didascalica allegoria (passata al pubblico con l'espediente delle breaking news di cui zelanti televisori non mancano di informarci) del nostro tempo dove i cattivi sono però incapaci di esprimere le ragioni del loro operato, e quasi evanescenti nella difesa dello status quo.
Il film appare così sfilacciato e superficiale nella costruzione dei nessi logici che dovrebbero tenerlo insieme.
E se gli attori riescono ad essere un minimo convincenti, anche Timberlake una volta tanto, il loro lavoro si perde nella pochezza del contesto.
Non ci voleva certo "In Time" per sapere che è solo l'egoismo di pochi ad impedire una giusta ripartizione delle risorse. Sentirselo ripetere appare non solo beffardo ma fa sembrare il film ormai sorpassato. Quasi un paradosso per chi invece vuole il tempo voleva anticiparlo.
giovedì, febbraio 16, 2012
Film in sala dal 17 febbraio 2012
...E ora parliamo di Kevin
(We need to talk about Kevin)
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna, USA
REGIA: Lynne Ramsay
ATM - Trappola Mortale
(ATM)
GENERE: Horror, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Canada, USA
REGIA: David Brooks
In Time
(In Time)
GENERE: Fantascienza, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Andrew Niccol
Jack e Jill
(Jack and Jill)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Dennis Dugan
Paradiso amaro
(The Descendants)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Alexander Payne
War Horse
(War Horse)
GENERE: Drammatico, Guerra, Avventura
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Steven Spielberg
(We need to talk about Kevin)
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna, USA
REGIA: Lynne Ramsay
ATM - Trappola Mortale
(ATM)
GENERE: Horror, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Canada, USA
REGIA: David Brooks
In Time
(In Time)
GENERE: Fantascienza, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Andrew Niccol
Jack e Jill
(Jack and Jill)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Dennis Dugan
Paradiso amaro
(The Descendants)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Alexander Payne
War Horse
(War Horse)
GENERE: Drammatico, Guerra, Avventura
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Steven Spielberg
Post archiviato nelle categorie:
film in uscita 2012
lunedì, febbraio 13, 2012
40 carati (Man on a Ledge)
40 carati (Man on a Ledge)
regia di Asger Leth
L'uomo sul cornicione (Man On A Ledge) è Nick Cassidy, un poliziotto condannato a 25 anni di prigione per un reato che non ha commesso. Deciso a dimostrare la propria innocenza organizza il plateale gesto per sviare l'attenzione dal furto del gioiello che dimostrerà l'iniquità di quelle accuse. Ad aiutarlo ci sarà il resto della famiglia e una poliziotta in crisi esistenziale (Elizabeth Banks).
Se i confini tra i generi sono sempre più labili allora "40 carati" può essere l'emblema di un cinema che nel tentativo di rinnovarsi riesce ad inventare formule come quella del film diretto dall'esordiente Asger Leth, in cui thriller ed heist movie viaggiano di pari passo lungo una trama che mette al centro della questione i temi della giustizia e della solidarietà.
Da una parte abbiamo il clima di tensione provocato da una serie di situazione-limite, a quella connaturata nella condizione del protagonista si sommano la corsa contro il tempo del team incaricato di forzare il bunker dove è nascosto il prezioso diamante e la ragnatela di minacce e sotterfugi messi in campo da chi vuole impedire che la verità venga a galla, dall'altra il continuo oscillare tra determinismo e casualità, quando il film si sofferma sulle azioni messe in atto per mettere le mani sul gioiello.
Due facce della stessa medaglia su cui la pellicola si divide equamente, distillando qua e là lo spirito del tempo quando in un processo di identificazione tra la sorte di Nick e quella dell'uomo della strada, inneggia alla rivolta contro l'ingiustizia sociale.
Frammenti di un mondo riassunti in maniera schematica (tra buoni e cattivi non esiste una via di mezzo) ma sufficiente per stimolare l'empatia dello spettatore che non potrebbe non immedesimarsi nella condizione del protagonista, tanto è il divario non solo ideologico ma anche estetico tra il capo dei banditi, un Ed Harris a fior di nervi e dal grigno satanico, e una banda di outsiders che può vantare oltre al monolotico interprete di "Avatar"(2009), Sam Worthington, nella parte di Nick, Elizabeth Banks ancora una volta - e nonostante il ruolo - ragazza della porta accanto, anche la pepata fisiognomica di una new entry come Genesis Rodriguez, fidanzata con il fratello di Nick ed insieme a lui impegnata in un ruolo che nell'esigenza di indossare per la maggior parte del tempo una tutina aderentissima le consente di mostrare un fisico da eroina dei fumetti Marvel.
Oggetto spettacolare e di intrattenimento "40 carati" è un buon compromesso tra le abilità tecniche di chi lo ha assemblato - la qualità del montaggio è superiore a molti dei film d'azione di recente produzione - e la capacità del regista di valorizzare la componente umana a sua disposizione.
(pubblicata su ondacinema.it)
GALLERY
regia di Asger Leth
L'uomo sul cornicione (Man On A Ledge) è Nick Cassidy, un poliziotto condannato a 25 anni di prigione per un reato che non ha commesso. Deciso a dimostrare la propria innocenza organizza il plateale gesto per sviare l'attenzione dal furto del gioiello che dimostrerà l'iniquità di quelle accuse. Ad aiutarlo ci sarà il resto della famiglia e una poliziotta in crisi esistenziale (Elizabeth Banks).
Se i confini tra i generi sono sempre più labili allora "40 carati" può essere l'emblema di un cinema che nel tentativo di rinnovarsi riesce ad inventare formule come quella del film diretto dall'esordiente Asger Leth, in cui thriller ed heist movie viaggiano di pari passo lungo una trama che mette al centro della questione i temi della giustizia e della solidarietà.
Da una parte abbiamo il clima di tensione provocato da una serie di situazione-limite, a quella connaturata nella condizione del protagonista si sommano la corsa contro il tempo del team incaricato di forzare il bunker dove è nascosto il prezioso diamante e la ragnatela di minacce e sotterfugi messi in campo da chi vuole impedire che la verità venga a galla, dall'altra il continuo oscillare tra determinismo e casualità, quando il film si sofferma sulle azioni messe in atto per mettere le mani sul gioiello.
Due facce della stessa medaglia su cui la pellicola si divide equamente, distillando qua e là lo spirito del tempo quando in un processo di identificazione tra la sorte di Nick e quella dell'uomo della strada, inneggia alla rivolta contro l'ingiustizia sociale.
Frammenti di un mondo riassunti in maniera schematica (tra buoni e cattivi non esiste una via di mezzo) ma sufficiente per stimolare l'empatia dello spettatore che non potrebbe non immedesimarsi nella condizione del protagonista, tanto è il divario non solo ideologico ma anche estetico tra il capo dei banditi, un Ed Harris a fior di nervi e dal grigno satanico, e una banda di outsiders che può vantare oltre al monolotico interprete di "Avatar"(2009), Sam Worthington, nella parte di Nick, Elizabeth Banks ancora una volta - e nonostante il ruolo - ragazza della porta accanto, anche la pepata fisiognomica di una new entry come Genesis Rodriguez, fidanzata con il fratello di Nick ed insieme a lui impegnata in un ruolo che nell'esigenza di indossare per la maggior parte del tempo una tutina aderentissima le consente di mostrare un fisico da eroina dei fumetti Marvel.
Oggetto spettacolare e di intrattenimento "40 carati" è un buon compromesso tra le abilità tecniche di chi lo ha assemblato - la qualità del montaggio è superiore a molti dei film d'azione di recente produzione - e la capacità del regista di valorizzare la componente umana a sua disposizione.
(pubblicata su ondacinema.it)
GALLERY
Post archiviato nelle categorie:
recensioni
giovedì, febbraio 09, 2012
Sulla strada di casa
SULLA STRADA DI CASA
di Emiliano Corapi
In tempi di crisi economica il cinema italiano sembra aver trovato nella figura dell'imprenditore un terminale in grado di soddisfare più esigenze: anello di congiunzione tra i diversi poli del ciclo produttivo, ed ago della bilancia di un rilancio economico che deve stimolare necessariamente investimenti e spirito d'iniziativa, il detentore del capitale soddisfa non solo le esigenze di un cinema agganciato alla realtà ma anche la necessità di un carattere funzionale allo spirito del tempo.
Così dopo "Il gioiellino" di Andrea Molaioli e "L'industriale" di Montaldo è la volta di Alberto, imprenditore a tempo pieno e saltuariamente corriere per un organizzazione criminale che gli consente di far fronte con sostanziose ricompense alle difficoltà di bilancio attraversate dalla sua azienda. Una routine rischiosa ma remunerativa fino a quando le conseguenze di una misteriosa irruzione, e la minaccia di uccisione dei suoi familiari da parte di una banda di malviventi lo costringono ad impegnarsi a consegnare la merce ai misteriosi assalitori.
La repentina sostituzione unita alla necessità di venire in possesso dell'oggetto di scambio, lo porteranno a dare la caccia a Sergio (un redivivo Daniele Liotti), nel frattempo subentrato nello svolgimento dell'incarico.
Il viaggio verso casa diventerà allora un confronto allo specchio con chi come lui è stato costretto ad oltrepassare il punto di rottura.
Sviluppato come un thriller di cui ricalca non solo la costruzione a scatole cinesi, riferite al modus operandi con cui Alberto crea le occasioni per conseguire il risultato, ma anche per il crescendo di tensione che accompagna le diverse fasi del racconto, "Sulla strada di casa" è anche la rappresentazione di una condizione esistenziale dominata dalla paura che scaturisce dall'ignoto - Alberto e Sergio sono gli esecutori di un piano destinato a rimanere sconosciuto, mentre il film enfatizza la precarietà delle cose evitando di fare luce sull'identità delle persone che in qualche modo usufruiscono dei loro servigi - oppure come conseguenza di un'incomunicabilità che non fa sconti soprattutto all'interno dell'ambiente famigliare, dominato da rapporti di incomprensione e falsità.
La progressione emotiva, favorita anche dalla struttura road movie, finirà per confluire in una sorta di passaggio di consegne tra i due contendenti improntato secondo i criteri di un realismo crudo, ma proporzionato al prezzo da pagare alla necessità di redenzione.
Armonizzando le ristrettezze del budget con la presenza di un cast di primo piano, Corapi elimina qualsiasi orpello (largo uso di telecamera a mano e digitale, suono in presa diretta, fotografia documentaristica) per concentrarsi sugli attori e sulla loro recitazione.
Una ricognizione ravvicinata che riesce a risparmiare, e nel contempo gioca un ruolo decisivo nel rendere l'assedio fisico e morale in cui si muove l'umanità rappresentata. In questo senso a risultare strepitosa è la performance di Vinicio Marchioni nella parte di Alberto.
E' lui, nella misura del disagio e dello smarrimento che trasmette al personaggio, a rafforzare la credibilità della storia. Corapi, al suo primo lungometraggio è bravo a gestire i meccanismi del genere, a sintonizzare l'attenzione del pubblico sulle ansie del suo protagonista, a disegnare gli ambienti sullo stato d'animo dei personaggi: la solitudine della moglie di Alberto (Donatella Finocchiaro) ripresa nei fiori che fanno da ornamento ad un prato altrimenti spoglio, oppure la reclusione disadorna ma sicura nella quale il boss calabrese riesce ad organizzare i suoi traffici sono il segnale di un talento genuino.
E se non fosse per un finale che tira le fila in maniera sin troppo repentina quello del regista romano sarebbe un esordio sorprendente.
Le premesse restano comunque interessanti e fanno di Emiliano Corapi un regista da tenere d'occhio.
(pubblicato su ondacinema,it)
Leggi anche l'Intervista ad Emiliano Corapi (pubblicata su Ondacinema.it)
di Emiliano Corapi
In tempi di crisi economica il cinema italiano sembra aver trovato nella figura dell'imprenditore un terminale in grado di soddisfare più esigenze: anello di congiunzione tra i diversi poli del ciclo produttivo, ed ago della bilancia di un rilancio economico che deve stimolare necessariamente investimenti e spirito d'iniziativa, il detentore del capitale soddisfa non solo le esigenze di un cinema agganciato alla realtà ma anche la necessità di un carattere funzionale allo spirito del tempo.
Così dopo "Il gioiellino" di Andrea Molaioli e "L'industriale" di Montaldo è la volta di Alberto, imprenditore a tempo pieno e saltuariamente corriere per un organizzazione criminale che gli consente di far fronte con sostanziose ricompense alle difficoltà di bilancio attraversate dalla sua azienda. Una routine rischiosa ma remunerativa fino a quando le conseguenze di una misteriosa irruzione, e la minaccia di uccisione dei suoi familiari da parte di una banda di malviventi lo costringono ad impegnarsi a consegnare la merce ai misteriosi assalitori.
La repentina sostituzione unita alla necessità di venire in possesso dell'oggetto di scambio, lo porteranno a dare la caccia a Sergio (un redivivo Daniele Liotti), nel frattempo subentrato nello svolgimento dell'incarico.
Il viaggio verso casa diventerà allora un confronto allo specchio con chi come lui è stato costretto ad oltrepassare il punto di rottura.
Sviluppato come un thriller di cui ricalca non solo la costruzione a scatole cinesi, riferite al modus operandi con cui Alberto crea le occasioni per conseguire il risultato, ma anche per il crescendo di tensione che accompagna le diverse fasi del racconto, "Sulla strada di casa" è anche la rappresentazione di una condizione esistenziale dominata dalla paura che scaturisce dall'ignoto - Alberto e Sergio sono gli esecutori di un piano destinato a rimanere sconosciuto, mentre il film enfatizza la precarietà delle cose evitando di fare luce sull'identità delle persone che in qualche modo usufruiscono dei loro servigi - oppure come conseguenza di un'incomunicabilità che non fa sconti soprattutto all'interno dell'ambiente famigliare, dominato da rapporti di incomprensione e falsità.
La progressione emotiva, favorita anche dalla struttura road movie, finirà per confluire in una sorta di passaggio di consegne tra i due contendenti improntato secondo i criteri di un realismo crudo, ma proporzionato al prezzo da pagare alla necessità di redenzione.
Armonizzando le ristrettezze del budget con la presenza di un cast di primo piano, Corapi elimina qualsiasi orpello (largo uso di telecamera a mano e digitale, suono in presa diretta, fotografia documentaristica) per concentrarsi sugli attori e sulla loro recitazione.
Una ricognizione ravvicinata che riesce a risparmiare, e nel contempo gioca un ruolo decisivo nel rendere l'assedio fisico e morale in cui si muove l'umanità rappresentata. In questo senso a risultare strepitosa è la performance di Vinicio Marchioni nella parte di Alberto.
E' lui, nella misura del disagio e dello smarrimento che trasmette al personaggio, a rafforzare la credibilità della storia. Corapi, al suo primo lungometraggio è bravo a gestire i meccanismi del genere, a sintonizzare l'attenzione del pubblico sulle ansie del suo protagonista, a disegnare gli ambienti sullo stato d'animo dei personaggi: la solitudine della moglie di Alberto (Donatella Finocchiaro) ripresa nei fiori che fanno da ornamento ad un prato altrimenti spoglio, oppure la reclusione disadorna ma sicura nella quale il boss calabrese riesce ad organizzare i suoi traffici sono il segnale di un talento genuino.
E se non fosse per un finale che tira le fila in maniera sin troppo repentina quello del regista romano sarebbe un esordio sorprendente.
Le premesse restano comunque interessanti e fanno di Emiliano Corapi un regista da tenere d'occhio.
(pubblicato su ondacinema,it)
Leggi anche l'Intervista ad Emiliano Corapi (pubblicata su Ondacinema.it)
Post archiviato nelle categorie:
recensioni
Film in sala dal 10 febbraio 2012
40 carati
(Man on a Ledge)
GENERE: Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Asger Leth
Albert Nobbs
(Albert Nobbs)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna, Irlanda
REGIA: Rodrigo Garcia
Com'è bello far l'amore
(Com'è bello far l'amore)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Fausto Brizzi
La verità nascosta
(La cara oculta)
GENERE: Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Spagna, Colombia
REGIA: Andrés Baiz
Star Wars - Episodio I - La Minaccia Fantasma 3D
(Star Wars - Episode I - The Phantom Menace 3D)
GENERE: Azione, Fantascienza, Avventura
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: George Lucas
Tre uomini e una pecora
(A Few Best Men)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Australia, Gran Bretagna
REGIA: Stephan Elliott
(Man on a Ledge)
GENERE: Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Asger Leth
Albert Nobbs
(Albert Nobbs)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna, Irlanda
REGIA: Rodrigo Garcia
Com'è bello far l'amore
(Com'è bello far l'amore)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Fausto Brizzi
La verità nascosta
(La cara oculta)
GENERE: Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Spagna, Colombia
REGIA: Andrés Baiz
Star Wars - Episodio I - La Minaccia Fantasma 3D
(Star Wars - Episode I - The Phantom Menace 3D)
GENERE: Azione, Fantascienza, Avventura
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: George Lucas
Tre uomini e una pecora
(A Few Best Men)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Australia, Gran Bretagna
REGIA: Stephan Elliott
Post archiviato nelle categorie:
film in uscita 2012
martedì, febbraio 07, 2012
SCOPRI LA DIFFERENZA
In questi giorni ho deciso di recuperare un film che nei mesi passati non ero riuscito a vedere.
Parlo di RUGGINE (di D. Gaglianone), un film che alla sua uscita mi aveva fortemente incuriosito non solo per il cast di tutto rispetto (Timi-Solarino-Mastrandrea-Accorsi).
Siamo a Torino negli anni '70 e al centro della vicenda troviamo dei ragazzini, figli di immigrati meridionali al nord stipati nei casermoni di periferia.
I Ragazzini e la curiosità verso il sesso, la voglia di libertà, la scoperta dei lati malvagi della vita, la loro adolescenza che verrà segnata dall'uccisione violenta di due coetanee.
I grandi, con le loro paure di "stranieri" catapultati in una metropoli con il loro bagaglio di ignoranza, superstizione, ingenutà e riverenza verso chi è più ricco, colto o semplicemente non sia terrone.
Questo in sintesi il succo di Ruggine, il film di Daniele Gaglianone tratto dal romanzo di Stefano Massaron.
Una film nero e dolente, convincente e ben scritto.
Finita la visione di Ruggine, pur riconoscendo le qualità della pellicola, venivo colto dalla sensazione del già visto e addirittura confondevo il volto della Solarino con quello della fascinosa Folrinda Bolkan, mentre il bravo Filippo Timi prendeva le sembianze di Marc Porel.
Ecco, ci ero arrivato e anche abbastanza semplicemente.
Possibile che l'impegnato Gaglianone si fosse ispirato, anzi addirittura avesse copiato un regista vituperato, ghettizzato perché ritenuto provocatorio, basso, volgare dalla critica del tempo?
Un regista di quelli a cui la critica non poteva assegnare "tre stellette" perché avrebbe significato rivalutarlo e quindi mettersi contro colleghi e intellettuali?
Non mi restava che mettere a confronto le due pellicole e trovare le tante cose in comune.
1) I bambini terroni:
la curiosità verso il sesso;
i giochi in campagna;
che vengono uccisi;
2) I grandi terroni:
l'insicurezza;
l'ignoranza;
il servilismo;
la completa fiducia in quella che nella loro cultura riconoscono come auorità (Il prete/il medico).
3) L'assassino:
che torna sul luogo del delitto a dare conforto;
le motivazioni che lo portano ad uccidere (i bambini che si avvicinano al sesso).
4) Lo scemo del paese:
che viene subito accusato di essere l'assassino.
Il quadro ora era completo, Gaglianone aveva copiato un film che ho amato e amo ancora, ma qualcosa ancora mi ronzava nella testa.
Non ero convinto dell'ambientazione, Ruggine è ambientato a Torino, mentre il film a cui pensavo era ambientato in un minuscolo paesino meridionale.
Ma no, pensavo, folgorato da un altro vago ricordo, non è possibile che Gaglianone (o l'autore del romanzo - che non ho letto) si sia spinto a tanto, non ci credo.
Inutile dire che non ho resistito e in piena notte mi sono messo alla ricerca di appunti, ritagli di giornale, interviste, sino a quando dinanzi ai miei occhi non compare l'inconfutabile verità.
"Il plot di Non si sevizia un paperino non corrispondeva all'idea iniziale di Fulci, che prevedeva di ambientare la storia a Torino, tra gli operai emigrati dal sud Italia per fare "fortuna" alla Fiat.
Lo sfondo dei delitti avrebbe dovuto essere uno degli affollati quartieri dormitorio del capolugo piemontese, un cupo coacervo di superstizioni e resistenze culturali di fronte alle difficoltà d'integrazione delle famiglie meridionali nella città d'adozione.
(Il terrorista dei generi-Tutto il cinema di Lucio Fulci di P. Albiero e G. Cacciatore. Ed. Un mondo a parte, 2004)".
Mi fermo qui.
Parlo di RUGGINE (di D. Gaglianone), un film che alla sua uscita mi aveva fortemente incuriosito non solo per il cast di tutto rispetto (Timi-Solarino-Mastrandrea-Accorsi).
Siamo a Torino negli anni '70 e al centro della vicenda troviamo dei ragazzini, figli di immigrati meridionali al nord stipati nei casermoni di periferia.
I Ragazzini e la curiosità verso il sesso, la voglia di libertà, la scoperta dei lati malvagi della vita, la loro adolescenza che verrà segnata dall'uccisione violenta di due coetanee.
I grandi, con le loro paure di "stranieri" catapultati in una metropoli con il loro bagaglio di ignoranza, superstizione, ingenutà e riverenza verso chi è più ricco, colto o semplicemente non sia terrone.
Questo in sintesi il succo di Ruggine, il film di Daniele Gaglianone tratto dal romanzo di Stefano Massaron.
Una film nero e dolente, convincente e ben scritto.
Finita la visione di Ruggine, pur riconoscendo le qualità della pellicola, venivo colto dalla sensazione del già visto e addirittura confondevo il volto della Solarino con quello della fascinosa Folrinda Bolkan, mentre il bravo Filippo Timi prendeva le sembianze di Marc Porel.
Ecco, ci ero arrivato e anche abbastanza semplicemente.
Possibile che l'impegnato Gaglianone si fosse ispirato, anzi addirittura avesse copiato un regista vituperato, ghettizzato perché ritenuto provocatorio, basso, volgare dalla critica del tempo?
Un regista di quelli a cui la critica non poteva assegnare "tre stellette" perché avrebbe significato rivalutarlo e quindi mettersi contro colleghi e intellettuali?
Non mi restava che mettere a confronto le due pellicole e trovare le tante cose in comune.
1) I bambini terroni:
la curiosità verso il sesso;
i giochi in campagna;
che vengono uccisi;
2) I grandi terroni:
l'insicurezza;
l'ignoranza;
il servilismo;
la completa fiducia in quella che nella loro cultura riconoscono come auorità (Il prete/il medico).
3) L'assassino:
che torna sul luogo del delitto a dare conforto;
le motivazioni che lo portano ad uccidere (i bambini che si avvicinano al sesso).
4) Lo scemo del paese:
che viene subito accusato di essere l'assassino.
Il quadro ora era completo, Gaglianone aveva copiato un film che ho amato e amo ancora, ma qualcosa ancora mi ronzava nella testa.
Non ero convinto dell'ambientazione, Ruggine è ambientato a Torino, mentre il film a cui pensavo era ambientato in un minuscolo paesino meridionale.
Ma no, pensavo, folgorato da un altro vago ricordo, non è possibile che Gaglianone (o l'autore del romanzo - che non ho letto) si sia spinto a tanto, non ci credo.
Inutile dire che non ho resistito e in piena notte mi sono messo alla ricerca di appunti, ritagli di giornale, interviste, sino a quando dinanzi ai miei occhi non compare l'inconfutabile verità.
"Il plot di Non si sevizia un paperino non corrispondeva all'idea iniziale di Fulci, che prevedeva di ambientare la storia a Torino, tra gli operai emigrati dal sud Italia per fare "fortuna" alla Fiat.
Lo sfondo dei delitti avrebbe dovuto essere uno degli affollati quartieri dormitorio del capolugo piemontese, un cupo coacervo di superstizioni e resistenze culturali di fronte alle difficoltà d'integrazione delle famiglie meridionali nella città d'adozione.
(Il terrorista dei generi-Tutto il cinema di Lucio Fulci di P. Albiero e G. Cacciatore. Ed. Un mondo a parte, 2004)".
Mi fermo qui.
Post archiviato nelle categorie:
editoriali,
italia
lunedì, febbraio 06, 2012
Iron Lady
Iron Lady
regia di Phyllida Lloyd
In "Iron Lady" Phyllida Lloyd (sulla sceneggiatura di Abi Morgan) tenta il non facile compito di portare sul grande schermo la vita e le imprese politiche di Margaret Thatcher, ex primo ministro inglese e personaggio rilevante per la politica europea ed internazionale, soprattutto anno '80.
La regista, priva di idee e dal tocco poco incisivo, sceglie di dare maggiore risalto alla parte privata della vita della protagonista, impostando la narrazione su flash back e documenti di repertorio, sui ricordi della anziana donna e soprattutto sui suoi deliri da demenza senile in avanzamento.
Il tutto però è costruito confusamente.
Il risultato è un film che delude per la propria debolezza e superficialità.
Non ci si adddentra nell'animo della signora di ferro nè si affrontano con spirito critico le sue scelte politiche.
La Thatcher esce da questo biopic quasi santificata.
Suprema prova attoriale di Meryl Streep che con questa fatica potrebbe asggiudicarsi la sua terza statuetta d'oro.
Ottimo trucco-parrucco di scena, ottimo inglese british della Streep, pessima colonna sonora, assolutamente invadente, ossessiva, tanto da rendere il film una specie di fiction televisiva. Pessima regia e mntaggio.
Quest'opera ha tutta l'aria di una grossa occasione mancata in cui, a parte la magnifica presenza degli attori, la regista non pare aver avuto molto da dire.
regia di Phyllida Lloyd
In "Iron Lady" Phyllida Lloyd (sulla sceneggiatura di Abi Morgan) tenta il non facile compito di portare sul grande schermo la vita e le imprese politiche di Margaret Thatcher, ex primo ministro inglese e personaggio rilevante per la politica europea ed internazionale, soprattutto anno '80.
La regista, priva di idee e dal tocco poco incisivo, sceglie di dare maggiore risalto alla parte privata della vita della protagonista, impostando la narrazione su flash back e documenti di repertorio, sui ricordi della anziana donna e soprattutto sui suoi deliri da demenza senile in avanzamento.
Il tutto però è costruito confusamente.
Il risultato è un film che delude per la propria debolezza e superficialità.
Non ci si adddentra nell'animo della signora di ferro nè si affrontano con spirito critico le sue scelte politiche.
La Thatcher esce da questo biopic quasi santificata.
Suprema prova attoriale di Meryl Streep che con questa fatica potrebbe asggiudicarsi la sua terza statuetta d'oro.
Ottimo trucco-parrucco di scena, ottimo inglese british della Streep, pessima colonna sonora, assolutamente invadente, ossessiva, tanto da rendere il film una specie di fiction televisiva. Pessima regia e mntaggio.
Quest'opera ha tutta l'aria di una grossa occasione mancata in cui, a parte la magnifica presenza degli attori, la regista non pare aver avuto molto da dire.
sabato, febbraio 04, 2012
L'arte di vincere - Moneyball
L'arte di vincere - Moneyball
Cinema e sport non sono quasi mai un connubio vincente. A limitarne l'efficacia giocano soprattutto due fattori: la mancanza di empatia verso discipline attraversate da regole complicatissime, per di più alimentate da una tradizione che riguarda solo pochi adepti.
E poi l'accostamento con una visione della vita che rispecchia un punto di vista prevalentemente maschile.
Ed anche "Moneyball" occupandosi di un manager di una squadra di baseball alle prese con la scommessa di rendere competitiva una compagine allestita con pochi mezzi e molta inventiva, non si distacca dal quadro appena descritto.
Eppure dopo qualche minuto ti accorgi che pur continuando a parlare di tattiche e di mercato nella speranza di compiere il miracolo, il personaggio di Billy Beane nella sua (titanica) impresa di competere con i moloch di uno sport che anche in America ha subordinato il gesto atletico al potere dei soldi, appartiene di diritto alle grandi figure romantiche che prima il cinema e poi la letteratura hanno saputo rendere immortali.
Icaro contemporaneo per la voglia di infinito racchiusa nel sogno di invertire le sorti di una sconfitta annunciata, Billie è il capitano di una nave alla caccia della balena bianca, con il mitico cetaceo sostituito dall'altrettanto leggendario titolo delle world series che nel mondo del baseball rappresenta il successo più alto a cui si possa aspirare.
Ed è proprio nel tentativo riuscito di ricostruire la vicenda emotiva e psicologica che scandisce le varie fasi di questa rincorsa, come al solito costellata dallo scetticismo e dalla mancanza di fiducia che da sempre circonda il visionario, che il regista compie il suo capolavoro consegnandoci una vicenda che riesce a fare a meno dell'esibizione muscolare ed estetica.
Rinunciando al campo da gioco ed alle discussione tecniche, Miller ci parla di uomini e della paura di non essere all'altezza delle proprie aspettative e di quelle degli altri.
Una sfida con se stessi e con il proprio inconscio che il film rende in maniera pragmatica, mostrandoci il protagonista spesso in solitudine, a rimembrare i fantasmi di una promessa mancata (Billie ha smentito il pronostico di chi ne aveva prefigurato una carriera da star) o ad immaginare i risultati di partite che si ostina a non guardare per mantenere le distanze di chi ha paura di innamorarsi di nuovo dell'oggetto del proprio desiderio.
E poi circondandolo di figure sospese in una linea d'ombra che impedisce loro di reagire alle difficoltà di una carriera ormai logora, o mai decollata. Oppure di compagni d'avventura poco glamour come Peter Brand, il genio della statistica che aiuterà Billie a convertire i numeri in giocatori da comprare.
Dal fisico corpulento e completamente assorbito dal suo mestiere Peter è nella sua dimensione monotematica (ogni sua apparizione è legata ai motivi del suo mestiere) emblema di un mondo chiuso in se stesso, alla ricerca continua della prestazione. L'epilogo seppur rimandato nella conclusione alle cronaca dei nostri giorni dove il manager Billie Beane non ha smesso di inseguire la sua chimera, suggella nella scelta del protagonista, le ragioni di un film che ragiona sul senso della vita.
Immerso in chiari scuri caldi e leggermente autunnali "Moneyball" è un esempio di come il cinema classico sia ancora il modo per raccontare gli uomini e le loro storie. Brad Pitt è perfetto nel tratteggiare i mezzi toni di uno spirito inquieto ma deciso. Come lui tutti gli altri, in un ensemble di rara efficacia attoriale.
Cinema e sport non sono quasi mai un connubio vincente. A limitarne l'efficacia giocano soprattutto due fattori: la mancanza di empatia verso discipline attraversate da regole complicatissime, per di più alimentate da una tradizione che riguarda solo pochi adepti.
E poi l'accostamento con una visione della vita che rispecchia un punto di vista prevalentemente maschile.
Ed anche "Moneyball" occupandosi di un manager di una squadra di baseball alle prese con la scommessa di rendere competitiva una compagine allestita con pochi mezzi e molta inventiva, non si distacca dal quadro appena descritto.
Eppure dopo qualche minuto ti accorgi che pur continuando a parlare di tattiche e di mercato nella speranza di compiere il miracolo, il personaggio di Billy Beane nella sua (titanica) impresa di competere con i moloch di uno sport che anche in America ha subordinato il gesto atletico al potere dei soldi, appartiene di diritto alle grandi figure romantiche che prima il cinema e poi la letteratura hanno saputo rendere immortali.
Icaro contemporaneo per la voglia di infinito racchiusa nel sogno di invertire le sorti di una sconfitta annunciata, Billie è il capitano di una nave alla caccia della balena bianca, con il mitico cetaceo sostituito dall'altrettanto leggendario titolo delle world series che nel mondo del baseball rappresenta il successo più alto a cui si possa aspirare.
Ed è proprio nel tentativo riuscito di ricostruire la vicenda emotiva e psicologica che scandisce le varie fasi di questa rincorsa, come al solito costellata dallo scetticismo e dalla mancanza di fiducia che da sempre circonda il visionario, che il regista compie il suo capolavoro consegnandoci una vicenda che riesce a fare a meno dell'esibizione muscolare ed estetica.
Rinunciando al campo da gioco ed alle discussione tecniche, Miller ci parla di uomini e della paura di non essere all'altezza delle proprie aspettative e di quelle degli altri.
Una sfida con se stessi e con il proprio inconscio che il film rende in maniera pragmatica, mostrandoci il protagonista spesso in solitudine, a rimembrare i fantasmi di una promessa mancata (Billie ha smentito il pronostico di chi ne aveva prefigurato una carriera da star) o ad immaginare i risultati di partite che si ostina a non guardare per mantenere le distanze di chi ha paura di innamorarsi di nuovo dell'oggetto del proprio desiderio.
E poi circondandolo di figure sospese in una linea d'ombra che impedisce loro di reagire alle difficoltà di una carriera ormai logora, o mai decollata. Oppure di compagni d'avventura poco glamour come Peter Brand, il genio della statistica che aiuterà Billie a convertire i numeri in giocatori da comprare.
Dal fisico corpulento e completamente assorbito dal suo mestiere Peter è nella sua dimensione monotematica (ogni sua apparizione è legata ai motivi del suo mestiere) emblema di un mondo chiuso in se stesso, alla ricerca continua della prestazione. L'epilogo seppur rimandato nella conclusione alle cronaca dei nostri giorni dove il manager Billie Beane non ha smesso di inseguire la sua chimera, suggella nella scelta del protagonista, le ragioni di un film che ragiona sul senso della vita.
Immerso in chiari scuri caldi e leggermente autunnali "Moneyball" è un esempio di come il cinema classico sia ancora il modo per raccontare gli uomini e le loro storie. Brad Pitt è perfetto nel tratteggiare i mezzi toni di uno spirito inquieto ma deciso. Come lui tutti gli altri, in un ensemble di rara efficacia attoriale.
giovedì, febbraio 02, 2012
Film in sala dal 3 febbraio 2012
Hesher è stato qui
(Hesher)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Spencer Susser
Hugo Cabret
(Hugo)
GENERE: Avventura, Fantastico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Martin Scorsese
I Muppet
(The Muppets)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: James Bobin
Millennium - Uomini che odiano le donne
(The Girl with the Dragon Tattoo)
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: David Fincher
Polisse
(Polisse)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Maiwenn Le Besco
Sulla strada di casa
(Sulla strada di casa)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Emiliano Corapi
(Hesher)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Spencer Susser
Hugo Cabret
(Hugo)
GENERE: Avventura, Fantastico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Martin Scorsese
I Muppet
(The Muppets)
GENERE: Commedia
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: James Bobin
Millennium - Uomini che odiano le donne
(The Girl with the Dragon Tattoo)
GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: David Fincher
Polisse
(Polisse)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Maiwenn Le Besco
Sulla strada di casa
(Sulla strada di casa)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2012
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Emiliano Corapi
Post archiviato nelle categorie:
film in uscita 2012
mercoledì, febbraio 01, 2012
ACAB
L'inizio è una lunga sequenza dove con un montaggio incrociato ci vengono presentati i protagonisti della storia. Cobra, Mazinga, Negro sono i nomi di battaglia dei tre poliziotti del reparto celere riassunti in quelle scene rubate ad un frammento delle loro rispettive esistenze. Il primo insegue e malmena il pirata della strada che stava fuggendo dopo averlo investito; il secondo blocca uno spacciatore mentre è a fare la spesa con la figlioletta; il terzo si ritrova in questura per riportare a casa il figlio che è stato fermato dalle forze dell'ordine. Le loro sono ancora vite senza nome, facce che pretendono rispetto senza alcun biglietto da visita; la notte a dipingergli nel volto un abisso che di lì a poco impareremo a conoscere fino in fondo. Per il momento la cosa più importante è assistere a quello che vediamo: un privato che non riesce a svestire l'uniforme.
Teso, violento, sincopato, abituato a farsi strada tra le maglie di una metropoli trasformata in un campo di battaglia, il prototipo umano al centro della storia è abituato ragionare sulle opportunità che gli assicurano la sopravvivenza, in un confronto esistenziale raramente alla pari, consumato tra le gradinate di uno stadio popolato da belve inferocite, oppure in una terra di nessuno, dove lo stato si fa vivo solamente quando c'è un conto da saldare. Il film di Stefano Sollima si sviluppa proprio da questo punto di partenza, assunto come dogma inconfutabile, in cui l'impossibilità di ritornare ad essere normali dopo l'esercizio delle proprie funzioni viene fissata nel sistematico alternarsi di scene e situazioni caratterizzate da scelte comportamentali che non distinguono tra lavoro e tempo libero. Da quel momento l'evolversi dell'intera vicenda, nella mancanza di confine tra un ordinanza di sgombero da eseguire riducendo al massimo il rischio di effetti collaterali, e la vendetta contro un gruppo di immigrati eseguito per conto terzi, finirà per rendere impossibile ogni tentativo di distinzione.
Quello che conta, al di là della strumentalizzazione in chiave politica e sociale (non a caso il senso di frustrazione nei confronti di un sistema che non tutela i cittadini è accennato, e per di più delegato a chi ormai non fa più parte del sodalizio) è un senso di appartenenza continuamente ribadito. In questa direzione è chiaro il messaggio che il Cobra impartisce al neo assegnato con fare perentorio: il collega è un fratello, il gruppo una famiglia da salvaguardare in ogni occasione, anche a costo, come capiterà negli scampoli conclusivi della vicenda, di tradire quegli interessi, dei cittadini e della nazione, poco prima legittimati dal rischio dell'incolumità personale al quale gli stessi agenti si sottopongono ogni volta che lasciano la caserma. In un quadro simile, e con la storia che gradatamente si concentra sulla pista seguita dal Cobra per catturare il colpevole del ferimento del suo comandante (Mazinga), il film ci mostra le conseguenze di un'etica che riduce le possibilità di condividere affettività d'altro tipo, con famiglie mai formate, quella del Cobra è un sorso di birra consumato in solitudine, oppure complicate dall'assenza di chi dovrebbe governarle con la propria presenza
Al suo esordio sul grande schermo Sollima doveva affrontare molte sfide: innanzitutto quella di confermare nel passaggio dal piccolo al grande schermo quanto di buono era stato detto di lui a proposito della trasposizione televisiva di "Romanzo criminale" (2005). Poi, forse la cosa più importante, quella di evitare la retorica e l'ideologia che spesso accompagna la rappresentazione del potere nelle sue diverse manifestazioni. Ed infine la possibilità di realizzare un prodotto in grado di far pensare evitando di mortificare le necessità dell'intrattenimento.
A conti fatti il tabellino fa segnare il pieno dalla parte del segno più perché il film, pur ricalcando nel paradigma del poliziotto consumato dal male del suo lavoro modelli e personaggi di tanto cinema americano, così come, nella rappresentazione di una comunità tribù, riconosciuta nella condivisione degli spazi - lo schieramento dell'assetto antisommossa, l'abitacolo del furgone che ogni volta li riporta sul luogo del delitto, gli spogliatoi del posto di lavoro - e dei rituali - la partita di rugby, la birra con gli amici, l'iniziazione dei nuovi arrivati - gli esempi forniti da alcuni campioni del genere come "Tropa de elite" (2007) e "Ha Shoter", premio speciale della giuria all'ultimo festival di Locarno, "ACAB" riesce a crearsi un segno distintivo. Non solo nel referto di un malessere che nel ritratto di un istituzione costretta a creare dal di dentro le motivazioni per tirare avanti, riesce a parlare di una crisi spirituale e sociale che a raggiunto livelli allarmanti, ma anche nella capacità di raccontare utilizzando una dialettica che, anteponendo la fluidità della cinepresa alla densità delle interpretazioni, riesce a restituire l'agonismo tormentato dei suoi protagonisti.
A suo agio tanto nelle inquadrature d'insieme, quando la telecamera allarga il suo sguardo al mondo circostante che in quelle ravvicinate, dove l'indagine si sofferma su un battito di ciglia, Sollima si avvale di una fotografia dai colori lividi, desaturati quanto basta per raffreddare una materia di per sé incandescente, e di un dp che, nell'alternare lo stile modaiolo della musica da classifica a quella acida e distorta realizzata dai Mokadelic sottolinea di volta in volta la successione emotiva. Un plauso speciale lo merita però la direzione attoriale e le performance che da Favino a Giallini, passando per Domenico Diele e Filippo Nigro sono il punto di forza di un'opera che non ha paura di essere quello che è: un prodotto di genere, senza infingimenti e con molto mestiere.
(pubblicata su ondacinema.it)
Iscriviti a:
Post (Atom)