America. Fine anni '40, primi anni '50. Si può scampare, persino ad una guerra. E' possibile fare questo. Tornare a casa, come si dice. Ancor più
complicato, pero', e' stabilire cosa farsene della vita subito dopo essere stato sul punto di perderla. E soprattutto se esistono - esistono davvero - le
condizioni per scegliere di giocartela a modo tuo, di essere te stesso. Libero. Presunzione che la prossimità alla morte rende addirittura impellente. Lo
slancio "naturale" verso la vita, arrivati ad una stretta del genere, spesso si approssima alla linea di minor resistenza. Di conseguenza, altrettanto sovente,
implica costi molto alti da pagare.
D'altro canto, e' possibile pure mettere insieme un'audace e convincente
ipotesi di se stessi e delle cose - a tratti elegante, a tratti energica - e
col tramite di questa tentare di rimescolare le carte che regolano il gioco del
mondo, ìn specie quello con gli altri uomini, che di questo mondo, bene o male,
fanno parte. La "via" razionale e' più articolata, meno diretta, meno
spontanea, piena di angoli bui, rischiarati - di rado - da una luce flebile:
una via magari rigorosa, magari solo affascinante, addirittura nobile, a volte,
ma ugualmente irta d'insidie e soggetta a pedaggi parimenti onerosi.
Queste due figure così irriducibili e tipiche dell'immaginario americano - la
versione a stelle-e-strisce del primigenio dissidio tra Natura e Cultura - si
concentrano nel campo visivo di un film delle ambizioni e dello stile di "The
master", sesta prova del "nuovo classico" Paul T. Anderson, nella forma, da un
lato, del Sogno (il Sogno Americano, appunto) paradiso/inferno
dell'affermazione individuale, paradigma della rivolta vitalistica, emblema di
un rapporto ancora presente per quanto conflittuale con la realtà sensibile e
sensuale: la Natura, insomma. (Ma Sogno anche al di fuori della sfera
metaforica, se e' vero che diversi snodi del film sono contrassegnati da
momenti in cui Freddie Quell, il personaggio di Joaquin Phoenix, si ridesta,
fantastica ad occhi aperti, riposa su miraggi di regressione primordiale). E,
dall'altro, della sua Narrazione/Manipolazione (il Grande Romanzo Americano,
per dire una delle tante varianti di questa figura di cui il cinema e' forse il
più popolare dei mezzi di espressione), ovvero lo sforzo lucido e calcolato di
ricondurre quelle energie e quelle spinte enormi ma disordinate entro un
canone, una struttura logica che controllandone gli scarti e le
imprevedibilità, le consegna alle possibilità del linguaggio, trasfigurandole
in letteratura, in Mito (il mito dell'uomo americano, ad esempio, pragmatico,
sicuro di se', così come depositario di valori spirituali sempre in tensione
fra tradizione e modernità).
In "The master", s'intravedono entrambi, un po' discosti, nel caleidoscopio
delle loro molteplici facce: il Sogno/Natura quasi sullo sfondo (latita il
paesaggio, nell'opera, o non ha il respiro ampio che proietta l'azione oltre il
suo dipanarsi) e un tanto più a fuoco, il suo gemello eterozigote - nato con
qualche secondo di scarto ma ansioso di rifarsi - la Narrazione o Grande
Romanzo (il tentativo di costruire/restituire un uomo nuovo sottratto alle
presunte secche dell'istinto attraverso l'assimilazione di una verità inedita e
sconvolgente). Nel film, questi "oggetti sacri" che concorrono non poco alla
quotidiana sussistenza del Mito Americano, a dire le sue rispettive
incarnazioni - il quasi brutale Freddie Quell/Phoenix da un canto: marinaio a
riposo della Marina degli Stati Uniti, rispedito in patria al termine del
secondo conflitto mondiale, preda di sbalzi d'umore e di scatti d'ira,
americano solitario, "hobo" ante-litteram, distillatore e consumatore
d'intrugli alcolici, compresso tra gli stenti steinbeckiani e le insofferenze
di Thoreau, tutto sommato integro quanto disadattato senza scampo,
dall'incedere circolare e la loquela da cornacchia; e, dall'altro, il più
scivoloso Lancaster Dodd/Philip Seymour Hoffman: arringante piazzista dello
spirito, potenziale magliaro, gran teorico della propria stessa dottrina (manco
a dirlo ribattezzata "La Causa"), affabulatore morbido quanto centrato sul
punto, di modi misurati e argomentatore capziosamente lezioso eppure d'indubbia
maestria autoritaria, intrigante e insidioso, di accenti tardo fitzgeraldiani
già compromessi da strette e pericolose affinità con la scaltrezza opportunista
degli arrampicatori di Dreiser, tanta carne liscia e rosata con al centro vispi
occhi di volpe - s'incontrano e si scontrano di continuo, si cercano e si
evitano, si blandiscono e si odiano ma non si mostrano mai indifferenti l'uno
all'altro.
Ecco allora il Sogno - inteso qui come l'individuo animato quasi solo
dall'insieme delle sue pulsioni - distratto dalle necessita' biologiche dalle
circonvoluzioni ardite del pensiero e della dialettica (Quell e' irretito e
turbato dalle sedute propostegli da Dodd a base di domande intime spesso
ripetute, dalla cadenza quasi ipnotica e dal periodare allusivo). Ed ecco la
Ragione che cova un misto di fascinazione/ripulsa, una malcelata invidia per
l'apparente illimitata energia che Quell mostra di possedere (Dodd apprezza i
cocktail "inventati" da Quell; non gli fa mistero dell'importanza della sua
presenza; teme/ammira la sua imprevedibilità, la sua scarsa arrendevolezza).
Eppure c'è qualcosa che impedisce una conciliazione definitiva. Anzi, a ben
vedere, proprio le stesse ragioni che spingono il Sogno a cercare riparo
nell'ordine di una Narrazione e la Narrazione ad inseguire la libertà del Sogno
sbilanciano il rapporto, prefigurando - in virtù dell'esigenza di stabilire
norme precise, principi basilari, precetti assertivi, di fondare e promuovere
una "Causa", addirittura - lo spettro della manipolazione, ossia della
prevaricazione, dell'arbitrio. Non e' un caso, infatti, che nell'originale il
sostantivo "master" conservi l'ambiguita ' che corre sulla sottile linea di
confine che separa il "master" come "maestro", nel senso di colui che trasmette
un insegnamento attraverso la parola e l'esempio, dal "master" inteso come
"padrone", a dire colui che, sic et simpliciter, dispone degli altri
esercitando su di loro un'autorità.
La manipolazione (Tecnica, in senso più generale), altro tema portante del
lavoro di Anderson, e' da sempre lo strumento utilizzato dalla Ragione per
piegare la Natura al suo volere. Recalcitrare, ribellarsi - anche con violenza
- e' la risposta ultimativa della Natura come istinto di autoconservazione.
Quell ribadisce se stesso respingendo sovente i dettami di Dodd definendoli
"stronzate". Oppure si sottrae con un gesto beffardo: oppone manipolazione a
manipolazione. Quanto lui si masturba di fronte all'oceano in uno sperpero di
se' frenetico, adolescenziale quanto liberatorio e in fondo innocuo (in "campo
aperto" Quell e' a suo agio, e' a casa), Dodd e' costretto a "soddisfarsi" nel
chiuso di un bagno, dentro al lavandino, al cospetto dello specchio che gli
rimanda le sue stesse smorfie, persino "assistito" dalla moglie, in ogni caso
lontano dal sesso, per non parlare dal piacere.
La Ragione e' gelosa dell'Istinto perché non può permettersi la libertà che
lui invece si concede; l'Istinto frequenta la Ragione perché il magma al suo
interno rischia di lanciarlo in tutte le direzioni e disperderlo. Non c'è
tregua, pero'. E non può esserci pacificazione. Anderson analizza da par suo il
dissidio eterno tra Natura e Cultura, tra Tecnica e Istinto (ai singoli
stabilire come, fino a che punto e con quali esiti) secondo i termini classici
emersi dalla vicenda americana: l'individuo che non intende piegarsi alle
regole della comunita'; una società nel profondo ancora abitata stabilmente
dalla repressione - che più dichiara la sua ammirazione per la libertà e più
briga per circoscriverla, cioè addomesticarla - e una nemmeno tanto latente
schizofrenia e sostanziale solitudine di coloro più portati a "sentire" che a
"capire".
TFK