Regia di Simon Kinberg.
con James McAvoy, Michael Fassbender, Jennifer Lawrence, Nicholas Hoult, Sophie Turner.
genere azione, avventura, fantascienza
USA, 2019,
durata, 113 minuti
Quando un film di cui si conosce già il mese di uscita viene rimandato a data da destinarsi c’è qualcosa che non va. La mancanza di fiducia sulla bontà del prodotto e, soprattutto, l’individuazione di una debolezza di fondo che possa metterne a rischio il ritorno commerciale sono solo alcune delle ragioni dietro cui si nascondono i motivi dell’improvviso cambiamento. E, se, nel caso di “The New Mutants”, altro film dedicato agli allievi di Charles Xavier, anch’esso costretto a rinviare la presentazione, si parla di uno slittamento attribuito a una serie di riprese aggiuntive volute dal regista per conferire alla storia la necessaria dose di orrore e di spavento, su “X-Men: Dark Phoenix” non esistono indizi che non siano riconducibili a ciò che si vede sullo schermo.
Detto che si tratta del 12esimo film della saga “Mutante”, il primo marchiato Disney (che tramite l’acquisizione di 20th Century Fox può ora disporre dell’intera galleria di super eroi Marvel), “X-Men: Dark Phoenix” si segnala innanzitutto per due aspetti: nella volontà di prendere di petto, dopo averla appena sfiorata (“X-Men - Conflitto finale”, sceneggiato dallo stesso Kinberg), una delle saghe più importanti della Casa delle Idee, quella che, negli anni Ottanta, Chris Claremont e John Byrne consacrarono al personaggio di Fenice Nera, sorta di demone energetico dai poteri illimitati, destinato a diventare l’alter ego di Jean Grey a seguito della missione spaziale in cui l’eroina, ha rischiato di morire per sempre e nella quale, invece, risorge a nuova e imprevedibile vita. E poi per l’esordio alla regia di Kimberg, gia sceneggiatore del Marvel Cinematic Universe e di altri Blockbuster di successo (“Mr. & Mrs. Smith”, “Sherlock Holmes”), e qui per la prima volta a capo di uno degli episodi dalle maggiori potenzialità dell’intera saga mutante.
Chi ha avuto modo di leggere gli albi originali ricorderà certamente che le qualità delle storie legate al personaggio di Fenice Nera dipendevano sia dalla possibilità di svilupparle con una serialità allora non cosi diffusa e capace di mettere d’accordo il desiderio d’avventura più sfrenato con l’opportunità di esplorarla con dovizia di sentimenti e relazioni umane, sia dalla volontà di elevare la diversità e l’alienazione dei protagonisti a condizione universale, per il fatto di essere estendibile alle orbite più lontane della galassia. Questo per dire che la ricchezza e l’ambizione del materiale in questione era tale da prevedere quanto meno uno sviluppo sulla falsariga di "Infinity War" e dunque una narrativa articolata su più episodi. Ed è qui, secondo noi, che bisogna cercare le ragioni di un progetto come quello di “X-Men: Dark Phoenix”, perché il fatto di averne condensato i contenuti all’interno di una storia autoconclusiva appare come un declassamento della sua fonte primaria, utilizzata solo in superficie, per fare da cassa di risonanza a quello che a tutti gli effetti sembra essere l’ultimo atto degli X-Men che abbiamo conosciuto fino a oggi, costretti a fare i conti con la crescente età degli interpreti (Logan ha già “lasciato”, altri sono destinati a farlo dopo questo film) e con la necessità di rinnovamento imposta dal marketing e dal mercato. Va da sé, dunque, che tutto questo finisca per influire sul risultato che più interessa i fan, e cioè su ciò che si vede sullo schermo.
Se l’inizio non prometteva bene, con la scena dell’incidente stradale in cui rimangono coinvolti la piccola Jean e i suoi genitori, uguale per collocazione e modalità di riprese a quelle del concorrente “Shazam!”, il resto conferma il trend generale (ivi compreso l’omaggio all’orgoglio #MeToo, celebrato da Raven nella frase “Sono sempre le donne che salvano gli uomini”) perché la vicenda di "Dark Phoenix" (la Sophie Turner di “Il trono di spade”) e compagni sembra un condensato di fatti e situazioni rubate agli ultimi lungometraggi degli "Avengers", con la sola differenza che nel film di Kinberg l’epica e la profondità presente nei lavori di Anthony e Joe Russo si perdono in una messinscena sbrigativa e priva di mordente anche quando si tratta di mettere in scena la dipartita di uno dei protagonisti principali (un must delle ultime produzioni Marvel), sia quando si tratta di ingaggiare una guest star come Jessica Chastain per farla “recitare” in un ruolo - da villain - che ne azzera del tutto l’espressività. Se poi aggiungiamo che, al bignami narrativo da lui realizzato, Kinberg ne accosta un secondo, fatto di immagini piatte e prive di profondità, si può affermare senza mezzi termini di trovarsi di fronte a un film di pura transizione, destinato a essere fagocitato dal nuovo che avanza.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su ondacinema.it)
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