martedì, luglio 09, 2019

NUREYEV - THE WHITE CROW


Nureyev - The White Crow
di Ralph Fiennes
con Raphaël Personnaz, Ralph Fiennes, Adèle Exarchopoulos, Oleg Ivenko 
Gran Bretagna, 2018
genere biografico, drammatico
durata, 122'



Sarà perché nato in un’epoca diversa dalla nostra, sarà perché formatosi in una società fondata sulla concretezza della filosofia comunista, fatto sta che in  “Nureyev - The White Crow”, il celebre ballerino appare diverso dai personaggi proposti dal cinema del nuovo millennio per il fatto di non essere attraversato dai mille dubbi che invece rendono impossibile a quest’ultimi una corretta decifrazione di sé stessi e del mondo. Talentoso e sognatore, il Nureyev di Ralph Fiennes (interpretato con straordinaria aderenza dal ballerino Oleg Ivenko) è al contrario un personaggio accompagnato da inscalfibili certezze e monolitica determinazione anche quando, nel 1961, si tratterà di decidere il destino della propria vita approfittando della tournée europea organizzata dalla Compagnia del balletto nazionale per chiedere asilo alle autorità parigine al fine di sfuggire alle ritorsioni della nomenclatura sovietica, preoccupata dal carattere estroverso e ribelle del nostro. Per arrivare a quel punto Fiennes - che nel film si ritaglia anche il ruolo secondario ma importante di mentore artistico della giovane stella - allestisce un biopic di fattura classica in cui il presente storico, offerto dagli avvenimenti della permanenza parigina, si alterna alle vicende del passato, costruito in larga parte sugli anni della prima giovinezza e su qualche flashback relativo agli stenti di un’infanzia poverissima ma decisiva nella formazione dell’uomo che verrà.

Alle prese con una delle icone del nostro tempo, Fiennes opta per una narrazione in cui la vita prende il sopravvento sull’arte e nella quale a fare la differenza non sono, come ci si aspetterebbe, le sequenze dedicate alle performance danzanti e agli allenamenti necessari per ottenerle, quanto il complesso delle vicissitudini personali e pubbliche che con il passare dei minuti trasformano il resoconto esperienziale in una sorta di thriller dei sentimenti, in cui il pubblico, più che per le esibizioni (invero poche) del giovane virgulto, si ritrova a trepidare per le conseguenze di una libertà di pensiero e d’azione che lascia sempre aperte soluzioni alternative a quelle che ci è dato di vedere, sia in termini di sessualità che di rapporti interpersonali, per non dire del complicato rapporto con le varie forme del potere (impersonato, di volta in volta, dal conformismo degli insegnanti di danza, come dalle minacce degli agenti del KBG inviati a controllarlo) unico vero ostacolo alla realizzazione dei propri sogni. 

Dai presupposti appena elencati si capisce allora la scelta di affidare la sceneggiatura (tratta dall’omonima biografia scritta da Julie Kavanagh, edita in Italia da La nave di Teseo) del film alla scrittura di David Hare, drammaturgo apprezzato con successo anche al cinema (“The Hours”, 20029) il quale, inserendosi in un contesto concepito quasi tutto in interni, in cui la precisione delle parole sostituisce il dinamismo dell’azione, riesce a costruire un testo capace di adeguare la complessità del dramma alla necessità di progressione del racconto. Caratteristica, questa, che si fa sentire quando si tratta di dare conto della realtà attraverso le persone reali che, a vario titolo, entrarono a far parte della vicenda, in molte cine-biografie ridotte a ruoli di cameo e qui invece promosse a comprimarie di lusso (per esempio Pierre Lacotte, ballerino e coreografo dell'Opéra, e Clara Saint/Adèle Exarchopoulos, fidanzata del figlio di André Malreaux), capaci di incidere nell’economia dell’intreccio controbilanciando un certo schematismo della componente visiva. La direzione della fotografia è infatti didascalica, sia quando si tratta di sottolineare gli scarti temporali della narrazione (ognuno dei quali annunciati da evidenti e ripetute dominanti cromatiche), sia nel momento in cui per rimarcare stati d’animo opposti e quindi la differenza tra la libertà del soggiorno parigino (in genere ricostruito da inquadrature molto mobili) e i limiti sofferti nella madre patria (non a caso scanditi da riprese più statiche), il film li visualizza attraverso scenografie di segno contrario: valgano per tutte il campo lungo ambientato a San Pietroburgo in cui ritroviamo Nureyev al centro di un quadrilatero di palazzi giganteschi che lo costringe in uno spazio “prigione” e, per contro, quelle “on the road” delle giornate francesi, introdotte da overlook della mdp che mettono il protagonista nella condizione di traguardare gli orizzonti della città. A fare la differenza è però la capacità di coinvolgimento della storia alla quale si resta attaccati anche laddove se ne conoscono i risvolti: come, ad esempio, succede nell’ultima sequenza, quella inerente la rocambolesca richiesta di asilo politico, in cui il fatto di conoscerne già gli esiti nulla toglie alla tensione che scaturisce da una ricostruzione degna del miglior thriller.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)

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