domenica, marzo 01, 2020

FAVOLACCE

Favolacce
di Damiano, Fabio D'innocenzo
con Elio Germano, Tommaso Di Cola, Giulietta Rebbeggiani
Italia, 2020
genere, drammatico
durata, 98'


Per il loro Favolacce, Damiano e Fabio D’Innocenzo partono dal cinema e dalla capacità affabulatoria senza la quale certe cose non potrebbero essere dette e, soprattutto, mostrate. Un proposito dichiarato nella scelta del titolo, aspro e dispregiativo, come lo era a suo tempo quello di Uccellacci uccellini di Pier Paolo Pasolini, nume tutelare non tanto nelle estetiche (per quelle bisogna guardare al cinema indie e, nello specifico, a Harmony Korine e Todd Solondz ), quanto nel pessimismo, oltreché nel cotè umano con cui il poeta guardava alla trasformazione del proletariato operata dal sistema capitalistico. Un concetto, quello del novellare, ribadito nella forma filmica e in particolare nell’anomalia – rispetto alle altre – della sequenza introduttiva, nella quale, più dell’esposizione teorica relativa al rapporto tra finzione e realtà presente in quello che si starà per dire/vedere, a contare è la letterarietà del tono, la ricercatezza delle parole e della giusta pronuncia, così come la necessità di stabilire un canone a partire dal quale tutto è possibile. Anche di rivoluzionare la rotta di partenza, stravolgendola con una storia che si rifà agli istinti primari dell’essere umano e che per questo è pronta a deformare il quadro iniziale, facendo della scorrettezza lessicale il grimaldello di quella comportamentale.

Con un’operazione per certi versi simile per forma e contenuto a quella immaginata da Joon-ho Bong in Parasite, i fratelli D’innocenzo raccontano la rapacità dei rapporti sociali in maniera ancora più netta
Con un’operazione per certi versi simile per forma e contenuto a quella immaginata da Joon-ho Bong in Parasite, i fratelli D’innocenzo raccontano la rapacità dei rapporti sociali in maniera ancora più netta, rendendo scoperto fin da subito – nell’agghiacciante cena familiare posta in apertura del film – il rapporto di dominanza che presiede le relazioni umane, con i padri-padroni ansiosi di ribadire la relazione di possesso con i loro figli, schiacciati fino all’annullamento di sé dalla prepotenza degli adulti. A parte quello della voce narrante, in Favolacce non c’è pensiero, nel senso che alla pari del regista coreano gli autori italiani fanno risalire l’anima del loro film dalla superficie dei corpi e delle cose, allestendo una narrazione orizzontale in cui ciò che si vede in superficie è la trasfigurazione di quello che si muove dentro i personaggi.

In Favolacce non c’è pensiero, nel senso che alla pari del regista coreano gli autori italiani fanno risalire l’anima del loro film dalla superficie dei corpi e delle cose
A fare la differenza, infatti, è la capacità della macchina da presa di cambiare ogni volta distanza e punto di vista: lontana e quasi panoramica nel momento in cui a dover essere visibile non sono i sentimenti (dunque le espressioni dei volti) ma le loro conseguenze, circoscritte in un consesso, – che sia la casa di famiglia o una parte di quartiere è uguale -, destinato a diventare un laboratorio comportamentale; ravvicinata e complice nei primi piani ravvicinati, quando si tratta di riscaldare la temperatura emotiva, laddove c’è da scoprire i segreti delle vittime, quelli che si nascondono dietro la remissività degli attoniti bambini; deformata e grottesca nell’antropologia dei caratteri, con l’uso del grandangolo e delle sfocature atte a segnalare l’alienazione generale del contesto.

Reduci dal successo de La terra dell’abbastanza, i fratelli D’innocenzo sono bravi a non farsi irretire dagli stereotipi del successo, realizzando un’opera seconda originale e scomoda
Se quella che traspare in Favolacce è una ferocia/rabbia ancestrale, appare coerente fare dell’acqua, presente nella scena di esuberanza infantile, la sola in cui la leggerezza dell’età trova modo di sfogarsi, una sorta di ritorno alla protezione del feto materno. Così come coerente è stato chiudere la storia facendo finta che sia stata tutta un’invenzione, che l’esistenza dei personaggi – e forse la nostra – sia talmente indescrivibile da aver bisogno della più grande delle menzogne, e cioè di fare finta (e ancora l’infingimento proprio della settima arte a venire in aiuto) che vada tutto bene. Reduci dal successo de La terra dell’abbastanza, i fratelli D’innocenzo sono bravi a non farsi irretire dagli stereotipi del successo, realizzando un’opera seconda originale e scomoda, che non fa sconti a nessuno e che, al pari di altre, si candida per il palmares del Festival Berlinese.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su taxidrivers.it)

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