mercoledì, agosto 19, 2020

Looking for Alaska. O dell’ultima età inquieta




ideazione: Josh Schwartz
con: Kristine Frøseth, Charlie Plummer, Denny Love, Jay Lee, Sofia Vassilieva, Landry Bender, Timothy Simons, Ron Cephas Jones, Uriah Shelton
- USA 2019 -
miniserie, ep. I/VIII
durata media: 53’ ca./ep.






Don't go, what's so great about there ?
It's all damn tunnels, newspapers and skin
And meanwhile, you know
I'll be here and you there
with crackheads and assassins and burn victims
and millionaires' sons

— The for carnation —


I

La ragione inconfessabile per la quale si è sempre ricamato attorno all’adolescenza nei modi utili a suggerire una leggendaria aurea aetas risiede nel fatto che chi ne parla l’ha passata da un pezzo - e nemmeno tanto bene, a giudicare dall’aspetto ultimo assunto dalla rispettiva faccia - Ma soprattutto si basa sulla tesi che essa, di per sé, debba essere ricondotta a un periodo per lo più contraddistinto da pensieri eversivi e sottintesi atteggiamenti antagonisti, nemmeno il mondo non fosse poi costituito per una notevole sua parte da quella che J.K.Toole aveva classificato come a confederacy of dunces (un branco di idioti), logica e degna filiazione di legioni di altrettali post-puberi: cretini, ipocriti, profittatori, vili, leccapiedi, et. Un minimo di precauzione, quindi, indurrebbe a tenere a mente l’inconveniente per cui neanche l’adolescenza sfugge a uno dei meccanismi tipici dell’apprendimento e dell’esperienza, quello incline all’equivoco di una rappresentazione idealizzata, legittimamente nostalgica e/o consolatoria, magari, nondimeno falsa quanto pure, oggi come oggi, tenuta in circolo e vezzeggiata da una industria (nel caso, culturale, ohibò) che ha fatto dell’età verde un’esca per tutte le stagioni, ossia il solito imbroglio un tanto al chilo. In realtà, la prima giovinezza rappresenta l’istante in cui una coscienza in formazione si imbatte con l’evidenza che fa coincidere la-scoperta-del-mondo con l’epifania della sua finitezza e della sua gratuità, al di sopra della quale si erge - silenzioso, monumentale e trionfante - l’unico mistero degno di questo nome, quello della Morte, con annessa rassegnazione alla sostanziale inscalfibilità del Male. Proprio su questa direttrice eminentemente letteraria, costruita cioè a partire da un campione umano elevato a epitome di una condizione e in via ulteriore irrobustita dal suo effettivo calco romanzesco impressole a suo tempo (2005) da un esordiente alla scrittura come John Green (autore di altri due testi presto trasferiti sul grande schermo, “Colpa delle stelle”/”The fault in our stars”, nel 2014 e “Città di carta”/”Paper towns”, nel 2015), quantunque con un tenore che - per la temporanea rassicurazione di chi guarda - alterna, ai predetti nuclei tragici, commedia e dramma, momenti di riflessione e parentesi romantiche, scazzi a orologeria e improvvise euforie, si sviluppa un lavoro come “Looking for Alaska”, miniserie in otto episodi (proposta da Hulu, gruppo Disney/NBC Universal in collaborazione con la Paramount Pictures, dopo traversie produttive, traccheggi e rinvii protrattisi sin dall’uscita del libro) centrata sulle vicissitudini di un pugno di liceali accomunati oltreché da uno status sociale e familiare omogeneo - la piccola borghesia provinciale e il proletariato più o meno disfunzionale - da una spiccata sensibilità unita a una non comune per quanto acerba ma tenace diffidenza di classe.


II

L’anno scolastico 2005-2006 per Miles Halter/Plummer - in seguito detto Pudge, adattato come Pancho, in scherzosa antifrasi rispetto alla sua indubbia magrezza - tipo quieto e giudizioso, amante delle biografie e delle ultime parole dei nomi illustri (Oscar Wilde, prima di morire: “O se ne va questa carta da parati o me ne vado io !”), come in cerca del rabelaisiano grande forse a dar risposta a domande che forse risposta non hanno (“Le domande migliori non hanno risposta”, osserva il Prof. Hyde/Cephas Jones. “Ed è proprio per questo che vale la pena farle”), si presenta sotto le duplici e provocatoriamente ossimoriche fogge della conservazione nel rinnovamento: l’una attiene alla decisione di trasferirsi presso la Culver Creek Academy in Alabama da Orlando (Fl) in cui risiede al seguito di genitori spesso sorridenti ma di sollecitudine apprensiva, una metà dei quali, quella incarnata dal padre, ancora si trastulla con la propria antica militanza presso il medesimo istituto rievocando la partecipazione al “più riuscito scherzo che questa scuola ricordi”; l’altro, saldato alla prima, corre sottopelle tipo scossa al tempo piacevole e irritante a ingigantire una voglia di emancipazione ormai non più procrastinabile, fervore concorde allo schiudersi di ipotetici orizzonti inediti. Se, come sostengono gli stessi americani, che non sanno niente ma dissimulano egregiamente - a colpi di mode, tormentoni, etichette, et. - gli amici sono la famiglia che ti scegli, per Miles, una volta arrivato a destinazione e scollatosi a forza dalle residue premure parentali, il dilemma nemmeno si pone, gestito com’è dal caso (ogni studente, secondo regola, divide un alloggio con un pari età o con un senior dello stesso sesso), il quale, per una volta, si mostra però non solo conciliante ma addirittura foriero di grandi trasformazioni, arrivando a rimescolargli l’esistenza da cima a fondo. In primis, infatti, gli affianca come compagno di stanza il vulcanico Chip Martin/Love, logorroico passivo-aggressivo, complessato per via della bassa statura, nonché di cervello fino e sentenziosa ilarità, soprannominato Colonnello per via della indiscussa sua maestria nell’escogitare macchinazioni di varia contundenza da scaricare addosso ai novelli avversari ricchi, privilegiati e stronzi, indicati con disprezzo come i settimana breve (dati gli agi che consentono loro di mollare libri e quaderni per il weekend e tornarsene alle accoglienti magioni avite). A latere, aggiunge al quadro il di chiara origine asiatica Takumi Hikohito/Lee, silenzioso braccio destro del Colonnello, a prima vista distante e sarcastico, esperto di informatica e videogame quanto preziosa calamita di informazioni a spasso per il campus. Infine, tanto per non esimersi dall’assestare almeno un colpo di grazia a circostanza, il già citato caso gli para davanti Alaska Young/Frøseth, che definire bellissima è riduttivo e fuorviante (nella quiete esteriore, la sua naturalezza è affine a quella delle ragazze immortalate da Degas), essendo lei una di quelle creature di cui si ha il bisogno di pensare che da qualche parte esista davvero, vale a dire un concentrato assortito ma di complicata digeribilità di una miriade di controsensi stimolanti epperò problematici: entusiasta e amareggiata, spregiudicata e materna, ciclotimica e oblomoviana, gatta e iena, esotica e triviale, convenzionale e fosforescente, partecipe e manipolatrice, paladina dei diritti femminili come avida collezionista di edizioni economiche recuperate in giro per bancarelle allo scopo di mettere in piedi, prima o poi, una personalissima Biblioteca della Vita. Insomma: proprio ciò che ci vuole (e il suo patronimico, derivante, per il nome proprio, da un lemma aleutino che indica ciò contro cui si frange il mare, così com’è già suona analogo al classico avviso ai naviganti, mentre il cognome pare invece alludere senza infingimenti all’intenzione di riassumere per intero una comune stagione della vita) per fare a tocchetti l’angusto e indifeso microcosmo di una combriccola di sedici-diciassettenni che a malapena ha cominciato a menarselo con regolarità e un qual diletto, in accordo alla fantasia che galoppa spedita verso le muliebri prelibatezze con l’impazienza al seguito. Ciò non fosse a ogni modo sufficiente a disorientare un cuore ingenuo come Miles, ci pensa, da un lato, la rivalità sempre più serrata che divide i figli dei pezzi grossi dalla genìa, giocoforza impulsiva e insofferente, di coloro che la società-più-libera-di-sempre, il celebrato God’s country, prima ignora e di cui poi, prassi insegna, sovente fa volentieri a meno; in mezzo, l’irruzione sulla scena della di ascendenza slava, bionda e dolce, Lara/Vassilieva, contraltare tranquillo e in superficie più malleabile del fulmicotone-Alaska; e, dall’altro - uno dei punti di forza dell’intera operazione - la collocazione en plein air della Culver Creek Academy all’interno di una zona boschiva con tanto di bungalow adibiti a dorm, aule simil giardino d’inverno e incantevole laghetto presidiato da un cigno malmostoso, che accompagna, accarezzandola, l’intera storia entro una dimensione al contempo idilliaca e malinconica, sospesa e presaga (si pensi alle penombre invitanti, agli itinerari furtivi possibili, alle tregue fuori dal tempo), i cui afflati idealisti, le passioni sfrontate o fraintese - a dire spesso non corrisposte - i precoci disinganni e gli atroci imprevisti via via assumono la consistenza struggente del tramonto delle illusioni e del prevalere di quel cauto fatalismo che il cosiddetto buon senso, come colui che non potendo più dare il cattivo esempio si mette a dispensare lungimiranti consigli, suggerisce essere l’unico antidoto all’oltraggio di diventare grandi.


III

La riproduzione serializzata (leggi: industriale) del mondo latamente chiamato teen dovuta, come accennato, all’intendimento del Mercato di passare infine all’incasso dopo lustri spesi ad ammaestrare schiere di giovani all’obbedienza quasi inconscia delle sue schematiche ma ferree leggi, ha nei tempi recenti subito una decisa torsione per cause riconducibili sia alla cronica saturazione di idee e suggestioni sia, e non secondariamente, per un impercettibile ma progressivo slittamento generazionale che a partire dagli albori del nuovo millennio (con i suoi prodromi retrodatabili, volendo, di un decennio abbondante) ha preso a produrre in una non trascurabile percentuale dei ragazzi cresciuti nell’agonia della tarda modernità, assieme alle più prevedibili derive controproducenti e/o vittimistiche (difficilmente evitabili, tutto sommato, in soggetti mitridatizzati al ripetersi dei fallimenti), un moto esteso di meditato fastidio, di astio controllato sebbene non di rado autolesionista, comunque di convinta repulsione, silenziosa ma determinata, di quell’immagine artatamente pacificata nel consumo che l’intera retorica pubblicitaria planetaria aveva cucito loro addosso. Si è assistito, in altre parole, per un verso e per esempio, al rifiorire di un sentire più ricettivo, quanto non necessariamente zavorrato da retaggi ideologici, nei confronti della catastrofe ambientale, sempre lì per porre fine d’imperio ai balletti attendisti e ai negazionismi interessati, esito in apparenza scontato di fronte al trito rimpallo delle responsabilità che si trascina inconcludente nel dibattito pubblico da decenni. Per l’altro, in un ambito più intimo, via via è stato concesso maggiore spazio (o, all’inverso ma il risultato è lo stesso, non si è stati più in grado di arginarne l’avanzamento o, ancora, non si è riusciti a prevederlo, circostanza che in un sistema impegnato un giorno sì e l’altro pure a raffigurare e vendere sé stesso come l’apice della capacità raziocinante, ossia anticipatrice, è un succoso paradosso) a una istanza che alla pretesa di supremazia dell’aberrazione post-darwiniana circa lo strapotere delle prerogative di un teorico più forte, meglio adattato (e chissà se, invece, a rifletterci, solo il più conformista, il più obbediente), ha opposto una linea di comportamento di sicuro tortuosa ma diversamente feconda, disposta al dialogo e all’ascolto dal momento che, in un mondo sempre più percepito come carente di prospettive decorose e praticabili, lo slancio da riscoprire e da assecondare al fine di attribuire uno straccio di valore alla propria avventura (fardello pesante e peculiare di Alaska, tra l’altro, la quale, sulla scorta delle considerazioni indotte da uno dei suoi romanzi preferiti, “Il generale nel suo labirinto”, di Marquez, non fa che domandarsi quale sia il punto di equilibrio, ammesso che esista, tra la brama di vita e l’impulso di morte: “Come farò a uscire da questo labirinto di sofferenza ?”, si chiede, scura in volto), sembra essere rimasto quello dell’autenticità, della sincerità come liminale attestato di saggezza nell’unanime afflizione che sostanzia la vicenda umana, dell’amicizia pura al di là della genetica e delle etnie, stretto in un serrato braccio di ferro con una istintiva e nervosa circospezione, quella che dubita di fronte a princìpi più forti della propria indole, anche a costo della completa emarginazione (per restare a noi: Miles è sì goffo, irrisolto ma è leale. Arriva a dire: “I miei amici sono tutto per me”. Più di ogni altra cosa, non mente. Quando ciò accade, la venialità del suo atto non gli ostacola la risoluzione di pagarne le implicazioni di persona). Tale forma di consapevolezza, che potremmo chiamare estrema, nel senso di collocata un niente al di qua di una ennesima frantumazione dell’Io, ha preso così a riverberarsi nel ritratto costantemente in fieri del mondo adolescenziale trascinandone di conserva il baricentro, grazie a una sorta di inerzia irresistibile, verso strutture narrative e visuali che non solo - ed è ovvio - ne hanno adeguato ai tempi condotte, gerghi e antipatie ma, mano mano, ne hanno rimodellato il paesaggio psicologico e spirituale fino a collocarne lo stato d’animo prevalente in un territorio disadorno ed enigmatico entro il quale, sull’irrequietezza di fondo tipica dell’anagrafe dei suoi protagonisti, si è andata depositando una fredda inquietudine senza nome, l’oscura ombra gemella di una sciagura perennemente incombente sui destini collettivi che, da un lato, ne ha acuito l’attitudine a decifrare i segni di cui quella sciagura è matrice, con implicito irrigidimento nei confronti delle chimere palliative adottate dalle varie propagande per disinnescarne il potenziale destabilizzante; dall’altro, ha vieppiù esaltato la già esistente propensione alla lettura umorale e disillusa dell’attuale transizione politica-economica-sociale, volgendola nella reazione difensiva dell’introspezione spietata e del ripiegamento intransigente (vedi, ad esempio, gli svariati punti di contatto con la claustrofilia degli hikikomori la quale a sua volta, per taluni aspetti, sembra l’approdo naturale della sotterranea ma ramificata diffusione dei sintomi legati alla ADHD-Disturbo da deficit di attenzione/iperattività).



IV

Narrato a ritroso attorno a momenti disparati antecedenti il distacco tra Alaska e i piccoli universi concentrici che pian piano aveva concorso a originare e su cui successivamente si era applicata, ecco che “Looking…” tende già a proporsi, alla luce di quanto finora emerso, come uno degli esperimenti più efficaci per valutare la tenuta e l’aderenza al quotidiano di approcci comportamentali ed esistenziali che percorrono dall’interno - elusivi e contraddittori, dati i tempi - la sfera preadulta, fornendo indizi utili al riconoscimento di una, per non poche sfumature, inedita variante di sapiens giovane delegata suo malgrado a vivere e a esprimersi agli inizi di una nuova fase storica e al volgere di una parabola sociale, quella moderna. In tal senso, risulta persino pregnante, a questo punto, sottolineare che Alaska e compagni sono senza dubbio beffardi, irriverenti, talvolta irresponsabili (omettendo, qui e di proposito, perché meriterebbe una trattazione a parte, la materia oscura costituita dalla sempre più corposa rappresentanza di adolescenti intrappolati in quello che un affabulatore audace come Ellis anni fa avrebbe riassunto, almeno per ciò che attiene una crème indolente e bieca, nel termine nichilismo glamour - strafottenza rimorchio primo della sicurezza economica; irrisoria facilità di accesso alle droghe; sesso talora perverso e desensibilizzato; trasporto umano e compassione, di conseguenza, tendenzialmente inesistenti - ma che adesso, in modo molto più prosaico e su un ordine di grandezza assai più ampio e composito, ha assunto le fattezze del muto sgomento, dell’ignoranza incattivita, dell’efferatezza incurante, tipo quella all’opera nell’estone “Klass”, di Ilmar Raag, del 2007, paradigma consono non foss’altro per ribadire come un certo tipo di nullismo torpido - vessatorio, irriflessivo, compiaciuto - così a suo agio nel pingue ed esausto organismo occidentale, oggigiorno funzioni, quasi senza attrito, a ogni latitudine e in ogni contesto), ma - si diceva - sono pure arguti, curiosi, educati (ci si scusa, di quando in quando, per aver usato un linguaggio scurrile; di preferenza si da del lei agli adulti). E riservati, coinvolti dallo studio (la scuola non è considerata, come cliché vuole, una noiosa perdita di tempo). Ancora: la lettura per loro è sacra, oltreché formativa. Si citano scrittori e poeti (con tutti i limiti del caso - si capisce - ma pure con qualche sorpresa) perché li si è letti sul serio. Si scambiano idee sul Cinema e si organizzano visioni collettive di film (ci rientra, per sovrappiù, anche la fuggevole sbirciata a un porno a mo’ di monito ironico riguardo la riduzione dell’atto sessuale da intermezzo piacevole e coinvolgente a vacuo sforzo meccanico se compiuto senza un briciolo di passione vera). Soprattutto questi quasi ragazzini non sono - o sono sempre meno - arrivisti (non si parla pressoché mai di denaro, nella serie, se non per sottolinearne la palese oscenità circa la sua preoccupante mancanza da un versante della barricata sociale e la sua esagerata disponibilità dall’altro, pur provenendo quasi tutti i componenti della banda da cerchie in cui il denaro circola poco o affatto); forzati dei feticci digitali (Alaska e gli altri non possiedono un cellulare e si mettono davanti a un computer solo lo stretto necessario per assolvere agli obblighi didattici, per ricerche estemporanee o confezionare scherzi all’odiata controparte benestante); ridicoli spaccamontagne, sotto sotto smidollati e fasulli. Condividendo l’opportunità di avere accesso a una istituzione educativa prestigiosa per il tramite di una borsa di studio e non per scorciatoie di censo, riluttano a fiuto alla seduzione esercitata dal potere, arrivando a boicottarlo (il causato naufragio della annuale Festa delle debuttanti è un piccolo gioiello di perfido revanscismo dal basso), o, finanche, a manipolarne l’ansia giustizialista nei modi di un compromesso dal punto di vista etico discutibile ma dettato da un pressante stato di necessità (Alaska condanna all’espulsione i rampolli di due famiglie in vista meritandosi l’appellativo di rat - reso come talpa - onta massima per un allievo della Culver, per mero spirito di autoconservazione, contromossa quasi isterica a fronte dello spauracchio di dover tornare con la coda tra le gambe, qualora al dunque non si fosse mostrata collaborativa con l’Autorità simboleggiata dal supervisore Starnes/Simons, detto l’Aquila, a rimestare nel penoso inferno di ciò che resta della sua famiglia). Chiaro: si potrà obiettare che, con ogni probabilità, la figura appena sbozzata somiglia, per la vistosa mancanza di quei profili trasgressivi o ribellisti da sempre ascritti all’età in oggetto (anche se Alaska e soci ci danno dentro con la bottiglia e col tabacco - Alaska, tra il serio e il faceto, fissando Miles di sottecchi, gli confida: “Voi fumate per piacere. Io per morire” - e non disdegnano affatto il sesso, pur maneggiandolo con perizia e spregiudicatezza compatibili ai relativi vissuti), alla fisionomia di una schiatta di futuri perdenti o, quantomeno, di decorativi e un po’ tristi liberi pensatori, senza difficoltà inghiottiti e con la stessa velocità evacuati dalla sciatteria e dal cinismo dominanti. Nulla può escluderlo. E’ anche vero, però, soprattutto se si getta uno sguardo equanime sul livello corrente dell’aspirazione alla conoscenza e sullo stato del comune senso morale, che difficilmente uno di questi esclusi dal grande gioco dell’affermazione individuale non sarà, fatti salvi passi falsi e inevitabili incoerenze, una persona dagli occhi aperti, esigente a partire da sé stessa, disponibile e - perché no ?, come si augura da sempre un altro scrittore a stelle e strisce, George Saunders, che di sapiens confusi se ne intende - gentile. A stringere: un essere umano migliore (per inciso, uno dei precetti somministrato ad nauseam dal Captain Fantastic/Mortensen alla sua prole di geniali spostati).



V

Come che sia, al di là delle valutazioni di merito che ognuno, in base al proprio discernimento e alle proprie inclinazioni, può formulare, resta comunque assodato, provando di nuovo a ragionare sulle trasformazioni che hanno qualificato il Cinema adolescente nella contemporaneità, come quella sottile linea di continuità che aveva tenuto in tensione - con tutte le ambiguità e le spinte centrifughe connaturate a un genere narrativo proclive, all’interno di una certa ripetitività poggiata sui tormenti della crescita, sul binomio accettazione/discriminazione, a improvvisi scarti tra l’horror, il grottesco, il surreale, la fiaba, il sogno, et. - a partire (le opere seguenti hanno solo il valore di esempio tra i tanti possibili allo scopo di fissare riferimenti di immediata riconoscibilità) dai rancori divenuti epidermici per frustrazioni troppo a lungo represse descritti in un lavoro dimostratosi seminale come “Breakfast Club”/id. di Hughes (1985), l’anarchismo dissacratorio ma accorto di Ferris Bueller, in “Una pazza giornata di vacanza”/“Ferris Bueller’s day off”, sempre di Hughes (1986), con, per dire, la furia livellatrice del JD in “Schegge di follia”/“Heathers” di Lehmann (1988), abbia preso, uno strappo via l’altro, a logorarsi già dal debutto alla regia di Stiller sollecitato dalle fenomenologie premurose quanto acide orecchiate dalle pagine di Douglas Coupland dedicate alla allora generazione X, in “Giovani, carini e disoccupati”/“Reality bites” (1994), per spezzarsi - una volta tra le innumerevoli - nel rigetto disgustato e battagliero scagliato contro la prima giovinezza come parentesi beata, in “Fuga dalla scuola media”/“Welcome to the dollhouse” (1995), di Solondz (a cui quasi si sovrappongono, circa un quarto di secolo dopo, angustie omologhe conformate agli imperativi della Rete, in “Eight grade”/id. - 2018 - di Burnham), giù, fino alla devastazione atona e glaciale dell’”Elephant”/id., di van Sant, del 2003 (a cui, tanto per continuare con le corrispondenze, il summenzionato “Klass” deve, derivativamente, l’impianto di base, ma da cui si discosta per il passo uniforme cadenzato sull’accanimento nel dileggio e il pascersi esaltato dei suoi carnefici nella crudeltà), poi replicata secondo gli spessori insondabili di una apatia se possibile ancor più disperante nel successivo “Dark night”/id., di Sutton (2016). Si apre, cioè - e si testimonia film dopo film, con buona approssimazione a partire dalla metà degli anni Novanta dell’altro secolo - un’ampia ferita in quell’equilibrio fondamentale ma fragile che tiene in contatto il mondo inteso come proiezione e investimento delle energie del singolo in vista di un traguardo massimo raggiungibile, a dire la un po’ altisonante pienezza dell’esperienza, e la fiducia che esso dovrebbe ispirare in relazione alle occasioni rese disponibili per concretizzare quel traguardo. La cornice speculativa ed empirica di riferimento divenuta prevalente su cui tale equilibrio avrebbe dovuto insistere, contrariamente (o, forse, proprio in scia a quel succitato, subdolo fraintendimento sulla prevedibilità risoltosi alla fine nel più risaputo degli azzardi scappati di mano) alle sorti-e-progressive che ne magnificavano a ogni piè sospinto la composizione degli inciampi in un futuro mirifico sempre sul punto di realizzarsi, si è rivelata essere né più né meno che il continente onnicomprensivo, impietoso e insapore del materialismo (ossia degli oggetti, quindi delle merci); dell’accumulazione (ovvero, prima di tutto, del denaro, al tempo stesso mezzo per venire in possesso degli oggetti/merce e scopo, visto che l’enormità della sua presenza si è scoperta tale da proporsi come premessa necessaria e universale per stabilire se e in che misura produrre e consentire l’accesso agli oggetti/merce); dell’indifferenza (nel senso di una disturbante equivalenza tra la merce e l’uomo), al centro del quale l’essere umano medio e, più ancora, la sua versione giovane, non solo stenta a ritrovarsi ma, nella solitudine asettica, a suo modo perfetta, di un meccanismo basato su opzioni di esclusivo stampo quantitativo, si sente abbandonato, tradito, deriso. Da qui lo scetticismo, l’avvilimento ma anche il malanimo e la rabbia che, in particolare, su caratteri presi dai tentativi mai pacifici finalizzati a riporre in qualche modo il proprio affidamento nella vita, non possono che arrecare contraccolpi immediatamente distruttivi oppure orientati alla preservazione ma attraverso contegni fatalisti e consuetudini conservative: passività, allora, auto-esclusione, disamore, variegate forme di sado-masochismo.



VI

La tendenza appena descritta si sviscera e si precisa a partire dagli anni Dieci del nuovo millennio (ricordiamolo: entità cronologica apparecchiata e reclamizzata come il Futuro stesso, ovverosia il luogo del corpo e della mente verso cui dovrebbero confluire tutte le speranze votate alla realizzazione delle utopie riconducibili all’umanità come specie. Per rendersene conto, basta dare una scorsa anche sommaria al taglio e al tono impresso dalle grandi multinazionali di ogni settore economico alle loro campagne pubblicitarie a ridosso del miliare giro di boa), in cui questo trasporto verso il mondo precocemente abortito ma da lui nonostante tutto altrettanto allettato; questa eccitabilità oltremodo snervata quanto ansiosa di aggrapparsi a un appiglio non solo solido ma denso di stimoli e di significati (la patologica dipendenza da Internet di molti adolescenti di tutte le estrazioni in numerosi e autorevoli consessi lamentata, se letta, capovolgendo assunti e conclusioni alla luce di un vaglio che non esclude a priori in quella compulsione la presenza di una caotica, a tratti disperata, ricerca di senso, fornirebbe spunti tutt’altro che banali), assume nella ricostruzione cinematografica le sembianze di una vera e propria rivoluzione interiore, in uno scambio che appare più febbrile e quindi dai contorni più labili tra la presunta normalità che ispira il gesto artistico e l’estro immaginativo che arriva a rimodellare il qui e ora. Messe in scena improntate a uno scabro realismo, alla registrazione di una ordinarietà al limite del dimesso o, per contrasto, prodighe di ridondanze e cromatismi così artificiosi da far pensare più a proiezioni della nevrosi che del desiderio (per misurare lo stato dell’arte di quest’ultimo, in specie di quello femminile, possono tornare utili gli accenti da commedia amara che ne svela i tratti allucinatori, di un’altra serie, “I love Dick”, di Sarah Gubbins e Joey Soloway, dall’omonimo romanzo di Chris Kraus (2017); luoghi poco confortevoli ma comunque eletti a zona franca lontana dal rumore della corsa-dei-topi, dalla frenesia cieca della produzione, dalla sedicente assennatezza e dall’orgoglio ingannevole della vita pratica; momenti spiccioli di conforto tratti solo dalla prossimità di indomabili timidezze; brani musicali mandati a memoria e condivisi come una rivincita (anche “Looking…” vanta la sua brava colonna sonora a cavallo dei generi: The White Stripes, The Strokes, Beck, Black Rebel Motorcycke Club, Bill Withers, Wolf Parade, Modest Mouse, Coldplay, The Hives, Jet, The Darkness, et.); scampoli di attività sportive praticati unicamente per dilatare l’impressione per cui con la solitudine si può anche flirtare; scoraggiamenti talmente vasti da volgersi a volte in una stramba esaltazione, parlano una sola lingua, quella di un vitalismo sconcertato da una dicotomia avvertita come insanabile, oscillante tra un rumore di fondo sintonizzato senza tregua sulla promessa di infinite possibilità a portata di mano, solo da cogliere, e lo stridore dei giorni impassibile nel riaffermarne la fondamentale inconsistenza. Diventa complicato altrimenti cogliere l’esatta valenza, il misto di incertezza e aspettazione, sfiducia e imprevedibili aperture di credito, che anima - tornando a proporre degli esempi anche di non immediata riconducibilità alla galassia teen ma rivelatori per le tipologie di adolescenti in essi tratteggiate - l’ironia tagliente e il piglio caustico delle protagoniste di “Ghost world”/id., di Zwigoff (2001); l’atonia arresa del cuore di Alex che, per una sua sibillina oltranza, si allinea all’opacità indistruttibile del mondo, in “Paranoid Park”/id., ancora di van Sant (2007); lo sforzo compiuto da Nick e Norah di conoscersi - e di amarsi - oltre gli steccati imposti dalla popolarità e dalla appartenenza a comitive impermeabili le une alle altre, nell’omonimo film di Sollett (2008); la tenerezza e l’abbandono colti un istante prima della loro dissoluzione, in “L’amore che resta”/“Restless” (2011), sempre di van Sant. O anche l’amicizia inattesa tra quasi coetanei come prontuario per una educazione lucida alle amarezze che verranno, in “Noi siamo infinito”/“The perks of being a wallflower”, di Chbosky (2012); il coraggio di non arrendersi alla livorosa ottusità spacciata per reputazione in ossequio a un antico lignaggio, in “Beautiful creatures”/id., di La Gravanese (2013); la convinzione avvilita di abbracciare la disgrazia del proprio andazzo randagio, immutabile e umiliante, ma in fondo corteggiato, in “Heaven knows what”/id., dei Safdie (2014). Come pure il tentativo di rimuovere l’angoscia e i suoi fantasmi da quello spaccato sinistro che è la monotonia suburbana, in “It follows”/id. di Mitchell (2014); la forza di recidere i legami affettivi allo scopo di darsi una speranza per il domani, in “Senza lasciare traccia”/“Leave no trace”, della Granik (2018) o, di contro, di tenerli saldi, costi quel che costi, in “Light of my life”/id. di C.Affleck (2019). Ecco che si fa un po’ più chiara, allora, anche la tanto esecrata condotta sdegnosa e rinunciataria, addebitata senza far troppe distinzioni agli adolescenti in quanto tali da un mondo adulto la cui crescente distrazione nei loro confronti - pateticamente intossicata da dosi di concessioni a tutto campo, da un lato, e sbrigativi e isterici richiami all’ordine, dall’altro (per non parlare dell’idiozia insita nello stratagemma di presumere di farseli amici, i ragazzi, anziché ascoltati interlocutori) - durante un arco di tempo che oramai quasi si conta in generazioni, alla fine non ha sortito che un nuovo avvitarsi di posizioni già rivolte alla stanca sopportazione, se non proprio al menefreghismo e al rifiuto. Alaska che rischia l’espulsione dalla scuola pur di non avere più a che fare con un padre che la incolpa - lei bambina - di avere lasciato morire la madre, instillandole un senso di colpa che non la abbandonerà più, non è che il mesto epilogo di una dialettica tra alieni finita ancora prima di cominciare. Parole a vuoto, silenzi imbarazzati, occhiate inerti, sono solo alcune parti del discorso di una grammatica dell’incomprensione che radicalizza in senso emotivo e profondo ciò che la Natura ha tenuto separato nell’orizzontalità elementare del divario anagrafico, con un sovraccarico di patimento e di vergogna per coloro - le donne - che, fermo restando il concetto ricordato anche da Susan Faludi (premio Pulitzer e attivista) secondo cui “non tutte le donne sono la bocca della verità”, per antonomasia rappresentano la personificazione stessa di ogni ipotesi di avvicinamento e di immedesimazione. Per questo non è un caso che un gran numero di personaggi emblematici, posti in rilievo dalla cinematografia odierna, abbia connotati femminili (il che vuol dire, spesso, anche intrecci drammaturgici e contributi registici di uguale provenienza di genere). Alaska, come visto, ma lo stesso si può dire della Maeve di “Sex education”, della Rue di “Euphoria”, della Marianne di “Normal people”, della Autumn di “Never, rarely, sometimes, always” e di tante altre anime così travagliate ma così vive, giovani esseri umani che, all’ancestrale legame segreto con il mondo, uniscono oggi una modernissima e conflittuale familiarità/frizione con il proprio tempo, specchio imperturbabile nel restituire loro l’innegabile ventura di essere abitate da un grumo di inesplicabile solitudine - a conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che il dolore non si ferma mai - senza che ciò però riesca a comprometterne la volontà di guardare comunque oltre, di scommettere, come fa Alaska, su una prossima volta (“to be continued”, sussurra a Miles prima di separarsi da lui), dal momento che, se anche la fine dovesse arrivare - preferibilmente “diretta e veloce”/straight and fast - l’unico nostro vero destino rimane quello di “cambiare forma, dimensione, modo di manifestarci”, lasciando il calcolo, l’utile, la realtà materiale a chi non ha altro.

di Alessandro D'Orazio

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