Little Joe
di Jessica Hausner
con Emily Beecham, Ben Whishaw
Austria, Gran Bretagna, Germania 2019
genere, drammatico, fantascienza
durata, 100'
Che i corpi più delle parole veicolino in modo immediato i significati è un fatto oramai risaputo. Lo affermava il grande filosofo francese Gilles Deleuze, ce lo dice il cinema attraverso l'esistenza di capolavori a cui gli attori si prestano non solo con voce e carisma ma anche in qualità di collettori di segni che nel loro insieme sono in grado di riassumerne il risvolto di un avvenimento, se non addirittura il consuntivo di un'intera vita senza che vi sia bisogno di parlarne. Nell'ambito di una produzione che procede a senso unico, divisa com'è tra film che per colpe non loro faticano a farsi notare ed altri che rischiano di diventare scontati per motivi opposti, "Little Joe" di Jessica Hausner riesce a mantenersi in equilibrio tra i due estremi proprio in virtù della politica dei corpi di cui si è appena detto.
Un fatto tutt'altro che scontato se si considera che "Little Joe" è a tutti gli effetti un'opera di fantascienza, ipotizzando tra le altre cose la possibilità di creare in maniera artificiale un fiore in grado di dispensare felicità e buon umore, previa cure e amore dispensate loro dai fortunati possessori. Una prerogativa, quella di "Little Joe", confermata anche dal twist che mette in moto la tensione, scaturito dalla possibilità che la generosità con cui la pianta reagisce agli stimoli benefici dispensando il miracoloso polline altro non sia che la maniera in cui la stessa mette in atto una sorta di colonizzazione dell'intero pianeta. Alle prese con un plot di stampo hollywoodiano di cui il film possiede anche la matrice linguistica, essendo "Little Joe" girato in inglese e con attori anglosassoni, la Hausner rinuncia sul piano della messinscena alle caratteristiche implicite a una vicenda di portata universale, facendo a meno delle scenografie mastodontiche e della computer graphic tipiche ci certe visioni apocalittiche e preferendo da par suo circoscrivere la vicenda in un universo altero e metodico in cui lo spazio pubblico, costituito dai laboratori dell'istituto di genetica in cui si svolgono le ricerche, lascia di tanto in tanto il posto a quello privato rappresentato dell'abitazione in cui la biologa Alice Woodward vive con il proprio figlio. La donna e il gruppo di persone come lei coinvolte negli sventurati eventi divengono gli elementi principali di un vero e proprio racconto da camera, in cui quello che succede in termini di azione è molto meno importante - e qui sta la prima rottura, forse la più importante rispetto alle convenzioni del genere - rispetto al resto e, dunque, ai non detti e all'inespresso che emergono dalla visione generale del contesto. Non è un caso se gli episodi in cui l'aggressività repressa dei personaggi trova sfogo vengano occultati allo spettatore un attimo prima del loro verificarsi. Così come non è una coincidenza in un quadro emotivo di difficile ricognizione per la ritrosia dei protagonisti a condividere pensieri e sentimenti - a malapena scrutati dalla psicologa durante le sedute a cui Alice si sottopone per cercare di capire se la disaffezione del figlio nei suoi confronti sia causata dalla pianta con cui il ragazzo è venuto a contatto o siano invece frutto delle sue frustrazioni di madre assente e poco incline a esternare baci e carezze - che ad andare oltre l'apparenza dei fatti e a dirci qualcosa di più sulla rassegnata insoddisfazione di uomini e donne siano la postura e l'impassibilità dei personaggi: rigidi e marziali come potrebbero esserlo dei soldati durante una parata militare. Sono infatti i corpi dei personaggi, nella mancanza di peculiarità che li distingua gli uni dagli altri, a diventare l'emblema di un conformismo sociale che non riconosce qualsiasi ipotesi di diversità. Nello snodo finale di una trama peraltro esigua "Little Joe" lo dimostra attraverso la risoluzione degli eventi relativi al percorso esistenziale di Alice, a differenza degli altri personaggi destinata ad attraversare tutti gli stadi di evoluzione della vicenda senza per questo giungere a conclusioni diverse da quelle dei suoi compagni di viaggio. Come si capisce, più che a un classico film di fantascienza contemporanea "Little Joe", alla stregua di "High Life", è piuttosto una riflessione filosofica sulla infelicità dell'uomo e su quanto si sia disposti a sacrificare in termini di libertà per potersene liberare.
Tenendo conto che a un certo punto ogni cosa viene messa in discussione allorché la sceneggiatura ipotizza che i timori di Alice non siano reali ma frutto della sua immaginazione, l'affondo della Hausner diventa ancora più forte, lasciando intendere quanto sia facile in un consesso umano dominato dalla paura e dai sensi di colpa (questo è quello che emerge dall'analisi dei comportamenti dei personaggi) imporre una qualsiasi forma di controllo, a partire da quella dell'autocensura del singolo rispetto ai dati del reale. Se la Hausner lavora di sottrazione per quanto riguarda recitazione e dialoghi, così non succede negli altri comparti, chiamati a supplire alla sistemica mancanza di informazioni dell'apparato dialogico. In tale contesto a diventare fondamentale nella messa in scena dell'alterazione psichica emotiva dei personaggi è allora la sollecitazione sensoriale operata nei confronti dello spettatore. Contribuiscono all'impresa i detour mentali innescati dalla musica dodecafonica oppure la composizione delle immagini volta a sottolineare nella razionalità delle architetture, nella compostezza degli interni, ordinati ma minacciosi, nella artificialità dei colori e nei recessi che di tanto in tanto spezzano la metafisica uniformità delle fonti luminose facendo emergere le crepe di un sistema sociale in cui la forma prevale sulla sostanza. Sfumature e stratificazioni che l'autrice austriaca raggela nell'incedere ipnotico della macchina da presa, rigorosa nell'infrangere con ciclica ricorrenza la fissità del pianosequenza attraverso carrellate laterali e rotazioni panoramiche capaci di porre lo spettatore nelle medesime condizioni dei personaggi, vittime designate del sogno allucinogeno. Presentato in anteprima nel concorso ufficiale della 72sima edizione del Festival di Cannes, "Little Joe" è entrato nel palmarès grazie a Emily Beecham vincitrice come migliore attrice per il ruolo di Alice. Lodevole il recupero di Movies Inspired distributore coraggioso e di qualità.
Carlo Cerofolini
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