van Diemen’s land
di, Jonathan auf der Heide
con, Oscar Redding, Thomas R. Wright, Paul Ashcroft, Arthur Angel, Mark Leonard Winter, Greg Stone, John Francis Howard, Torquil Neilson
genere, drammatico
Australia 2009
105’
… alle prepotenti realtà di quel prodigioso mondo di piante,
di acque, di silenzio. Ma quell’immobile vita non aveva proprio
nulla di pacifico. Era l’immobilità di una forza implacabile che
stia covando qualche imperscrutabile disegno
— J. Conrad —
Assai più che beffardamente, a dire con il retrogusto di una malevolenza irriducibile oltreché imponderabile, la vita può ridursi a un viaggio di avvicinamento alla morte, sebbene questo sia stato intrapreso come gesto estremo di riaffermazione di sé. Tra due capisaldi casuali - un inizio e una fine - a volte la vicenda assume i tratti di una appassionante impresa. Più spesso, il manto che ne avvolge le circostanze non è altro che il sudario sbiadito della mediocrità e dell’indifferenza. Allo stesso modo, non è raro che le fogge da lei acquisite - a mo’ di perfido percorso obbligato - siano quelle truci dell’abiezione e della crudeltà. Dal momento che, in ogni caso, tale prerogativa è comune all’animale umano in quanto specie, non stupirà la collocazione di una delle sue più allusive epifanie ai confini geografici del mondo conosciuto, più di preciso nella Terra di van Diemen (l’attuale Tasmania, così ribattezzata nel 1855 dopo che Abel Tasman, qui giunto nel novembre del 1642, ne aveva intitolato gli orizzonti materiali ad Anthony van Diemen, ai tempi Governatore Generale delle Indie Olandesi Orientali), presso la Colonia Penale di Macquarie Harbour, nell’anno di grazia 1822.
La storia, più o meno ricalcata dall’esordiente auf der Heide con la collaborazione di Oscar Redding alla sceneggiatura su fatti realmente accaduti, si dipana attorno alle figure di otto detenuti - Alexander Pearce/di nuovo Redding, Robert Greenhill/Angel, Alexander Dalton/Winter, Thomas Bodenham/Wright, John Mather/Neilson, Matthew Travers/Ashcroft, William Kennerly/Stone ed Edward Little Brown/Howard - di origine inglese, scozzese, irlandese i quali, in ossequio alla scaltrezza tipica degli imperi, nel caso quello britannico al suo apogeo, contribuiscono obtorto collo, in veste di avanguardie reiette spedite oltremare a scontare in regime di lavori forzati le pene più varie e recidive (“Sono qui per sei paia di scarpe”, sillaba inerte Pearce), al consolidamento delle colonie nuovissime avocate alla Corona nemmeno un sessantennio prima a seguito delle esplorazioni del comandante Cook. L’idea della fuga è perciò un assillo, e tanto più allettante quanto più in apparenza semplice da concretizzare, non esistendo di fatto particolari sistemi di sorveglianza che non siano riconducibili alla monumentalità di un ambiente lussureggiante, vasto e primitivo che ricopre l’avamposto a nome Sarah Island, a mollo nelle acque interne del Pacifico Australe, teatro del racconto. Ecco, dunque, migliaia di alberi poderosi avvinti in strambi amplessi su un letto di smeraldo imbronciato a base di felci, arbusti e muschi, a impedire allo sguardo di aprirsi una strada verso il cielo. A variare il colpo d’occhio intervengono erte ripide che si innalzano all’improvviso su fiumi dal corso spesso impetuoso. E, ancora, vette a cui non sono estranee precipitazioni nevose si alternano a rilievi più dolci ma ingombri di vegetazione; chiazze di terreno piatto, agevoli in lontananza, nascondono acquitrini e recessi melmosi. Ogni centimetro di spazio uniformemente impregnato di una pellicola di umidità assicurata da piogge cicliche e persistenti. Per tutta evidenza, sono il clima e la conformazione dei luoghi, allora, più che la costanza repressiva dell’Autorità, a fissare le condizioni di una sopravvivenza ogni giorno da conquistare e, per contro, di una dipartita sempre un passo dietro le spalle. Consegue che, sin da subito, l’evasione messa a punto dal lacero gruppo di disgraziati (consistente nel sopraffare il custode dell’imbarcazione che di solito li traghetta in una zona di macchia vergine dove l’abbattimento continuativo di tronchi alimenta la nascente industria del legno e puntare verso Est, sede dei meno remoti insediamenti, anche se “There’s nothing out there”, li ammonisce il malcapitato) somigli più a una specie di stranito élan mortel che a un indomito desiderio di libertà (quest’ultimo in effetti più volte negato durante il sovrapporsi delle peripezie da una istanza a più voci finalizzata a un paradossale “tornare indietro”), azzardo temerario che non implicherebbe alcun lascito se il lugubre commento - in gaelico - di Pearce, pronunciato di quando in quando nei toni di una crescente e allucinata incredulità, non si incaricasse di renderne testimonianza: “Io sono un uomo tranquillo… Un uomo tranquillo che non vuole altro che un po’ di whisky nel sangue, una canzone nelle orecchie e una donna nel letto… Avevi dunque il Diavolo dentro quando mi hai portato qui ?… La pioggia sta arrivando”, annota in apertura su un lento movimento avvolgente della mdp a scrutare l’imperturbabilità della foresta aprirsi sul silenzio della baia e delle sue acque grigie come lame rotto solo dalle incombenze schiavili dei galeotti.
In quel tempo senza tempo stabilito dall’alternanza capricciosa degli elementi, le pretese avanzate dal comparto umano ben presto retrocedono a rango di oziosi intenti. Nell’eccedenza di vita vegetale (quella animale essendo pressoché inesistente o alquanto elusiva), nel suo incessante rincorrersi e puntuale ritrovarsi, nel rapporto elementare ma indefettibile fissato da processi chimico-fisici vecchi di millenni a riunire luce, acqua e composti organici in una sorta di unica, immensa creatura, infatti, il lavorìo febbrile ma caotico di esseri già orfani del legame originario con un mondo in perenne trasformazione - maldestramente sostituito da una volontà persuasa dell’ineluttabilità dello sfruttamento a fronte della prospettiva di una equilibrata coesistenza - lascia presto germinare le tossine della follia e della distruzione. Sorprendente risulta, a riguardo, la maniera di accostarsi utilizzata dall’autore a questa che è una materia ricca dal punto di vista simbolico, quindi in potenza passibile tanto di digressioni retoriche che di sbrigative semplificazioni, per non dire di teorici istrionismi stilistici. Al contrario, qui ci troviamo di fronte a un dramma i cui termini di riferimento sono al punto contundenti (lo stato avanzato della cecità dell’homo tecnologicus del XIX sec. nei confronti di un pianeta il cui riflesso nell’immaginazione collettiva stava velocemente virando da dono illuminato della benevolenza divina a nudo campo di applicazione di interessi particolari; il suo individualismo feroce che si svela alleato primo della demenza e dell’abominio, laddove uno spirito sinceramente collaborativo avrebbe almeno risparmiato l’onta dell’ignominia; l’oscuro desiderio di morte che ogni volta, in specie nelle congiunture dirimenti, sembra permearne anche le più ardite intraprese) da suggerire e far preferire la strada dell’approccio obliquo, della suggestione, evocata magari da uno sguardo perduto in una pienezza oramai incomprensibile - quella della voluttà minacciosa, perché mai esaurita nella sua mera evidenza, di uno squarcio, boschivo, fluviale, montano inviolato - così pienamente sé stessa (“Questa cosa che ingrassa su sé stessa…”, prova ad articolare un arreso Greenhill, impossibilitato a capacitarsi) da fagocitare mano mano le parole a disposizione degli uomini per attutirne l’impatto, concedendo d’altro canto tregua solo per laconici commenti intessuti al fuoco di improvvisati bivacchi atti a diluire lo stremo, il disgusto, la fame (definita dal cuore nero Pearce “uno strano silenzio”) o per dar sfogo a pruriti su donne favolose e compiacenti possedute durante chissà quali deliri onanistici da reclusi, in realtà fragili esorcismi messi assieme per provare a scrollarsi di dosso un orrore che non va più via: “Una volta ho visto un ragazzo prendersi duecento frustate”, rammenta il vecchio Little Brown. “Dopo le prime cento, gli è venuta fuori la spina dorsale. Così le altre cento gliele hanno date sul culo. Il sangue usciva come da un rubinetto. Non ci ho nemmeno provato a scappare, dopo quello”. Risulta pertanto coerente, nella sua fatalità, l’efficacia del controsenso che allinea senza attriti, anzi, con una sua perversa innocenza, la progressione idealmente votata alla riconquista di ciò che più preme al genere sapiens, ossia la capacità di piena auto-determinazione, e il suo via via somigliare a una sciagurata e rabbiosa rincorsa verso l’abisso, in relazione alla quale lo scempio ripetuto del cannibalismo (tra l’altro, perpetrato per raptus subitanei, senza distinzione di età, complessione, cricche cameratesche, a comporre, forse, antipatie inconsce generate dallo sfinimento o disforie per più ovvi rancori troppo a lungo repressi) non è che, al contempo, l’impronta più vistosa e la decalcomania in sedicesimo di imminenti e più insaziabili appetiti di cui la Storia aveva cominciato a prefigurare - e a pregustare - l’avvento. In simil guisa, un ordito tematico siffatto non poteva che confidare su una trama visuale di eguale valenza espressiva, in grado cioè di esaltare la componente allegorica all’interno dell’impellenza di quella materica schivando le trappole dei sovraccarichi cromatici e dei generici estetismi. Ancora una volta con gusto e metodo (ribadiamo che è di un esordiente che stiamo parlando), auf der Heide, grazie all’apporto decisivo delle luci e dei colori scelti da Ellery Ryan, arrischia uno scarto, figurativo stavolta, dando origine a un ibrido tra i più seducenti e malsani - perché strepitosamente e inquietantemente vivo - visti di recente, costituito da un compromesso di volumi, ombre, tonalità in equilibrio tra la cupa magnificenza del paesaggismo caro a Caspar D. Friedrich e il concorso di sfumature e lucori di derivazione naturale colti durante il trascorrere delle giornate, in un accostarsi, avvicendarsi e rimescolarsi di grigi, di effusioni bluastre, di repentine opalescenze, fino a lambire per ampie parentesi i chiaroscuri e i riverberi del leggendario verde-nero inseguito, per esempio, da van Gogh. Ciò gli consente di guadagnarsi una qual equidistanza tanto dalla solennità estatica del sublime manierismo malickiano, quanto dal titanismo terragno reso esemplare da Herzog, giungendo ad approssimare, attraverso gli strumenti della finzione, quell’immediatezza tipica del resoconto documentario, unica via, probabilmente, per restituire nel giusto impasto di verosimiglianza e affabulazione il volto terribile dell’avventura.
[Nota: Alexander Pearce, unico sopravvissuto allo svolgersi dei fatti, venne al fine catturato e ricondotto a Macquarie Harbour. Da qui fuggì una seconda volta assieme a un altro detenuto, Thomas Cox, il cui corpo mutilato venne rinvenuto non lontano dalla Colonia Penale. Pierce, di nuovo preso e confinato, venne trasferito a Hobart Town Goal e ivi impiccato il 19 Luglio 1824].
TFK
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