Sound of metal
di Darius Marder
con Riz Ahmed, Olivia
Cooke, Paul Raci
USA, 2019
genere: drammatico
durata: 120’
Un’immersione completa e
totale. Ecco come descrivere “Sound of metal”, forte debutto alla regia di
Darius Marder.
Ruben è un musicista e più precisamente un batterista che, con la propria fidanzata, gira il mondo “in sella” a un camper che è la loro casa. Impegnati in un tour che li vede protagonisti, lui alla batteria e lei alla voce, la coppia cerca di andare avanti in questo modo. Purtroppo, però, un giorno improvvisamente, nel bel mezzo di una serata, Ruben inizia ad avere problemi d’udito. Senza parlarne con nessuno, si reca da un medico che non può far altro che constatare la perdita di udito del proprio paziente. Solo una piccola percentuale, destinata, nel giro di pochissimo tempo, ad azzerarsi completamente, è quella rimasta a Ruben. Un’ipotetica soluzione potrebbe essere quella di procedere con un’operazione, ma, oltre al costo molto elevato, non porterebbe comunque a riacquisire l’udito ormai perduto. Per aiutarlo la fidanzata Lou lo affida alle “cure” di Joe, anch’egli sordo, che si occupa di persone come Ruben. Persone, però, che ritengono comunque che la mancanza di udito non sia un difetto o una cosa da migliorare, ma un “punto di forza” al quale aggrapparsi per vedere la realtà da un altro punto di vista. E proprio questa sarà una chiave importante per Ruben che, anche se a malincuore, accetterà di farsi aiutare, ma anche per lo spettatore che proverà, seppur solamente per le due ore della durata del film, ad immedesimarsi nei personaggi. La bravura di Marder, infatti, risiede proprio in questo. La scelta, in determinati passaggi, di annullare completamente il suono per permettere di farci percepire la realtà così come si trova a percepirla Ruben, è geniale. Il completo annullamento e straniamento dalla realtà che tanto angoscia il protagonista, portandolo a compiere scelte spesso avventate, lo si può comprendere a pieno solamente se si capisce la situazione che lui stesso vive.
Sono tanti i primi piani
che mostrano non solo il batterista, ma anche gli altri personaggi, nel
tentativo di comunicare comunque in qualche modo, che sia inizialmente la forma
scritta, che sia poi la lettura del labiale arrivando alla lingua dei segni. I
numerosi primi piani servono proprio a sottolineare la forza degli sguardi che
sorreggono il tutto. Sguardi che si trovano costretti a vivere una vita per
certi aspetti “diversa”, per svariati motivi. Ma anche, cinematograficamente parlando,
sguardi che talvolta bucano lo schermo e che sono in grado di dire ancora più
delle parole stesse.
Naturalmente da
sottolineare, anche in funzione di quest’ultima analisi, la prova attoriale di
Riz Ahmed, sul quale il regista fa praticamente totale affidamento e che riesce
a fare ben comprendere i vincoli e le “privazioni” ai quali è costretto. La
musica, che è sempre stata tutto per lui, diventa indirettamente la sua nemica.
Prova, all’inizio, a lottare con tutte le sue forze per cercare di andare comunque
avanti in qualche modo, ma si rende subito conto di non esserne in grado.
Quello che era stato il suo habitat e il suo mondo si ribalta all’improvviso e
gli crolla addosso. Tutto si complica e si ritrova senza nessuna certezza. Ed è
interessante riflettere su questo aspetto che pone diversi interrogativi.
Perché non va fatto l’errore di pensare che “Sound of metal” sia soltanto un
film sulla musica e/o sulla perdita dell’udito e su una sorta di processo di
accompagnamento volto all’accettazione di ciò. Il film è in realtà una
riflessione ben più ampia. Si va dai rapporti interpersonali, all’accettazione
di sé, alla ricerca del proprio futuro e della propria strada. Anche se non ci
viene detto praticamente niente a proposito del passato di Ruben o di quello
della fidanzata, si può dedurre che il loro viaggio è stato duro e tosto e che
lui non ha, proprio per questo, nessuna intenzione di mollare.
Sono tanti gli
insegnamenti che si possono cogliere dalla visione di questo film, dagli
atteggiamenti ad alcune intense frasi che smuovono gli animi dei personaggi e
non solo. E a chiusura di tutto Marder regala una scena finale veramente da
brividi che, oltre a fare da contraltare alla narrazione, compensa con la
forse, a tratti, eccessiva durata.
Ultimo elemento da
segnalare è la scelta del titolo. Un titolo con una doppia chiave di lettura,
probabilmente intraducibile in qualsiasi altra maniera, che, a visione
ultimata, strizza l’occhio allo spettatore.
La speranza è, quindi,
quella che il film, fresco di diverse candidature, riesca a portarsi a casa
almeno una statuetta ai prossimi Oscar.
Veronica Ranocchi
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