The Gray Man
di Anthony Russo e Joe Russo
USA, 2022
genere: thriller, azione
durata: 122'
Reduci dagli esistenzialismi di Cherry – Innocenza perduta i fratelli Russo tornano sui propri passi confezionando un film, The Gray Man, che si rifà ai pregi e ai difetti dell’ultimo cinema blockbuster. Protagonista del film, Ryan Gosling vi figura anche in veste di brand dell’intera operazione. La recensione di The Gray Man.
Abituale nel cinema d’autore, è più difficile che il prologo di un film mainstream risulti in qualche modo indicativo del resto della storia. The Gray Man diretto Anthony e Joe Russo è l’eccezione che conferma la regola non tanto dal punto di vista dei contenuti, peraltro piuttosto scontati nel raccontare la caccia a un agente segreto Sierra Six, (interpretato da Ryan Gosling) che assomiglia a migliaia di altri già visti sullo schermo, quanto sul piano della forma. Votato a realizzare il massimo della spettacolarità contemporanea attraverso uno shock acustico visivo che non dà tregua allo spettatore della sala (dove il film è visibile prima dell’uscita su Netflix il 13 luglio), The Gray Man inizia in maniera emblematica, con il colloquio tra il protagonista e il suo reclutatore all’interno della prigione dove il primo sta scontando l’omicidio del genitore.
La scena è organizzata in maniera classica, con i due
uomini seduti ai lati opposti del tavolo intenti a valutare i termini del patto
che farà di Six un agente sotto copertura: l’immobilità espressiva dell’uno e
dell’altro fatta apposta per sottolineare l’importanza di quel momento.
A far la differenza nel micro racconto appena illustrato è la scelta fotografica: in particolare la volontà di illuminare la scena quanto basta per lasciare i volti degli attori in una penombra che comunque non impedisce la restituzione della loro fisiognomica.
Se la soluzione formale di cui abbiamo detto è il modo
scelto dai fratelli Russo per alludere al titolo del film, ovvero a quella zona
grigia in cui si muove l’agente segreto protagonista della storia, ancora più
significativo è il fatto che nella scena seguente, collocata 18 anni dopo, il
volto di Gosling non sia per nulla invecchiato, apparendo altrettanto giovane
come lo era stato nella sequenza precedente. Nel giro di qualche minuto The
Gray Man svela così le proprie carte, e cioè quelle di rinunciare da lì in poi
a qualsiasi tipo di verosimiglianza, venendo meno in certi frangenti persino
alla coerenza interna del suo universo a favore di un’esplosione sensoriale il
cui unico scopo è quello di non far pensare lo spettatore. Così facendo i
presunti difetti diventano minuzie all’interno di un mondo in cui a contare è
solo la cinetica dei corpi, con la frammentazione spazio temporale e la
convulsione delle immagini volte ad aumentare la percezione del ritmo
irrefrenabile imposto alla narrazione.
A essere travolto dalla iperbolica costruzione della messinscena non è solo lo spettatore, ma anche ciò che resta delle interpretazioni attoriali, qui completamente svuotate di qualsiasi significato che non appartenga alle possibilità del corpo di adattarsi (anche grazie al sapiente uso degli effetti digitali) alla frenesia del girato e a una durata, dilatata al massimo delle possibilità per prolungare l’agone dei singoli combattimenti. Parlare di corpi invece che di persone è in questo caso non un vezzo critico, ma la realtà dei fatti (fumi, velocità d’azione e tipologia d’illuminazione concorrono a una vera e propria rarefazione dell’elemento umano), perché di Ryan Gosling in questo caso interessa quasi esclusivamente l’immaginario iconico (forgiato in maniera decisiva da Blade Runner 2049) e molto meno il talento d’attore. Alla stessa stregua è l’impiego della costar Chris Evans su cui però si riversa la curiosità dei fan, desiderosi – almeno loro – di vedere come se la cava l’attore americano nell’inusuale ruolo di Villain.
Conosciuti per aver diretto alcuni dei più celebrati
blockbuster della Marvel i fratelli Russo, reduci da Cherry – Innocenza perduta
ritornano sui loro passi lasciando perdere romanzo di formazione e tormenti
giovanili per lasciarsi andare nell’ennesima corsa cinematografica in cui
azione e ipertrofia motoria sono privilegiate alla ragione delle idee. Di
sicuro per lo spettatore c’è il fatto di tagliare il traguardo assieme a loro.
Più incerto è invece il piacere della partecipazione.
Carlo Cerofolini
(Recensione pubblicata su Taxidrivers.it)
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