Blitz
di
Steve McQueen
con
Saoirse Ronan, Elliott Heffernan, Harris Dickinson
USA,
UK 2024
genere:
guerra, drammatico
durata:
120’
Preceduto
da "Occupied City" il nuovo film di Steve McQueen sembra nascere come
reazione al penultimo lavoro del regista inglese. Ambientato nella Londra del
1940, quella messa a ferro e fuoco dai bombardamenti della famigerata
Luftwaffe, l'aviazione militare tedesca che tanto contribuì alla riuscita della
cosiddetta "guerra lampo", "Blitz" (almeno all'inizio) non
si perde in chiacchiere portandoci nell'inferno di fuoco causato dall'azione
dei bombardieri nemici non prima di aver contestualizzato il periodo storico
con una veloce didascalia che oltre a fissare il periodo dei fatti si prende
briga di spiegare allo spettatore il significato etimologico della parola
scelta per dare il titolo al film.
La
volontà del qui e ora con cui McQueen decide di romanzare la Storia,
ricostruendola con la dovizia di particolari tipica dei film in costume, sembra
quasi volersi vendicare della priorità del fuoricampo di "Occupied
City" in cui la Amsterdam occupata dall'esercito nazista veniva rievocata
per interposta persona, senza ricorrere ai materiali d'archivio e con le
immagini della città dei nostri giorni volte a suggerire una continuità dei
fatti di ieri con quelli di oggi.
Pur
rimanendo fedele all'idea di un cinema capace di mettere in discussione la
Storia ufficiale, rileggendola dal punto di vista degli umiliati e offesi, il
regista inglese decide di rinunciare al proprio côté artistico e, dunque, alla
capacità della componente visiva di farsi carico di ciò di cui non si può
parlare per gettarsi a capofitto in un racconto di guerra realizzato in modo da
corrispondere nella maniera più fedele possibile al modo di pensare e di
guardare il mondo di personaggi vissuti quasi un secolo fa.
Per
farlo McQueen rinuncia alla metafisica del racconto che era stata il punto di
forza di war movie come "Dunkirk" e "1917" (pensiamo al
rovesciamento operato da Christopher Nolan che fa della guerra il personaggio
principale del suo film e a Sam Mendes, capace di rileggere il primo conflitto
mondiale alla luce della bellicistica contemporanea, immaginando le azioni
delle artiglierie nemiche con un impatto simile a quello delle nuove tecnologie
impiegate sui campi di battaglia contemporanei) a favore di una messinscena che
esaurisce sé stessa nella saturazione dell'elemento visivo e dialogico.
Al
contrario di altre volte McQueen crede così poco alla possibilità d'astrazione
dello strumento cinematografico da sentire il bisogno di puntellare ogni
fotogramma con un'overdose di informazioni che finiscono per togliere ai
personaggi la propria autonomia.
Un'evidenza
che risalta soprattutto nel pensiero che sta dietro alla costruzione narrativa,
poggiata su un percorso ad ostacoli - simile a quello dei videogame - dove il
ritorno a casa del piccolo George (fuggito dalla campagna in cui la madre l'ha
spedito per evitargli i rischi dei bombardamenti nemici) diventa occasione per
inanellare una moltitudine di "sfortunati eventi" raccontati come si
farebbe in una serie, con le tappe del viaggio scandite da altrettanti racconti
autoconclusivi.
Steve
McQueen adotta dunque un modello popolare in linea con le premesse del progetto
a cui però viene a mancare la durata necessaria per un'efficace resa
drammaturgica. Costretto a condensare la vicenda in meno di due ore la
progressione di "Blitz" è tutta esteriore, legata a una ripetizione
dei fatti che non riesce a essere accompagnata da un adeguato sviluppo
psicologico dei personaggi qui ridotti a pedine nelle mani di un demiurgo
esterno.
Abituato a raccontare
personaggi fuori dagli schemi, McQueen non si smentisce neanche in questa
occasione perché tutti i protagonisti, nessuno escluso, portano sulla propria
pelle le stimmate di una diversità che nei film del regista inglese sono da
sempre motore della storia. A differenza di altri lavori, però, in
"Blitz" tutto è destinato a rimanere in superficie come spunto per
tratteggiare un racconto tanto edificante quanto enfatico (per l'insistenza con
cui il regista continua a frapporre ostacoli tra George e la sua meta) in cui
all'autore sembra interessare più che altro il sottotesto razziale e
autobiografico (il bambino è figlio dell'amore tra Saoirse Ronan e un ragazzo
nero), in cui la visione progressista del mondo è destinata a trionfare non
prima di aver fatto i conti con una sfilza incredibile di soprusi e
discriminazioni. In questo senso poco possono fare in termini di emozioni la
pur brava Ronan e, in un ruolo che sarebbe piaciuto a Charles Dickens, il
giovanissimo Heliot Heffernan; per non dire di Paul Weller tornato sul grande
schermo per interpretare un personaggio che si perde lungo il percorso della
storia. La decisione da parte di Apple di farlo uscire direttamente in
piattaforma potrebbe essere anche la conseguenza di una riflessione sulla
debolezza del film.
Carlo Cerofolini
(recensione pubblicata su ondacinema.it)