domenica, gennaio 19, 2025

OH, CANADA - I TRADIMENTI

Oh, Canada - I tradimenti

di Paul Schrader

con Richard Gere, Uma Thurman, Jacob Elordi

USA, 2024

genere: drammatico

durata: 91’

Una storia che raccoglie più storie al suo interno. Il nuovo film di Paul Schrader, Oh Canada, sembra dirci proprio questo grazie anche a due protagonisti che si alternano per dar vita allo stesso personaggio.

Come da sempre ci ha abituati, lo sceneggiatore, tra i tanti, di Taxi Driver, impregna la sua opera di dialoghi che iniziano fin dalla prima scena nella quale vediamo già la fine della storia, spiegata e anticipata da una voce fuoricampo che continua poi ad accompagnarci per tutto il tempo del film.

La storia è apparentemente molto semplice: Leonard Fife (interpretato da un Richard Gere a tratti invecchiatissimo, sul letto di morte, a tratti molto più giovane, ma anche da Jacob Elordi per la sua versione da adolescente e giovane adulto) è un ex documentarista che viene invitato a raccontare la propria vita e le proprie esperienze lavorative e non davanti a una troupe di giovani che vogliono documentare il modus operandi di quello che loro definiscono un modello da seguire. L’unico obbligo che l’uomo impone è quello di avere sempre accanto la moglie Emma (Uma Thurman) come se si trattasse di una confessione.

    Ne ho fatto una carriera tirando fuori la libertà agli altri.

Con questa frase Leonard tenta di dare un senso ai suoi ricordi confusi, offuscati, talvolta falsi o errati. Perché molto spesso quello che vediamo noi spettatori, insieme alla moglie e agli intervistatori, è qualcosa di non ben definito. L’intento di Schrader è quello di raccontare un passato vissuto, ma anche un passato sperato e bramato, provando a plasmare ciò che è stato. Arrivato a un’età tale da non consentire voli iperbolici nel futuro, quello che resta, al regista e al suo personaggio, è ancorarsi a un passato denso di accadimenti e trasformarlo in qualcosa di diverso. Quello che ci troviamo di fronte, quindi, è una ricostruzione non del tutto autentica, che mescola realtà e finzione e che, quindi, porta a confondere non solo il pubblico, ma anche lo stesso Leonard che non riesce nemmeno a confutare la tesi della moglie o degli altri.

    Quando non hai più un futuro ti resta solo il passato.

In realtà la confusione che aleggia durante tutta la narrazione, sia quella del presente, sia la ricostruzione del passato, è una confusione dettata dal fatto che tutto quello che vediamo, sentiamo o ascoltiamo non è quello che sembra. Perché Leonard sceglie di fuggire oltre il confine canadese per evitare la leva negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam? C’è forse qualcosa che non ha mai raccontato, né alla moglie, né a nessun altro e che, in qualche modo, ha voluto tenere nascosto anche a sé?

Al di là della (ri)costruzione della sua vita passata, a essere assente in Oh, Canada è anche un legame diretto tra i due interpreti di Leonard Fife. Da una parte abbiamo Richard Gere e dall’altra Jacob Elordi. Se il primo è l’uomo che cerca di tenere le redini dei suoi ricordi e delle sue avventure, il secondo è quello che li interpreta, giusti o sbagliati che siano. E si tratta di due fisicità e di due approcci alla vita e al mondo molto diversi e anche distanti. Probabilmente scelti proprio per differenziare la visione che lo stesso Leonard ha della vita, o almeno della visione che vuole avere di tutto ciò che lo circonda (non a caso, infatti, in alcune sequenze Schrader opta per una versione cinquantenne di Richard Gere senza chiamare in causa il giovane Elordi).

Schrader fa un’operazione che ha, quasi, il sapore di un saluto con un film dentro il film e tutto ciò che ne deriva. Anche perché tutto inizia proprio con la preparazione della location e della videocamera che andrà a immortalare l’ultima intervista del regista. Tutto in maniera pulita, con ogni gesto accompagnato dalla musica e dai titoli di testa fino al primo potente primo piano del protagonista, come a volerlo incorniciare al centro della scena, a prescindere da tutto e da tutti. È di lui che si parlerà, è lui che parlerà, è lui che sarà il filo conduttore della narrazione, sia essa a colori o in bianco e nero. È lui che dovrà mettersi a nudo davanti allo schermo, raccontando e raccontandosi.

Se anche Leonard, come tanti personaggi del regista sceneggiatore, nasconde malessere e contraddizioni, il suo corrispettivo diventa il film stesso, Oh, Canada, che gli permette di dimostrare, ancora una volta, come il cinema sia in realtà uno strumento ambiguo, soggettivo e spesso privo di una verità assoluta e universale.


Veronica Ranocchi

giovedì, gennaio 09, 2025

LE CLASSIFICHE DE I CINEMANIACI 2024

 Le classifiche de I Cinemaniaci 2024

Carlo Cerofolini


  1. Anora (Sean Baker)
  2. La Zona d’interesse (Jonathan Glazer)
  3. The Beast (Bertrand Bonello) 
  4. Another End (Piero Messina)
  5. Dune - Parte 2 (Denis Villeneuve)
  6. Dostoevskij (Damiano e Fabio D’Innocenzo)
  7. Vermiglio (Maura Delpero)
  8. Il gusto delle cose (Trần Anh Hùng) 
  9. Upon Entry - L’arrivo (Alejandro Rojas, Juan Sebastian Vasquez)
  10. La Terra Promessa (Nikolaj Arcel)
  11. Civil War (Alex Garland)
  12. Hit Man - Killer per caso (Richard Linklater)  
  13. Bestiari, Erbari, Lapidari (Massimo D'Anolfi, Martina Parenti)
  14. I delinquenti (Rodrigo Moreno)
  15. Sulla Terra Leggeri (Sara Fgaier)
  16. Quasi a Casa (Carolina Pavone)
  17. La Sala professori (Ilker Katak)
  18. Perfect Days (Wim Wenders)
  19. Quell’estate con Irene (Carlo Sironi)
  20. Past Lives (Celine Song)

-Migliore regia: Jonathan Glazer (La Zona d’Interesse)

-Miglior attore: Filippo Timi (Dostoevskij)

-Migliore attrice: Mikey Madison (Anora)

-Migliore sceneggiatura: Nikolaj Arcel, Anders Thomas Jensen (La terra promessa)

-Migliore Colonna Sonora: Coca Puma (Quasi a casa

-Miglior Fotografia: Greig Fraser (Dune - Parte 2)

-Montaggio: Massimo D’Anolfi, Martina Parenti (Bestiari, Erbari, Lapidari)

-Rivelazione: Maria Camilla Brandenburg (Quell’estate con Irene), Maria Chiara Arrighini (Quasi a casa)

-Opera Prima: Sulla terra leggeri (Sara Fgaier)


Veronica Ranocchi


  1. Vermiglio (Maura Delpero)
  2. Il ragazzo e l'airone (Hayao Miyazaki) 
  3. Anora (Sean Baker)
  4. Perfect Days (Wim Wenders)
  5. The Holdovers (Alexander Payne)
  6. La zona d'interesse (Jonathan Glazer)
  7. Il gusto delle cose (Trần Anh Hùng) 
  8. Past Lives (Celine Song)
  9. Il robot selvaggio (Chris Sanders)
  10. La Terra Promessa (Nikolaj Arcel)
  11. Dune - Parte 2 (Denis Villeneuve)
  12. Hit Man - Killer per caso (Richard Linklater)  
  13. Il corpo (Vincenzo Alfieri)
  14. Inside out 2 (Kelsey Mann)
  15. Tatami - Una donna in lotta per la libertà (Zar Amir Ebrahimi, Guy Nattiv)
  16. Civil War (Alex Garland)
  17. Parthenope (Paolo Sorrentino)
  18. Flow - Un mondo da salvare (Gints Zilbalodis)
  19. The Substance (Coralie Fargeat)
  20. Io e il secco (Gianluca Santoni)


-Migliore regia: Jonathan Glazer (La Zona d’Interesse)

-Miglior attore: Sebastian Stan (The Apprentice)

-Migliore attrice: Mikey Madison (Anora) - Sandra Huller (La zona d'interesse)

-Migliore sceneggiatura: Coralie Fargeat (The Substance)

-Migliore Colonna Sonora: Trent Reznor, Atticus Ross (Challengers

-Miglior Fotografia: Daria D'Antonio (Parthenope)

-Montaggio: Vincenzo Alfieri (Il corpo)

-Rivelazione: Dominic Sessa (The Holdovers)

-Opera Prima: Io e il Secco (Gianluca Santoni)

lunedì, gennaio 06, 2025

BLITZ

Blitz

di Steve McQueen

con Saoirse Ronan, Elliott Heffernan, Harris Dickinson

USA, UK 2024

genere: guerra, drammatico

durata: 120’

Preceduto da "Occupied City" il nuovo film di Steve McQueen sembra nascere come reazione al penultimo lavoro del regista inglese. Ambientato nella Londra del 1940, quella messa a ferro e fuoco dai bombardamenti della famigerata Luftwaffe, l'aviazione militare tedesca che tanto contribuì alla riuscita della cosiddetta "guerra lampo", "Blitz" (almeno all'inizio) non si perde in chiacchiere portandoci nell'inferno di fuoco causato dall'azione dei bombardieri nemici non prima di aver contestualizzato il periodo storico con una veloce didascalia che oltre a fissare il periodo dei fatti si prende briga di spiegare allo spettatore il significato etimologico della parola scelta per dare il titolo al film.

La volontà del qui e ora con cui McQueen decide di romanzare la Storia, ricostruendola con la dovizia di particolari tipica dei film in costume, sembra quasi volersi vendicare della priorità del fuoricampo di "Occupied City" in cui la Amsterdam occupata dall'esercito nazista veniva rievocata per interposta persona, senza ricorrere ai materiali d'archivio e con le immagini della città dei nostri giorni volte a suggerire una continuità dei fatti di ieri con quelli di oggi.

Pur rimanendo fedele all'idea di un cinema capace di mettere in discussione la Storia ufficiale, rileggendola dal punto di vista degli umiliati e offesi, il regista inglese decide di rinunciare al proprio côté artistico e, dunque, alla capacità della componente visiva di farsi carico di ciò di cui non si può parlare per gettarsi a capofitto in un racconto di guerra realizzato in modo da corrispondere nella maniera più fedele possibile al modo di pensare e di guardare il mondo di personaggi vissuti quasi un secolo fa.

Per farlo McQueen rinuncia alla metafisica del racconto che era stata il punto di forza di war movie come "Dunkirk" e "1917" (pensiamo al rovesciamento operato da Christopher Nolan che fa della guerra il personaggio principale del suo film e a Sam Mendes, capace di rileggere il primo conflitto mondiale alla luce della bellicistica contemporanea, immaginando le azioni delle artiglierie nemiche con un impatto simile a quello delle nuove tecnologie impiegate sui campi di battaglia contemporanei) a favore di una messinscena che esaurisce sé stessa nella saturazione dell'elemento visivo e dialogico.

Al contrario di altre volte McQueen crede così poco alla possibilità d'astrazione dello strumento cinematografico da sentire il bisogno di puntellare ogni fotogramma con un'overdose di informazioni che finiscono per togliere ai personaggi la propria autonomia.

Un'evidenza che risalta soprattutto nel pensiero che sta dietro alla costruzione narrativa, poggiata su un percorso ad ostacoli - simile a quello dei videogame - dove il ritorno a casa del piccolo George (fuggito dalla campagna in cui la madre l'ha spedito per evitargli i rischi dei bombardamenti nemici) diventa occasione per inanellare una moltitudine di "sfortunati eventi" raccontati come si farebbe in una serie, con le tappe del viaggio scandite da altrettanti racconti autoconclusivi.

Steve McQueen adotta dunque un modello popolare in linea con le premesse del progetto a cui però viene a mancare la durata necessaria per un'efficace resa drammaturgica. Costretto a condensare la vicenda in meno di due ore la progressione di "Blitz" è tutta esteriore, legata a una ripetizione dei fatti che non riesce a essere accompagnata da un adeguato sviluppo psicologico dei personaggi qui ridotti a pedine nelle mani di un demiurgo esterno.

Abituato a raccontare personaggi fuori dagli schemi, McQueen non si smentisce neanche in questa occasione perché tutti i protagonisti, nessuno escluso, portano sulla propria pelle le stimmate di una diversità che nei film del regista inglese sono da sempre motore della storia. A differenza di altri lavori, però, in "Blitz" tutto è destinato a rimanere in superficie come spunto per tratteggiare un racconto tanto edificante quanto enfatico (per l'insistenza con cui il regista continua a frapporre ostacoli tra George e la sua meta) in cui all'autore sembra interessare più che altro il sottotesto razziale e autobiografico (il bambino è figlio dell'amore tra Saoirse Ronan e un ragazzo nero), in cui la visione progressista del mondo è destinata a trionfare non prima di aver fatto i conti con una sfilza incredibile di soprusi e discriminazioni. In questo senso poco possono fare in termini di emozioni la pur brava Ronan e, in un ruolo che sarebbe piaciuto a Charles Dickens, il giovanissimo Heliot Heffernan; per non dire di Paul Weller tornato sul grande schermo per interpretare un personaggio che si perde lungo il percorso della storia. La decisione da parte di Apple di farlo uscire direttamente in piattaforma potrebbe essere anche la conseguenza di una riflessione sulla debolezza del film.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

domenica, gennaio 05, 2025

DIAMANTI

Diamanti

di Ferzan Ozpetek

con Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Vanessa Scalera

Italia, 2024

genere: drammatico, commedia

durata: 135’

Gli elementi ricorrenti del cinema di Ozpetek ci sono: c’è il cast corale, c’è la grande tavolata, ci sono i volti che hanno lavorato con il regista negli anni. Ma, oltre a questo, ci sono anche delle novità e delle differenze che, se inizialmente sembrano dare una nuova luce, con l’andare avanti della storia si perdono nelle innumerevoli strade che Diamanti sembra voler percorrere.

Un escamotage di metacinema è quello che sceglie il regista turco ormai italianizzato per far addentrare lo spettatore all’interno della sua nuova perla. Un pranzo insieme a tutte le sue attrici (e un paio di attori) è il modo migliore per Ferzan Ozpetek per introdurre sia loro che noi a una storia che trasuda cinema da tutti i pori, ma che, come un bel vestito pomposo, rischia anche, talvolta, di perdersi.

Da un pranzo insieme con una tavola imbandita il regista inizia a spiegare ai presenti il suo prossimo film, cominciando ad assegnare i primi ruoli e fornendo i vari copioni. Improvvisamente veniamo trasportati negli anni ’70, all’interno di una sartoria che si occupa prevalentemente di costumi per teatro e cinema. A capo della sartoria in questione ci sono due sorelle, Alberta e Gabriella Canova (Luisa Ranieri e Jasmine Trinca), per le quali lavora un nutrito gruppo di donne. Tra chi si occupa di tingere le stoffe a chi le taglia, passando per chi le cuce e crea i modelli, tutte sono dedite alla propria occupazione, entusiaste e felici di lavorare insieme per progetti di prestigio. Se, però, possono contare l’una sull’altra sull’ambiente di lavoro, non possono fare lo stesso a casa dove ognuna sembra avere delle problematiche importanti. In questo senso anche i colori, sgargianti, luminosi e quasi magici, all’interno della sartoria, si incupiscono e scuriscono nel momento in cui ognuna di loro varca la soglia della propria abitazione. Tra chi deve fronteggiare problemi economici, a chi ha (o ha avuto) problemi con i figli, passando per chi ha a che fare con la violenza fisica, ogni donna diventa sola e fragile.

Un parterre di grandi attrici che si susseguono sullo schermo per dare vita a un abito, metafora del cinema stesso, dove ogni elemento diventa fondamentale per la buona riuscita del prodotto finale. Diventano necessarie le mani di ognuna delle protagoniste perché, come insegna Alberta all’inizio non esiste un io, esiste un noi. Eliminando anche un solo elemento il risultato finale non sarà mai lo stesso di quello pensato. Bianca Vega (la costumista premio Oscar interpretata da una Vanessa Scalera in stato di grazia) si (af)fida a queste donne che riescono, meglio di chiunque altro, a interpretare i suoi sogni, incarnati da dei bozzetti di costumi per un esigentissimo regista (Stefano Accorsi). Loro sono le uniche in grado di riuscire in un’impresa del genere perché, come i diamanti che andranno (metaforicamente e non) a comporre il maestoso abito finale, sono unite e sanno di poter contare l’una sull’altra. Ma sono anche diamanti intesi come qualcosa di prezioso, resistente e durevole al pari dello spirito femminile.

Al di là di mostrare situazioni purtroppo ancora attuali di disagio e difficoltà, le richieste da parte di alcune di loro (Paolina-Anna Ferzetti ed Eleonora-Lunetta Savino) di nascondere beni preziosi vanno oltre la semplice amicizia. Quella delle sorelle Canova è una sartoria basata sulla fiducia di tutte le donne che, volenterose, hanno deciso di lavorarci e dare anima e cuore al loro mestiere.

Se al centro ci sono le donne e la loro visione del mondo, Ozpetek ritaglia un piccolo spazio anche per alcuni uomini, rovesciando, però, i tradizionali cliché che li vedono in situazioni opposte a quelle mostrate dal film.

    Noi siamo collegate alle stelle, per quello sentiamo tutto.

Potrebbe essere la massima che riassume un film corale, dove, però, ogni personaggio è in grado di delinearsi perfettamente e concretamente, senza prevaricare su nessuno, ma mostrandosi completamente. Rappresentate e incarnate anche dai colori degli abiti che indossano (nella sartoria tutte uguali, ma fuori ognuna con il proprio eccentrico stile) le donne di questo film riescono a essere i perfetti pezzi di un puzzle il cui risultato finale è l’essenza stessa del cinema, come tenta di spiegare il regista con le sue apparizioni saltuarie e la sua conclusione, però non del tutto perfetta.


Veronica Ranocchi

sabato, gennaio 04, 2025

KRAVEN - IL CACCIATORE

Kraven – Il cacciatore

di J.C. Chandor

con Alessandro Nivola, Ariana DeBose, Russell Crowe, Aaron Taylor-Johnson

USA, 2024

genere: azione, sci-fi

durata: 127’

Sarebbe facile parlar male di un film come "Kraven - Il cacciatore", alla pari di altri usciti per conto della Sony, destinato a deludere le attese dei fan. Detto che ciclicamente generi e formati cinematografici, come succede a prodotti e forme d'arte, sono destinati ad attraversare alti e bassi non c'è dubbio che i film di Supereroi, dopo il clamoroso successo della trilogia degli Avengers, - culminata con il trionfo al botteghino di "Avenger: Endgame"-, stiano attraversando un momento di stanca, innanzitutto creativa, laddove la volontà di architettare una cesura tra il prima e il dopo, rappresentato dall'ultimo film dei Vendicatori, dando il via a un vero e proprio restyling di storie, attori e personaggi, non ha ancora dato i frutti sperati, tant'è che la "Casa delle idee" è tornata all'usato mettendo in cantiere un nuovo lungometraggio dedicato al super gruppo.

In acque peggiori versa la Sony i cui film - eccezion fatta per la trilogia di "Venom" - dedicati ai villain dell'Uomo Ragno hanno fatto di tutto per tenere i fedelissimi del genere lontani dalle sale. In tale contesto lo slittamento dell'uscita nelle sale di "Kraven - Il cacciatore", ultimo lungometraggio della casa di produzione giapponese rinviato di un anno rispetto alla data prevista non era stato certo un buon segno.

Certo è che film di J.C. Chandor ("Margin Call", "1981: Indagine a New York") si affidava a credenziali produttive già note non solo nella scelta di un regista/autore capace di bilanciare con uno sguardo "indipendente" la presenza dei cliché necessari alla riconoscibilità del format, ma anche a quella di coinvolgere nel progetto - come già successo in passato con Antony Hopkins, Michael Douglas, Harrison Ford e questa volta con Russell Crowe - icone cinematografiche incaricate di trasmettere al film un'appeal trasversale in grado di intercettare anche un pubblico più adulto. Al contrario, a interpretare il personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko nel lontano 1964 era stato chiamato Aaron Taylor Johnson ancora in cerca del ruolo della vita e qui chiamato a dare vita all'eccezionalità di un personaggio costretto dopo il suicidio della madre a fare i conti con un padre padrone (Crowe) che vorrebbe crescerlo a sua immagine e somiglianza e con il fratello più piccolo che per tale ragione ne patisce carisma e personalità.

Questo per dire di come "Kraven - Il cacciatore" avesse almeno in premessa l'intenzione di volare alto facendo dei legami di sangue e del dissidio tra padri e figli una specie di tragedia shakespeariana in cui l'azione doveva essere conseguenza di quei conflitti. Cosa che così non è perché a venire meno all'intento è proprio la personalità tormentata dei personaggi, troppo poco elaborata per creare una vera drammaturgia, e con la figura del diavolo, incarnata da un Russel Crowe ai "minimi termini", ridotta a comparsa quando invece avrebbe dovuto essere - anche nel fuori campo - il fantasma che aleggia sulla storia. In questo modo la differenza tra bene e male e l'abitudine del protagonista a oscillare tra i due antipodi diventa nella messinscena un fattore secondario (sebbene nel finale il fratello di Kraven ne ribadisca l'importanza), relegato a intermezzo narrativo tra una scena d'azione e l'altra.

Chiamato a raccontare l'adesione dell'uomo al suo alter ego e dunque, alla visione di un mondo diviso tra predatori e prede, la caccia di Kraven nel film di Chandor non riesce mai ad essere epica né a diventare avventura, anche per quanto riguarda gli effetti speciali, qui utilizzati in maniera tutt'altro che smagliante. Nati con la prerogativa di essere un'esperienza da consumare necessariamente in sala, i film Marvel di ultimissima generazione si sono trasformati in prodotti di stampo televisivo proprio per la mancanza di quell'immersione sensoriale che anche nelle regie più anonime - e quella di Chandor lo è - era in grado di dare senso al costo del biglietto. In questa ottica l'ennesimo tonfo al botteghino (uscito l'11 dicembre "Kraven - Il cacciatore" dopo una settimana non ha ancora superato gli 800 mila euro di incasso rispecchiando i risultati del box office americano) dopo quelli di "Morbius" e "Madame Web" potrebbe accelerare un'auspicata inversione di tendenza.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)