mercoledì, novembre 20, 2024

EN FANFARE

En fanfare

di Emmanuel Courcol

con Benjamin Lavernhe, Pierre Lottin, Sarah Suco

Francia, 2024

genere: commedia, drammatico

durata: 103’

Thibaut è un maestro d’orchestra, ma ha la leucemia. Da questo incipit si sviluppa un film che, pur con toni drammatici, racconta, in realtà, una storia di riappacificazione, senza indorare troppo la pillola, ma concentrandosi soltanto su determinati aspetti.

Perché, come suggerisce il titolo originale, En fanfare non è solo il modo in cui viene presentata e suona la banda di un paese, ma è anche l’approccio che il protagonista, o meglio i protagonisti, hanno riguardo la loro vita.

Thibaut è un maestro d’orchestra che improvvisamente sviene durante una delle innumerevoli prove con la sua banda. Scopre di avere la leucemia e di avere bisogno di un’importante donazione. Fortunatamente ha una sorella che riduce le probabilità di trovare un donatore compatibile a pochissimo. Peccato che Sara non sia la sorella di Thibaut, o meglio che Thibaut non sia il fratello di Sara perché adottato prima che lei nascesse. Così scopre di avere un fratello che può davvero aiutarlo con il trapianto e al quale decide di dedicarsi anima e corpo per ricompensarlo del grande gesto altruista compiuto. Ma Jimmy non sembra essere d’accordo. Jimmy, che conduce una vita completamente diversa da quella del fratello non vuole aiuto da nessuno, meno che mai da Thibaut. L’unica cosa che vuole è dedicarsi alla musica.

Definire En fanfare o soltanto un dramma o soltanto una commedia sarebbe ed è limitativo e limitante. Perché il film di Emmanuel Courcol va oltre e utilizza lo stratagemma della musica per mettere d’accordo tutti. Non solo i protagonisti, ma anche gli spettatori restano affascinati da quello che è un linguaggio universale e che può dire molto di più rispetto alle parole.

Così diversi eppure così simili, Thibaut e Jimmy hanno un approccio completamente diverso nei confronti della vita e del mondo che va di pari passo con quello che hanno (e che portano) con la musica. Se da una parte c’è il grande maestro d’orchestra che inizia a riflettere sulla propria esistenza, sulla propria fortuna e sulla propria condizione, a tratti privilegiata, dall’altra c’è il direttore della banda musicale che, dal canto suo, ha “solo” un grande talento, ma non gli stessi privilegi di un fratello fino a quel momento mai conosciuto.

Bisogna avere ambizione nella vita.

E la chiave del successo di En fanfare forse è proprio questa. Un’ambizione che, oltre a “seguire” i protagonisti, è rincorsa anche dalla regia e dalla sceneggiatura. Rischiando di perdersi nei meandri delle tante tematiche che si susseguono una dopo l’altra sullo schermo, la commedia francese, presentata prima in concorso al Festival di Cannes e poi nella sezione Best of della Festa del cinema di Roma, riesce sempre a ritrovare la retta via. Tra ostacoli e peripezie riesce a fondere alla perfezione tutti gli elementi che lo compongono, proprio come una vera orchestra, nella quale nessun elemento è lasciato al caso, ma tutto è necessario per il corretto equilibrio.

Dalla figlia di Jimmy alla nuova fiamma, passando per il ruolo tutt’altro che secondario della presunta sorella di Thibaut. Ogni pezzo del puzzle risulta necessario e indispensabile e, quindi, sviluppato, senza essere dimenticato per strada.

Comprendendo fin dall’inizio le problematiche che la vita di tutti i giorni può comportare, En fanfare sembra suggerire il ruolo salvifico della musica, destinata a ricucire qualsiasi tipo di strappo e ferita. Che sia un’orchestra o una banda cittadina, le note che fluttuano nell’aria hanno un impatto superiore rispetto a qualsiasi altra cosa. Al pari di un abbraccio o di una parola di conforto, la musica diventa il collante unico e solo di un vero e proprio inno alla vita.


Veronica Ranocchi

venerdì, novembre 15, 2024

FINO ALLA FINE

Fino alla fine

di Gabriele Muccino

con Elena Kampouris, Saul Nanni, Lorenzo Richelmy

Italia, 2024

genere: drammatico, thriller

durata: 118’

Che Gabriele Muccino avesse gli strumenti in regola per fare bene nel cinema americano lo avevamo capito prima che il regista sbarcasse a Hollywood per girare la sua prima produzione internazionale. A farcelo pensare era stato soprattutto lo smalto luccicante delle immagini e la capacità della macchina da presa di creare l'illusione di un continuo movimento laddove le storie si presentavano per lo più impantanate nella rabbia e nelle disillusioni generazionali dei suoi personaggi. Dopo lo sbalorditivo debutto coinciso con l'inaspettato successo di "La ricerca della felicità" e il connubio con la star del momento, quel Will Smith con cui Muccino girò anche il meno fortunato "Sette anime", il percorso americano del nostro ebbe come contraccolpo un prosieguo non altrettanto felice che, dopo qualche anno, lo riportò ai nostri lidi.

A quell'esperienza Muccino dimostra di non aver mai smesso di pensare se è vero che dopo aver trovato il modo di tornare negli Stati Uniti per girare "L'estate addosso", oggi rinnova la sua voglia d'Oltreoceano attraverso un film - "Fino alla fine" - che sembra una sorta di dichiarazione d'amore a un mondo bello e (im)possibile come quello del cinema hollywoodiano. Per farlo però decide di compiere un viaggio opposto a quello del 2016, a partire dall'inversione di sguardo che fa dell'Italia - e non dell'America - la terra promessa e di un personaggio americano, Sophie (interpretata dall'atletica Elena Kampouris), la protagonista della storia. Ma c'è di più, perché Muccino nel cercare di mescolare le due culture, la nostra e quella anglosassone, si sbilancia a favore della seconda, riferendosi in particolare alla letteratura di Henry James del quale ripropone il modello della Young American Woman la cui voglia di libertà e d'indipendenza si esplica come da tradizione in un contesto attraente ma subdolo rappresentato dal Vecchio Continente, da sempre sinonimo di un altrove che, nel romanziere americano, è indicato più di altri come quello capace di mettere a rischio l'identità e i valori del paese a stelle e strisce.

In questo senso la trama di "Fino alla fine" appare finanche paradigmatica nel fare di Sophie l'eroina destinata a rimanere coinvolta nel giro di vite che trasformerà la sua vacanza a Palermo in un vero e proprio incubo. Quintessenza del salutismo americano e dell'idea fresca e vitale dell'America costruita a colpi di spot pubblicitari, Sophie segue il percorso che ci si aspetta da un personaggio come lei, a cominciare dalla fascinazione subita nei confronti di un paesaggio esotico e sensuale, per proseguire con l'innamoramento nei confronti di un giovane bello e pericoloso (per il gruppo di amici che frequenta) e finanche per quello spirito  vitale e primitivo su cui il cinema statunitense ha costruito il mito della nuova nazione.

Se la "cartolina" siciliana più tradizionale è coerente alla visione che hanno gli americani del Bel paese, più interessante è la versione notturna di Palermo, quella che introduce il cambio di passo e dunque il passaggio da quello che sulle prime sembrava essere una commedia drammatico-sentimentale, dai tempi di "Come te nessuno mai" marchio di fabbrica del regista romano, a una vera e propria crime story, con Sophie coinvolta da Giulio (Saul Nanni, apprezzato in "Brado" di Kim Rossi Stuart) e dai suoi amici negli affari della malavita locale.

Nel genere crime Muccino debutta senza farsi mancare nulla in termini di ritmo e tensione, con furti, inseguimenti, sparatorie e bagni di sangue che mescolano elementi di sottogeneri come l'heist movie e il mob movie per dare vita a un "cuore di tenebra" che omaggia ancora una volta l'immaginario del cinema americano citando il superomismo di "Point Break" e la corsa ostacoli all night long che rimanda nientedimeno che al celebre "I guerrieri della notte" di Walter Hill. Un immaginario, quello appena descritto, che il regista gestisce con l'intento di non perdere la propria identità e nell'ambizione di arricchire il proprio bagaglio drammaturgico con qualcosa di mai sperimentato. Nel farlo mantiene intatto il suo stile, e cioè quello di una narrazione supportata dalla capacità di saper far correre immagini alimentate da un carburante emotivo altamente incandescente: il che andrebbe anche bene se non fosse che il contatto con una materia a elevato voltaggio, per le fibrillazioni prodotte quando si tratta di rischiare la vita, prevederebbe soluzioni capaci di abbassare la tensione. Il fatto che questo non succeda comporta passaggi in cui l'isteria mucciniana sommandosi all'andamento survoltato tipico del genere provoca un'overdose emozionale che finisce per togliere forza ai momenti topici del film. Tutto questo al netto di un film che ha comunque dalla sua quella di saper intrattenere i "suoi" spettatori.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, novembre 14, 2024

ETERNO VISIONARIO

Eterno visionario

di Michele Placido

con Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Federica Vincenti

Italia, 2024

genere: drammatico, biografico

durata: 112’

Il legame tra l'autore di un film e la materia narrata può essere la conseguenza di diversi ragionamenti. Alcune volte può capitare che il regista senta il bisogno di mettere in scena sé stesso, senza alcun infingimento, spinto da un'urgenza di realtà che non può essere in nessun modo procrastinata; altre invece, in cui gli elementi personali investono lo schermo opportunamente trasfigurati, nella necessità di mettere la giusta distanza da un argomento che può essere troppo doloroso e che per questo necessita di un determinato grado di finzione. Pensiamo alla filmografia di Nanni Moretti in cui il sospetto di un certo autobiografismo diventa a un certo punto palese quando dopo una serie di pellicole incentrate su Michele Apicella, possibile alter ego del regista, abbiamo due lungometraggi come "Caro Diario" e "Aprile" in cui è lo stesso Moretti nella parte di sé stesso a raccontare vicissitudini e punti di vista della sua vita privata.

In questo ragionamento un film come "Eterno visionario" si pone agli antipodi di quelli appena citati, tanto la presenza di una messinscena forte sembra essere lì per creare un separé tra elementi di similitudine o qualsivoglia collegamento tra Luigi Pirandello e il regista, Michele Placido: il quale, giunto al suo quattordicesimo film, decide di raccontare il drammaturgo siciliano come non era stato mai "visto", ovvero facendo del privato del protagonista il proscenio dove assurgono a vita e si giustificano le ossessioni e la poetica dei romanzi e delle pièce teatrali. Invece che relegarlo a un riempitivo popolato da personaggi pensati come funzioni narrative o come semplici appendici del racconto, lo spazio famigliare prende vita attraverso una drammaturgia che di moglie e figli fa i veri teatranti all'interno del film. Placido ne dà legittimazione nell'immagine finale in cui la natura onirica del contesto, quando i familiari e Marta Abba - musa e attrice nella quale Pirandello trovò una platonica via di fuga ai propri tormenti esistenziali -, radunati attorno alla salma di Pirandello per un ultimo saluto, sembrano svelare la loro doppia natura, quella di esseri umani in carne e ossa e allo stesso tempo proiezioni fantasmatiche dei personaggi che hanno popolato le opere dello scrittore.

Seguendo questo pensiero non solo la sovrapposizione tra arte e vita raccontata in "Eterno visionario" è un tema comune a Placido, così come a tutti quegli autori che hanno provato a raccontarlo per averlo sperimentato sulla propria pelle, ma diventa particolare nell'analogia che vede il regista alle prese con dei figli (Violante, Brenno e Michelangelo Placido) che allo stesso modo di quelli di Pirandello hanno intrapreso la carriera artistica sapendo di avere come metro di paragone la carriera di un padre così famoso.

"Eterno visionario" è un film di Michele Placido anche nella continuità con cui il regista, a partire da "Un eroe borghese", ha deciso di rileggere la storia italiana attraverso altrettanti biopic dedicati a figure divorate dalle proprie ossessioni, eppure in grado di attraversare il limite fino a essere precursori (non solo Caravaggio ma anche Renato Vallanzasca nel suo campo lo fu) del proprio tempo. Per non dire delle lunghe e continue frequentazioni pirandelliane avute da Placido nel corso della sua carriera teatrale.

Da questo punto di vista la riuscita di "Eterno visionario" va oltre la puntualità delle interpretazioni - oltre a quella di Fabrizio Bentivoglio e Valeria Bruni Tedeschi, bravi a dar vita alla follia del ménage matrimoniale, si distingue anche Federica Vincenti nel ruolo della Abba - trovando motivo di interesse in funzione didattica per la capacità di raccontare con chiarezza e semplicità i meccanismi dell'arte e in particolare quelli che riguardano la genesi dell'opera come pure di ragionare e far pensare alle similitudini tra la teatralità dell'arte e quella  della vita. Caratteristiche queste che hanno come rovescio della medaglia il rischio di una sintesi che deve dare conto di troppe cose (a cominciare dall'opera omnia di Pirandello) e che così facendo ogni tanto trasforma la divulgazione in un racconto didascalico. Come succede quando "Eterno visionario" riflettendo sulla modernità dell'opera del drammaturgo siciliano lo fa attraverso una serie di stereotipi (l'omosessualità, il travestitismo) che esplicano il tema senza riuscire ad approfondirlo. Ciò detto "Eterno visionario" è una delle opere migliori del regista pugliese e comunque all'altezza dell'amore sempiterno di Placido per il suo protagonista.


Carlo Cerofolini

(recensione già pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, ottobre 28, 2024

LA PIE VOLEUSE

La pie voleuse

di Robert Guédiguian

con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Daourroussin, Gérard Meylan

Francia, 2024

genere: commedia

durata: 96’

Ancora una volta c’è Marsiglia quando si parla di Robert Guédiguain che, tracciando al meglio il suo cinema e avvalendosi di quelli che sono ormai i suoi attori feticci, realizza un ennesimo spaccato di vita (francese). Stavolta il film è La pie voleuse, presentato nella sezione Grand Public della Festa del cinema di Roma.

Un inizio concitato, tra il treno in movimento e quello che è a tutti gli effetti un furto, o almeno un presunto tale, al quale il regista francese ricorre per introdurre la storia, senza poi tornarci nello specifico. Non ci interessa sapere chi sono i rapinatori e cosa volevano. A interessarci sono le vite quotidiane di una serie di persone, tutte (o quasi) che ruotano, per un motivo o per un altro, attorno a Maria, donna delle pulizie (e all’occorrenza badante) di alcuni anziani nei dintorni di casa. Ma Maria non ha solo i suoi amici da badare e sistemare. Ha anche un marito a cui piace giocare, soprattutto soldi che puntualmente perde; ha una figlia sposata con un marito molto spesso assente a causa del suo lavoro e un nipote al quale vuole regalare il miglior futuro possibile e che vede già come un pianista affermato. Purtroppo, però, il costo di un pianoforte e delle lezioni è molto alto, tanto che né i genitori né i nonni possono permetterselo. Ma Maria, per aiutare figlia e soprattutto nipote, pensa di escogitare un piano perfetto e avere quei soldi necessari per coltivare il talento del più piccolo.

A differenza di altri suoi film, anche più metaforici o comunque con una morale diversa, La pie voleuse tratteggia quella che è la quotidianità e come essa può subire un cambiamento, anche importante, da un momento all’altro.

Le persone con cui si litiga sono quelle che si amano davvero.

E di litigi in questo film ce ne sono, ma per fortuna ci sono anche (nuove) riappacificazioni. Un intreccio continuo di relazioni che iniziano, finiscono e si mescolano tra loro per dare vita a nuovi legami, più o meno forti dei precedenti.

Al pari dell’inizio, improvviso e inaspettato, anche lo sviluppo della storia rompe un apparente equilibrio per crearne un altro. Come la pie voleuse del titolo (che richiama sia il negozio di musica dove viene acquistato il pianoforte sia l’agire, seppur a fin di bene, della protagonista), anche il ritmo, al pari di un ladro, si trova costretto a rubare qualcosa. È come se la storia si fermasse per concentrarsi sui legami dei personaggi. E se può apparire improvvisa la relazione tra due personaggi completamente agli antipodi, quello che in realtà vuole proporci Guédiguain è la possibilità di guardare il mondo da un’altra prospettiva. Una diversa prospettiva legata anche al fatto che sono le generazioni a cambiare e che il male di alcuni può ricadere sul futuro, ma spetta poi a questo futuro cercare una via di fuga. E se, però, anche i figli cadono negli stessi errori e negli stessi errori dei genitori?

In questo modo il regista strizza l’occhio, come da sempre ama fare con il suo cinema, a una realtà sempre più vicina alla finzione straripante delle tante opere artistiche. Il regista francese filma una verità passata, ma anche presente, in netta contrapposizione, entrambe incarnate perfettamente dai personaggi, come se fossero schierati in due fazioni: da una parte i genitori, nello specifico Maria, che cerca in maniera quasi ossessiva di realizzarsi, anche attraverso gli altri, e dall’altra Jennifer, la figlia sempre attenta e prudente. Alla fine, però, nessuno prevarica sull’altro, non viene elogiato uno per affossare l’altro e non vengono dati giudizi. Non ci sono né vincitori né vinti, ma c’è la consapevolezza (e la speranza) di poter dare un’altra possibilità e fare in modo che si esca dalla sala cinematografica rinfrancati e rigenerati dall’atmosfera, complici fotografia e colori, sempre positiva dell’autore francese.


Veronica Ranocchi

domenica, ottobre 27, 2024

PARTHENOPE

Parthenope

di Paolo Sorrentino

con Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Dario Aita

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 136’

Un’ode a Napoli è quello che ha ripetuto più e più volte Paolo Sorrentino nel presentare e promuovere il suo Parthenope

“Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”.

È con questa frase, e con le meravigliose immagini di una Napoli quasi magica e onirica, che si apre l’ultima fatica del regista partenopeo. In qualche modo è un primo tentativo di Sorrentino di invitare lo spettatore a immergersi completamente in un’opera tanto reale quanto immaginata e sperata, un’opera vera e autentica, ma al contempo onirica e a tratti utopistica.

Quella che sentiamo è la voce di una donna che vediamo solo di spalle da un terrazzo. Poi improvvisamente siamo catapultati nel 1950, nel momento in cui viene data alla luce Parthenope, sorella minore del tormentato Raimondo. Velocemente arriviamo al 1968, più precisamente alla maggiore età della protagonista, per poi percorrere alcuni anni densi e intensi di avvenimenti. Tra incontri con personaggi particolari, studi universitari in antropologia e una maggiore consapevolezza di sé, dopo aver compreso le difficoltà della vita, Parthenope si mostra e si racconta in una serie di ricordi che rievocano, inevitabilmente, una Napoli che è la sua stessa incarnazione. 

“Io non so niente, ma mi piace tutto”.

Una delle tante frasi a effetto che Sorrentino inserisce nel film (e nei suoi film in generale), ma anche una delle tante frasi a effetto di cui sono impregnati i film più classici, come ci ricorda più volte la giovane Parthenope che, per un breve periodo, sogna di diventare attrice perché “gli attori nei vecchi film hanno sempre la risposta pronta”.

Quello che fa un’incredibile esordiente come Celeste Dalla Porta nel corso del film è guidarci all’interno del suo mondo (e) quello di Napoli. Se da una parte vediamo una ragazza, a volte tormentata, a volte sicura di sé e determinata a conoscere nuove sfumature, dall’altra vediamo anche il suo corrispettivo, una Napoli elegante, silenziosa, quasi magica, con la sua eccentricità e la sua unicità. Perché Napoli (e Parthenope) è quello che dice la Greta Cool di Luisa Ranieri (per la quale i riferimenti si sprecano), ma è anche molto di più. 

Perché Sorrentino ci guida, tramite la sua protagonista, sia in una storia di crescita, d’amore, d’accettazione e di consapevolezza, ma più di tutto ci guida nella sua Napoli, quella che nasconde al suo interno delle perle di rara bellezza, siano esse una carrozza, un figlio tanto grande quanto tanto adorato o un miracolo, quello di San Gennaro, elevato ormai non più a credenza popolare, ma a consapevolezza nazionale.

“Sei bella e indimenticabile”. Tutto è al contempo materialità e astrattismo. La bellezza vera, giovane, fresca e corporea di Parthenope è esattamente identica alla bellezza universale e immutata di Napoli che, complice il mare, il paesaggio e una fotografia che propone immagini perfette, è veramente indimenticabile per chiunque, dallo spettatore al più fragile dei personaggi destinato a rimanere inerme e indifeso nei confronti di un futuro per lui irraggiungibile, forse perché nel suo silenzio aveva già compreso tutto.

Ogni inquadratura può essere considerata un quadro per come è congegnata, alla Sorrentino, e proprio per questo, nasconde molto più di quello che si può immaginare. Dalle tematiche care al regista allo sviluppo di uno sguardo sempre più deciso e preciso, si passa con disinvoltura alla conoscenza di personaggi eccentrici nella loro normalità e normali nella loro eccentricità (dalla Flora Malva di Isabella Ferrari, celata da un velo nero che vuole coprirle un volto ormai fin troppo deturpato a un Devoto Marotta al quale presta il volto Silvio Orlando, professore universitario che invita a vedere e non a guardare, con un metodo di insegnamento tutt’altro che convenzionale, senza dimenticare l’omaggio a John Cheever di Gary Oldman).

“Quando sai tutto muori triste e solo”.

È quasi impossibile non scrivere di Parthenope partendo e parlando attraverso frasi e citazioni che si inseguono durante tutto il film. E forse, proprio in linea con quest’ultima, è meglio non scardinare troppo un film che poggia le sue solide basi su una visione reale eppure onirica di un mondo che, alla fine, appartiene un po’ a tutti, basta solo riuscire a vederlo.

Prendendo in prestito temi cari al cinema di Sorrentino e volti ormai diventati iconici grazie a lui, il regista napoletano disegna un film anche sulla sua pelle, seppur in maniera minore rispetto al precedente È stata la mano di Dio, ma provando comunque a raccontarsi in un modo in cui solo lui riesce a fare.


Veronica Ranocchi

martedì, ottobre 15, 2024

IL ROBOT SELVAGGIO

Il robot selvaggio

di Chris Sanders

USA, 2024

genere: animazione, fantascienza

durata: 102’

Questa volta sono bastati pochi e semplici ingredienti alla DreamWorks per creare una storia degna di rimanere impressa nel cuore di chiunque.

Uno spazio e un tempo indefiniti fanno da cornice alla storia di Roz, robot multiuso ROZZOM disperso a seguito di un tifone, insieme ad altre cinque unità da una nave cargo della Universal Dynamics. Roz, il cui vero nome è unità ROZZOM 7134, programmata, come tutti gli altri robot, per aiutare e soprattutto per portare a termine un compito, si trova spaesata in un luogo abitato soltanto da animali con i quali inizialmente non riesce a comunicare e che, spaventati, la ribattezzano “il mostro”. Allontanata ed evitata da tutti, Roz pensa di fornire la sua posizione ai produttori per essere recuperata, ma a seguito di un inseguimento distrugge un nido di oche lasciando intatto solo un uovo. Aiutata, in qualche modo, da alcuni degli abitanti del posto, Roz ha un nuovo compito: prendersi cura del piccolo (che la identifica come madre, essendo la prima cosa che vede alla nascita) e aiutarlo a crescere e sopravvivere. Per farlo potrà contare sull’aiuto dell’astuta volpe Fink e non solo…

Il robot selvaggio, nato dalla penna e dai disegni di Peter Brown e diretto da Chris Sanders (che ha all’attivo grandi titoli come Lilo & Stitch, Dragon Trainer, I Croods, tanto per citarne alcuni) è sicuramente un film d’animazione al passo coi tempi.

Dai numerosi temi che emergono sia dalla storia che dai rapporti con i personaggi agli innumerevoli riferimenti e alle citazioni che si sprecano nel corso della narrazione, il film di Sanders regala una visione a metà strada tra il vecchio e il nuovo.

Innanzitutto c’è la scelta di ricorrere a un’animazione volutamente sporcata, imprecisa e imperfetta in alcuni punti. Non siamo di fronte alla perfezione alla quale ci ha abituati la Pixar, ma non siamo nemmeno di fronte ai primi acerbi disegni dei grandi e storici classici Disney. Il robot selvaggio mescola in ogni decisione, sia tecnica che narrativa, l’esperienza del passato con la speranza del futuro e lo fa strizzando l’occhio non solo ai più piccoli, ma anche e soprattutto agli adulti, invitandoli a guardare il mondo da un’altra prospettiva, proprio come Roz.

Amore, amicizia, ecologia, speranza, forza di volontà. L’elenco potrebbe continuare all’infinito talmente sono tanti gli aspetti da dovere e potere analizzare. Ma Il robot selvaggio è anche e soprattutto metafora di vita, la vita di ogni giorno che, tra pericoli, insidie e ostacoli, ci mette di fronte a delle scelte, più o meno importanti non solo per il bene del singolo, ma anche dell’intera comunità.

Identificarsi in Roz è semplice: è l’unico essere non animale del luogo e l’unico essere che cerca fin da subito di comunicare utilizzando un mezzo tutt’altro che animale, la parola, ma è il rapporto che crea con gli altri animali a renderla umana a tutti gli effetti, trasformando anche loro in esseri più vicini a noi, in grado di essere compresi. Ed è così che Fink (un omaggio o un prestito da Zootropolis e il suo riuscito coprotagonista) capisce che forse essere il più furbo del gruppo può avere dei vantaggi in fatto di prede e cibo, ma non lo porterà mai ad avere degli amici. Allo stesso modo Beccolustro (la piccola oca “nata” da mamma Roz) dovrà allargare i suoi orizzonti e comprendere che a volte le cose più semplici sono quelle meno scontate.

Insomma gli insegnamenti sono tanti, alcuni da scavare a fondo, altri che emergono più in superficie, tra un inseguimento e l’altro, una corsa, un addestramento e un’amicizia sempre più forte e solida.

Impossibile non pensare a Wall E guardando Il robot selvaggio, ma se quello che caratterizzava il robot della Pixar era la solitudine, quello che caratterizza Roz è ben altro: qualcosa di profondo e innato in ognuno di noi, da ricercare e salvaguardare costantemente, ma anche da addomesticare (come insegna Il piccolo principe, altro titolo di richiamo).

E se diventa anche divertente cercare di individuare i famigerati Easter Eggs (dalla gamba di legno di Dragon Trainer alla spedizione in volo che ricorda quella per mare di Alla ricerca di Nemo, passando per il Baymax di Big Hero 6 e il suo “quanto valuti da 1 a 10 la mia prestazione?”) è interessante notare come i riferimenti e i richiami siano una sorta di omaggio a dei titoli che è come se, messi tutti insieme, avessero come conclusione proprio la storia de Il robot selvaggio. Una Roz che diventa una sorta di Mary Poppins disposta a strapparsi un cuore artificiale dal suo bagaglio pieno di cose per fare spazio a un cuore vero e accogliere il piccolo Beccolustro con il quale si crea un legame indissolubile e anomalo, alla Sepúlveda, con il suo gatto che è riuscito a insegnare a volare a una gabbianella.


Veronica Ranocchi

mercoledì, ottobre 09, 2024

IL TEMPO CHE CI VUOLE

Il tempo che ci vuole

di Francesca Comencini

con Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 110’

Ci sono diversi modi di realizzare un biopic. Trattandosi di un genere oltremodo popolare la tendenza generale è quella di affidarsi alla fama del protagonista attenendosi a un racconto riepilogativo degli eventi più importanti della sua vita. La mancanza di regole fa si che taluni optino per una rappresentazione capace di risalire al tutto proponendo una o più fasi della stessa esistenza come ha fatto Dennis Boyle per “Steve Jobs”. A valorizzare il genere però è stato più di tutti Christopher Nolan che lo scorso anno ha monopolizzato la stagione dei premi con un film, “Oppenheimer”, che lavorando sulla forma ha saputo superare i limiti del conosciuto per raccontare dal di dentro le contraddizioni del suo personaggio.

Per competenza argomentativa e soprattutto per la capacità di adottare un punto di vista intrinseco alla materia narrata “Il tempo che ci vuole”  nella sua natura di biopic anomalo - pronto a trasfigurare il reale in favore di un racconto emotivo e poetico -, partiva in qualche modo avvantaggiato in virtù del fatto che a raccontare il rapporto tra Luigi Comencini e sua figlia Francesca è proprio quest’ultima, ancora una volta dopo il film d’esordio (“Pianoforte”, 1984) alle prese con un discorso autobiografico che qui si va completando nel ricordo della figura paterna, approfondita nella sua accezione salvifica e dunque negli effetti benefici che ebbe la sua vicinanza nel percorso di guarigione dalla tossicodipendenza.

Se “Pianoforte” era stato per la Comencini un film girato quasi in diretta, nell’intento di oggettivare il ritorno alla vita nella necessità di mettersi alle spalle una volta per tutte l’esperienza più drammatica della propria vita, “Il tempo che ci vuole” è un’opera che ha dovuto aspettare il tempo necessario per essere realizzata e che dunque più di altre ha a che fare con l’età matura. E questo non tanto per il consuntivo esistenziale che il lungometraggio contiene e neanche, come si potrebbe pensare, per un rapporto, quello tra padre e figlia che nei fatti costituisce il centro del racconto. Parafrasando il titolo del film, il tempo che ci vuole è tra le altre cose quello necessario per fare pace con la generazione dei padri che le generazioni sessantottine avevano dichiarato di voler uccidere. Se “Colpire al cuore” per essere stato contiguo agli anni di piombo non poteva far altro che raccontare il rapporto padre figlio nella sua irresolutezza conflittuale, “Il tempo che ci vuole” riesce a smarcarsi dal contesto storico che racconta leggendo quella stagione a distanza di anni e dunque da una prospettiva che gli consente - sotto la spinta della propria esperienza - di guardare a quel rapporto in maniera conciliante.

Legato alla Settima arte per forza di cose, “Il tempo che ci vuole” più che sul cinema e un film sul modo in cui Luigi e Francesca Comencini lo hanno inteso e cioè in maniera minoritaria rispetto alle priorità della vita. In questo senso partendo dalla figura paterna, divisa tra la vita e il set, il film fa del cinema e delle sue incursioni nell’esistenza dei protagonisti una sorta di appendice a un quotidiano che la Comencini decide di trasfigurare attraverso rimembranze che si colorano di continua fantasia. Incastonato all’interno di una cornice che rimanda al sogno e dunque al cinema (ci riferiamo ai frammenti del film in bianco e nero che aprono e concludono il film, quelli in cui vediamo una persona addormentarsi e poi destarsi dal sonno), il racconto si mantiene coerente alla sua premessa prendendo le distanze da qualsiasi naturalismo per abbracciare una visione ideale che pur facendo riferimento a fatti realmente accaduti li reinterpreta alla luce del sentimento di affetto e di riconoscenza della figlia nei confronti del padre.

Raccontando la propria vita e quella del genitore come non era mai stato fatto, immaginandola in esclusiva e cioè senza la presenza (visiva e materiale) di familiari e amici, “Il tempo che ci vuole” adotta un dispositivo che si fa portatore di un nuovo sguardo sulle persone e sulle cose e con esso di una buona dose di libertà artistica. Funzionale al discorso privato e dunque alla volontà di dare conto di un’esperienza eccezionale come lo è stata quella della Comencini con il padre e mentore, il “metodo” utilizzato dall’autrice si porta dietro una freschezza che alleggerisce il discorso evitando all’immaginazione di essere imbrigliata da intellettualismi e autocelebrazioni.

Così facendo ad andare in scena sul grande schermo è una favola nella favola che mescola realtà e finzione nella maniera in cui lo facevano i film di Luigi Comencini, sempre attenti a preservare l’umano dall’invadenza della macchina da presa. “Il tempo che ci vuole” parafrasa il cinema ogni volta che può, talora dando vita a fantasmagorie cinematografiche che rimandano all’universo e alla mitologia condivisa dai due protagonisti (a svettare sono quelle legate al Pinocchio collodiano), altre volte valorizzando attraverso i molti primi piani presenti della seconda parte la forza espressiva degli attori, Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, bravissimi nel dare conto di gioie e dolori mantenendosi sempre sulla soglia di un'essenzialità che non rinuncia all’emozione. Al contrario dei biopic classici, che rincorrono l’interpretazione mimetica per far parlare di sé, “Il tempo che ci vuole” se ne tiene lontano in maniera coerente affidando agli attori la capacità di suscitare i ricordi senza usurparne l’immagine. Presentato fuori concorso all’81 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, per chi scrive “Il tempo che ci vuole” avrebbe meritato una vetrina ancora più prestigiosa.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it) 

venerdì, ottobre 04, 2024

FAMILIA

Familia

di Francesco Costabile

con Francesco Gheghi, Francesco Di Leva, Barbara Ronchi

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 120’

Dopo il debutto forte e impegnato con il suo “Una femmina” Francesco Costabile torna a parlare di tematiche d’impatto con il suo “Familia”.

Un film che dà valore alla vita, (di)mostrando come guardare e rapportarsi con il mondo che si è disposti a creare nella propria esistenza.

La storia di Luigi Celeste inizia quando lui, ancora piccolo, è con il fratello Alessandro ed entrambi sono costretti ad assistere, seppur al di là di una porta a vetri, alla violenza domestica che ha luogo nella loro casa per mano del padre. Franco Celeste (un bravo e detestabile Francesco Di Leva) è accecato da una gelosia morbosa a tal punto da non permettere alla moglie Licia (una dimessa, ma sempre efficace Barbara Ronchi) di condurre una vita normale come tutti. Possessivo al punto da costringerla a dire e fare tutto quello che vuole lui, nel momento in cui lei prova a ribellarsi, la violenza verbale si trasforma in violenza fisica. Queste scene, sempre più frequenti e sempre più spaventose, iniziano a uscire dalle mura domestiche tramite i figli che ne scrivono nei temi scolastici. Una denuncia e un allontanamento forzato del padre portano, però, alla separazione dei due figli dalla madre che, per proteggerli, si trova costretta ad accettare il fatto compiuto. Così i fratelli crescono, prendendo strade diverse, pur rimanendo uniti da quel piccolo-grande segreto familiare, il più grande, Alessandro, interpretato da Marco Cicalese, e il più piccolo, Luigi “Gigi”, interpretato dal giovane talento Francesco Gheghi (premiato a Venezia come miglior attore della sezione Orizzonti).

I sospiri concitati, carichi di preoccupazione e terrore, che si sentono fin dall’inizio, si trasformano nel corso del film, di pari passo con la crescita dei due fratelli, soprattutto di Gigi che, dopo aver millantato nella X MAS, è il primo a cercare una via d’uscita, seppur estrema, dalla situazione in cui lui, Alessandro e la madre si trovano.

Se la Familia del titolo vuole richiamare l’idea di famiglia normale intesa come equilibrata, in realtà quello che il regista vuole suggerire allo spettatore è che ne esistono diversi tipi, non tutti corretti, non tutti uguali, non tutti con le stesse regole. La riflessione è molto più ampia e inizia immediatamente. Due contesti e due rapporti diversi. La madre che evita di toccare l’argomento, cambia serratura e cerca di ovviare al problema non affrontandolo. Il padre che va a prendere i due figli e li porta al parco giochi, li fa (apparentemente) divertire, sperando di trasformarli in burattini nelle sue mani. E proprio dal contrasto di questi due rapporti nasceranno approcci diversi da parte dei due figli, in grado entrambi di reagire, ma non allo stesso modo. Il già più maturo Alessandro, in grado di comprendere fin dalla tenera età, la gravità della situazione cercherà, per quanto possibile, di dimenticare, a differenza di un agguerrito Gigi, in cerca più che altro di un suo posto nel mondo e di un suo autentico concetto di famiglia.

Il suo millantare all’interno del gruppo fascista è soprattutto una ricerca di un’identità che probabilmente non ha mai avuto a casa. Non è un caso, infatti, che solo in quel momento Gigi si senta un figlio, capito (almeno in parte) e aiutato, e non un padre o comunque qualcuno con la responsabilità di dover mandare avanti una famiglia. Ed è sempre lì che incontra Giulia (Tecla Insolia) con la quale sperimenta una sorta di relazione, provando a mettere in pratica insegnamenti che ha appreso autonomamente. Un tira e molla continuo che non sfocia, però, mai nella violenza fisica (fatta eccezione per una spinta). Un tira e molla al quale entrambi cercano di appigliarsi con le unghie e con i denti per non dover affrontare il resto del mondo, ma provando a rimanere nel proprio “caldo” nido come quello di un uccellino che dà vita ai suoi piccoli, covandoli e aspettando che l’uovo si schiuda.

Io non posso più aspettare.

L’impazienza e la determinazione di Luigi evolvono nel corso della narrazione, mostrando una crescita a tratti necessaria, a tratti pericolosa che ben si amalgama non solo con l’interpretazione di Francesco Gheghi che si concede anima e corpo al suo personaggio, ma anche e soprattutto con una regia onnipresente e mai ridondante. Dai continui cambi di sguardi dei personaggi ai movimenti lenti della macchina da presa nei momenti più conviviali e, quindi, notoriamente, più familiari, la regia di Francesco Costabile invita lo spettatore a prestare molta attenzione a ogni singolo elemento in scena. O fuori scena, come la corsa, apparentemente senza confini e senza meta del piccolo Luigi.


Veronica Ranocchi

domenica, settembre 29, 2024

INTER. DUE STELLE SUL CUORE

Inter. Due stelle sul cuore

di Carlo Sigon

Italia, 2024

genere: documentario

durata: 90’

“Queste stelle sono per voi” così finisce (e in qualche modo inizia) il documentario di Carlo Sigon “Inter. Due stelle sul cuore” che celebra la vittoria dello scudetto numero 20 e, quindi, della seconda stella della squadra nerazzurra.

Il documentario, che ripercorre le tappe principali del raggiungimento della tanto agognata seconda stella, intervalla le immagini delle partite che hanno segnato, in qualche modo, uno spartiacque nel campionato 2023/2024 alle dichiarazioni dei protagonisti e di tifosi d’eccezione. Partendo dall’inizio del campionato il documentario di Carlo Sigon mostra, come in un libro diviso in capitoli, le partite chiave, sia in casa che in trasferta, ma soprattutto si sofferma sul forte e importante legame che si è creato tra i giocatori e tra tutto lo staff che ha ruotato e che ruota ancora intorno all’Inter.

Le prime parole del documentario vengono affidate a Marcus Thuram, a Milano dall’estate 2023, nonostante fosse stato adocchiato dalla squadra già l’anno prima (ma che a causa di un infortunio al ginocchio ha dovuto ritardare il suo arrivo). È lui a infondere la giusta dose di realismo e divertimento al documentario. Tra una risata e l’altra racconta l’atmosfera che si respira in casa Inter, di come è stato accolto con entusiasmo e di come si sia integrato fin da subito, trovando una vera e propria famiglia. In parte ad aiutarlo è stata la sua infanzia in Italia, per seguire il padre, anche se la capacità di adattamento è forse qualcosa di innato che lo contraddistingue.

Ma “Inter. Due stelle sul cuore” è molto altro. È un racconto preciso, seppur “ridotto” a un minutaggio adeguato, che si sofferma sui momenti salienti in quanto decisivi, soprattutto a livello emotivo. Sacrificando alcuni goal anche importanti, il documentario predilige un’analisi della tattica intesa come legame e affiatamento. Non è importante la partita (vinta o persa), è importante come la si è vissuta. Ecco che diventa, quindi, fondamentale la testimonianza di Nicolò Barella, reduce da un periodo tutt’altro che semplice in famiglia (solo accennato), che parla dell’importanza e della vicinanza dei compagni di squadra rivelatisi un vero e proprio sostegno e supporto.

L’andare a sviscerare i sentimenti e le emozioni dei protagonisti di quella che è (stata) una vittoria storica (aspetto che viene ripetuto più e più volte nel film, in maniera naturale, senza deridere o calcare la mano, ma semplicemente esponendolo come un dato di fatto) è ciò che contraddistingue il documentario da un semplice susseguirsi di immagini e video riassuntivi dell’intero campionato.

Anche la scelta di far parlare tifosi d’eccezione risulta vincente perché mostra da una parte umanità in coloro che sono “famosi” e un modo per sentirsi rappresentati in coloro che invece sono persone comuni. Il tassista che si ascolta le radiocronache durante gli spostamenti e i due cugini nati in famiglie milaniste che grazie alla dedizione di un nonno diventano interisti sono esempi lampanti di persone comuni che, in un modo o in un altro, si sono avvicinati alla pazza realtà nerazzurra e l’hanno sposata. Così come ha fatto anche qualcuno di meno “comune”, il regista Gabriele Salvatores che, da tifoso del Napoli, spostandosi a Milano, ha deciso non soltanto di lanciarsi nel cinema, ma anche, per il quieto vivere, di cambiare squadra (anche se la squadra e la mamma non si cambiano…) e scegliere quella che nei colori aveva un richiamo all’azzurro del Napoli. Ma sono tanti altri gli aneddoti nel documentario e avrebbero potuto essere ancora di più. Perché se da una parte la scelta di concentrarsi su poche figure, ma mirate, condensa il vero spirito della pazza Inter, dall’altra può apparire come un modo per non rendere degna giustizia a una tifoseria che, per festeggiare la seconda stella, ha letteralmente invaso una città con sfilate infinite fino a notte.

Un 22 aprile 2024 che gli interisti (e non solo) non dimenticheranno mai con quelle 22.43 impresse nella mente (e per molti sulla pelle, come “insegna” Dimarco) che sanciscono la vittoria del 20esimo scudetto, l’ottenimento della seconda stella, il tutto in una delle partite più sentite della storia: il derby della Madonnina.

Da capitan Lautaro all’idolo neroblu, nonché dj ufficiale Çalhanoğlu, passando per il determinato Frattesi, il “Matthieu francese” Darmian, lo scacchista Mkhitaryan e tutti gli altri giocatori, il documentario celebrativo riesce a dare il giusto spazio a tutti i protagonisti, nella misura in cui ognuno di loro ha contribuito all’ottenimento della seconda stella. Uno sguardo, ancora carico di adrenalina, da parte di una tifoseria speciale, la più pazza che ci sia.


Veronica Ranocchi

sabato, settembre 28, 2024

WOLFS

Wolfs

di Jon Watts

con Brad Pitt, George Clooney, Amy Ryan

USA, 2024

genere: thriller

durata: 108’

Le prime immagini di “Wolfs - Lupi solitari” si fanno gioco dello spettatore nella maniera più divertente riportandolo indietro nella memoria per andare a pescare uno dei personaggi più iconografici della storia del cinema recente. Nel fare conoscenza dei personaggi a cui prestano faccia e simpatia George Clooney e Brad Pitt è infatti impossibile non pensare alla figura di Mr. Wolf, il celeberrimo tutto fare di “Pulp Fiction” interpretato da Harvey Keitel con il quale Quentin Tarantino aveva saputo ridere del crimine con la figura chiamata a “ripulire” i luoghi del delitto eliminando i collegamenti con gli esecutori dell’assassinio.

“Wolfs - Lupi solitari" parte più o meno dalla stessa situazione portandoci da subito sulla scena del crimine nella necessità di salvaguardare la reputazione di un'importante politica newyorkese presente nella stanza d’albergo dove il suo boy toy giace riverso senza vita nella camera da letto. A far saltare le regole, e per quanto ci riguarda a dare il là alla divertente sarabanda, è la circostanza che costringe i due fixer, interpretati da Pitt e Clooney, a rinunciare per una volta alla prerogativa del loro mestiere e dunque a lavorare in coppia nella risoluzione dell’intricato caso.

Da crime story il nuovo film di Jon Watts, (autore dell’ultima trilogia di "Spiderman") si trasforma presto in un buddy movie dando modo alle due star - reduci su diversi versanti, quello personale per Pitt, quello artistico per Clooney - di recuperare posizioni, proponendoli nella loro versione migliore, quella che ne mette a sistema la componente divistica con la naturale predisposizione a non prendersi sul serio. Una posizione che Watts riflette sullo schermo sovrapponendo la persona al personaggio, con ciò non venendo mai meno al patto con il pubblico sul fatto che le vicende del film non debbano mai prendere il sopravvento sull’immagine che ci siamo fatti dei due attori. Così, per certi versi, nel vedere i duetti tira e molla tra i due protagonisti sembra quasi di assistere agli scambi di battute tra Clooney e Pitt nella serie dedicata a “Ocean’s Eleven” che “Wolfs” replica anche nell’assegnare a Clooney la posizione di leader della coppia, qui chiamato a far da contraltare semiserio alla naturale predisposizione al cazzeggio di quello interpretati da Pitt.

Fatto sta che in “Wolfs” a contare di più non è tanto il ritmo dell’azione e neanche il marchingegno che equipara la storia a una serie di prove da superare per arrivare sani e salvi al termine della notte. Grazie a una sceneggiatura ritagliata al millimetro sul duo Clooney/Pitt a farla da padrona è la capacità della parola di sintonizzarsi sull’elemento divistico, per accentuarne e diminuirne il carisma nell’intento comunque di esorcizzare il progressivo precipitare dei fatti. Così facendo “Wolfs” si trasforma in una collisione di corpi a cui oltre a quelli già menzionati se ne aggiunge un terzo, vero e proprio corpo estraneo rispetto all’immaginario dei due divi, destinato a innescare la svolta narrativa e a creare sorpresa all’interno di un film programmato per non perdere un colpo in termini di piacevolezza, fino a concludere con una citazione filmica (quella del fermo immagine finale di “Butch Cassidy” diretto George Roy Hill) che tradisce il cinema e gli attori - Paul Newman e Robert Redford - a cui guardava Watts mentre girava il suo lungometraggio.
Presentato fuori concorso all’81ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, “Wolfs - Lupi solitari” adotta su un altro piano lo stesso sistema adoperato dai produttori di "Deadpool & Wolverine”, facendo della possibilità di veder recitare nello stesso film due campioni del grande schermo il principale motivo di interesse e relegando in secondo piano un contesto che invece ha i suoi motivi per risultare all’altezza della confezione. Tra i film visti alla Mostra quello di Watts è uno dei più riusciti. Se avesse anche l’ideologia e il tema forte rischierebbe anche di far fare brutta figura ad alcuni di quelli promossi nel concorso ufficiale.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

venerdì, settembre 27, 2024

IDDU

Iddu

di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

con Toni Servillo, Elio Germano, Giuseppe Tantillo

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 122’

Per scrivere la recensione di Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza è necessario premettere che la realtà è un punto di partenza, non una destinazione come dall’incipit del film.

Il film dei due registi è l’ultimo titolo italiano in concorso alla mostra del cinema di Venezia 2024 con il non semplice compito di raccontare una parte degli anni di latitanza di Matteo Messina Denaro, l’Iddu del titolo.

Facendo leva sulle doti da trasformisti di entrambi i protagonisti (Elio Germano e Toni Servillo), ma anche sulle riuscite interpretazioni dei comprimari, il film di Grassadonia e Piazza racconta e mostra, anche oltre buio e oscurità, mescolandosi, però, con queste stesse ombre.

Sicilia, primi anni Duemila. Dopo alcuni anni in prigione per mafia, Catello, politico di lungo corso, ha perso tutto. Quando i Servizi segreti italiani gli chiedono aiuto per catturare il suo figlioccio Matteo, ultimo grande latitante di mafia in circolazione, Catello coglie l’occasione per rimettersi in gioco. Uomo furbo dalle cento maschere, instancabile illusionista che trasforma verità in menzogna e menzogna in verità, Catello dà vita a un unico quanto improbabile scambio epistolare con il latitante, del cui vuoto emotivo cerca di approfittare.

Un azzardo che con uno dei criminali più ricercati al mondo comporta un certo rischio…

I due registi, che già avevano affrontato l’argomento Matteo Messina Denaro nel loro precedente film Sicilian Ghost Story, partono proprio dallo sguardo che lo spettatore sceglie di dare alla storia: uno sguardo doppioambivalente. Perché al centro di tutto c’è una corrispondenza tra due persone: da una parte il noto boss e dall’altra un ex sindaco, tale Catello Palumbo. Uno scambio di lettere che porta entrambi a scoprirsi più del dovuto, ma che apre a noi spettatori uno scenario diverso rispetto a quello conosciuto grazie alla cronaca.

E questo sguardo doppio è quello che i due registi mettono in scena fin dalla primissima inquadratura che solo in apparenza risulta essere un cielo stellato, ma che, in realtà, è il riflesso dell’occhio di una pecora all’interno di una sorta di capanna che, bucata dei raggi del sole, assume la stessa forma. Questo a dimostrazione che non solo le immagini avranno una doppia valenza, ma tutto quello che comparirà sullo schermo.

Denso di dicotomie e ambivalenze, Iddu di Grassadonia e Piazza prova a insegnarci a guardare il mondo da più prospettive. E lo scambio epistolare diventa, proprio in questo senso, fondamentale per far vedere le due facce di una stessa medaglia.

Se da una parte c’è la famiglia del boss, rappresentata da persone delle quali lui pensa di potersi fidare, compresa una Barbora Bobulova nel ruolo della sua intermediaria, dall’altra c’è la famiglia, molto più scanzonata, almeno all’apparenza, del Preside Palumbo. Tra la moglie Elvira (una glaciale Betty Pedrazzi) e il genero Pino (un divertente Giuseppe Tantillo a suo agio nel ruolo più comico del film) vengono fuori situazioni quasi al limite del reale, a metà tra il tragico e il comico. Stessa cosa non si può dire per la controparte mafiosa, le cui azioni e i cui crimini obbligano i membri familiari a nascondersi e cercare alternative, ogni volta diverse, per venire alla luce.

Ma a questo binomio se ne aggiunge un terzo: quello degli agenti incaricati di scovare Matteo Messina Denaro. Con lo scopo di trovare e arrestare il boss latitante, gli agenti si mettono in contatto con Palumbo e innescano questa bizzarra relazione epistolare. Fungendo un po’ da trait d’union tra le due famiglie, gli agenti (tra i quali un Fausto Russo Alesi che non si stanca mai di regalare performance incredibili) cercano di dare il proprio apporto alla vicenda, in maniera diversa e non sempre riuscita.

Un’altra interessante dicotomia è quella spaziale. Azzerando il tempo e ambientando il tutto negli indefiniti anni 2000, il film trova una sua cifra nella rappresentazione antitetica degli spazi. E per spazi non si intendono solo il confronto-contrasto tra lo pseudo hotel di Palumbo e il covo, prima dietro un armadio e poi chissà di Matteo Messina Denaro costretto a vivere, come da lui stesso affermato, come un topo. Per spazi in antitesi si intendono anche i luoghi chiusi, claustrofobici e cupi (con sapore di morte) contrapposti a quelli aperti, alla luce del sole.

L’ora d’aria che il boss si concede quando non è intento a terminare il suo puzzle è solo la rappresentazione di quello che vorrebbe avere: la libertà. Quella libertà messa in atto da uno squarcio nel muro, inizialmente visto come un pericolo, ma poi considerato come una via di fuga, anche solo momentanea, un momento di evasione dalla realtà.

Dallo scambio epistolare al centro di Iddu si capisce anche un’altra cosa: l’intento di raggiungere una cultura sempre più ampia. E non è un caso che il suo corrispondente sia colui che è chiamato Preside e che, essendo il padrino del boss, è l’unico che può permettersi, indirettamente, di fornirgli un’educazione culturale. Quella stessa educazione culturale che, per motivi noti a tutti, non ha potuto avere e coltivare.

Perché se c’è un aspetto al quale dà risalto Iddu è proprio la conoscenza, attraverso la tanto presente, seppur assente fisicamente, scuola. Il Preside, il bidello scapestrato (oggetto di derisione e battute proprio per la sua mancanza di acume), la sorella del boss (un’inquietante Angela Truppo) contro la professoressa di italiano. La scuola è l’altro elemento spazio-temporale (perché indice di un certo periodo di tempo e di una certa età) sul quale l’opera di Grassadonia e Piazza si concentra.

Un’opera nella quale i personaggi, dal più audace al più divertente, non sono plasmati dal protagonista che, nella sua oscurità rimane, invece, un’ombra.


Veronica Ranocchi

(recensione pubblicata su taxidrivers.it)

giovedì, settembre 26, 2024

'BESTIARI, ERBARI, LAPIDARI' CONVERSAZIONE CON MASSIMO D'ANOLFI E MARTINA PARENTI

Presentato fuori concorso all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Bestiari, Erbari, Lapidari continua il percorso di ricerca intorno all’uomo compiuto da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Dei temi dell’opera e di come la forma del loro cinema li fa entrare in dialettica abbiamo parlato con i due registi.

Al di là della suddivisione in tre capitoli derivata dalla classificazione enciclopedica di matrice medievale a cui rimanda il titolo mi sono interrogato sulla continuità della struttura narrativa perché è vero che le sezioni dedicate a Bestiari, Erbari, Lapidari dialogano tra di loro attraverso diverse modalità.

Come hai detto tu Bestiari, Erbari, Lapidari è nato per essere un unico film con uno sviluppo drammaturgico unitario. L’idea dei Bestiari Erbari e Lapidari rubata ai compendi medievali prevedeva fin da subito il fatto di essere un corpo unico. La sua linea drammaturgica è nata in maniera abbastanza istintiva dalla naturale collocazione dei tre compendi. Era chiaro che Lapidari dovesse essere la parte conclusiva mentre avendo a che fare con il cinema abbiamo pensato che il film si aprisse con Bestiari le cui immagini hanno a che fare con il proto cinema. Tutto questo nonostante l’origine della vita sulla terra sia più legata alle piante che agli animali.

Uno dei motivi della continuità narrativa è dato dal fatto che il racconto dei diversi regni del mondo naturale si relaziona con la storia dell’uomo svelandone le pulsioni più nascoste.

Per noi è come se il primo film ti aiutasse a entrare, il secondo ti disponesse all’osservazione mentre il terzo è quello in cui qualcosa ti viene rivelato. In tutto questo l’uomo è sottinteso nel senso che ci è già stato e ha fatto in tempo a lasciare il segno del suo passaggio. Quelle che vediamo infatti sono tutte nature addomesticate: gli animali sono stati già filmati e uccisi, le piante ridotte a orto botanico, la pietra trasformata in cemento. Questo non vuol dire declinare le nostre responsabilità nei confronti di questi regni. Fin dall’inizio Bestiari, Erbari, Lapidari voleva essere un omaggio alle bestie, alle piante, alle pietre, così come alla capacità dell’uomo di prendersi cura e di trasformare in qualcosa di più ciò che gli viene dato.

Un altro tema conduttore è dato dal racconto a trecentosessanta gradi dell’attività umana vista attraverso il suo rapporto con il mondo circostante. Nel film ne prendete in rassegna le caratteristiche di invasività, ma anche la capacità di prendersi cura delle cose, così come di ricordare gli effetti del proprio operato per evitare di ripeterne gli errori.

È esattamente così, il film è un viaggio che noi facciamo nel tempo e dello spazio all’interno degli archivi così come nel regno vegetale, animale, minerale. È un percorso che si conclude attorcigliandosi su se stesso nel pre-finale, con le pietre posate a terra a futura memoria degli orrori di cui si è parlato nel primo capitolo. E che poi si conclude sulle immagini dei fossili vecchi di 50 milioni di anni fa in cui la natura è regista e interprete di se stessa restituendoci immagini capaci di attraversare il tempo e lo spazio.

In ogni capitolo abbiamo adottato una forma diversa. Bestiari è un film d’archivio, Erbari un film poetico e d’osservazioni, Lapidari invece è un genere che abbiamo tentato di inventare nel senso che è un lungometraggio industriale ma anche sentimentale ed emotivo. Ancora, il nostro è stato un viaggio nella parola che è presente in Bestiari, si dirada in Erbari, rappresentata per lo più dalla voce dello studioso del regno vegetale, fino a sparire completamente in Lapidari. Ci siamo detti che nell’ultimo capitolo la parola non viene pronunciata ma è comunque racchiusa nei volti e nelle storie nei volti delle persone scomparse nei campi di concentramento. Nonostante non ci sia parola umana e neanche un uomo protagonista Lapidari è il capitolo più denso di storia umana.

Nel film la storia si insegue e ritorna su se stessa come succede quando il paragone degli allevamenti della volpe rossa si ricollega ai campi di concentramento di cui si parla nell’ultimo capitolo, quello della memoria. Mentre il contatto con il regno animale ispira al genere umano reazioni autodistruttive così non accade nel regno vegetale in cui il ritorno alla natura riporta l’uomo a essere in armonia con ciò che lo circonda, come succede al giovane studioso che arruolato e spedito sul fronte trae sollievo dalla possibilità di creare un nuovo erbario.

Ci sono uomini sottintesi e altri che vengono citati. I primi si sono resi autori di distruzione mentre quelli presenti oppure menzionati lo sono perché hanno contribuito a creare qualcosa di positivo. La storia che hai citato sull’erbario di guerra è un esempio da ricordare perché si tratta di un giovane soldato laureato che, pur costretto ad andare in guerra, ritrova il senso della vita riuscendo a donare all’orto botanico uno straordinario erbario.

Il dialogo esistente tra i vari capitoli trova riscontro nella riflessione dello studioso quando parla di come l’uomo si consideri erroneamente al primo posto tra gli elementi della terra. Parliamo dello stesso ego che porta gli esseri umani a compiere i delitti efferati di cui si parla in Bestiari e Lapidari.

Ogni parte del film risuona in quella successiva per il fatto che con Martina tendiamo a costruire i film in maniera corale. I nostri protagonisti non sono mai le classiche figure eroiche perché le nostre storie sono sempre fatte da più persone. In questo lavoro è successo ancora di più perché accanto all’uomo ci sono gli alberi, gli animali, il vento, l’atmosfera, il tempo. Ci sono una miriade di elementi e per quello che dicevi tu prima, a noi piace fare dei film dove lo spettatore può entrare dentro e iniziare il suo viaggio. Si tratta di un percorso così stratificato in cui ogni volta che lo rifai scopri qualcosa di nuovo, come è successo anche a te. Nella sua semplicità Bestiari, Erbari, Lapidari è un film che ha una miriade di storie, di situazioni e di narrazioni possibili.

In Bestiari fa abbastanza effetto scoprire che immagini del mondo animale, simile a quelle che ancora oggi entrano nelle nostre case attraverso i documentari, nascondo in realtà una radice di morte e di abusi perpetrati dall’uomo nei confronti degli animali.

Parte dell’aspetto più interessante del lavoro sugli archivi è capire come immagini a cui abbiamo fatto l’abitudine e che ci sembrano innocue possano nascondere il male che verrà o che c’è già stato. Come succede con la fabbrica delle pellicce di volpi che ha ispirato la costruzione dei campi di sterminio oppure come quelle che raccontano l’addestramento degli animali o i concorsi di bellezza. Le immagini risalgono agli anni dieci del secolo scorso considerando che la maggior parte di queste sono state realizzate negli anni cinquanta. Ciononostante in quelle ritroviamo tutta la struttura comportamentale che ancora oggi condiziona la nostra relazione con gli animali. L’ultima cosa che vorremmo dire è che Bestiari Erbari Lapidari è un film fatto con tantissimi archivi del nostro continente perché per noi questo è un film profondamente europeo. Fin dall’inizio questo era il limite che ci eravamo dati e cioè di lavorare all’interno dell’Europa e dunque delle nostre radici. L’unica eccezione è costituita dagli archivi che viaggiano e vanno a fare i loro film di safari in Africa.

Il vostro è un cinema capace di lavorare sull’inconscio dello spettatore andando a toccare le sue corde più profonde. In tal senso una delle scene più impressionanti è quella in bianco e nero in cui vediamo un esploratore che tenta in tutti i modi di toccare un pinguino. A essere impressionante è la capacità di quelle di restituire la paura dell’animale di fronte a chi ha appena invaso il suo spazio. Sembra quasi un film dell’orrore.

Quelle di cui parli sono immagini preziosissime, realizzate durante la seconda spedizione di Roald Amundsen, e siamo quasi certi che sia la prima volta in cui si vede all’interno dello stesso fotogramma un uomo e un pinguino. Quando abbiamo visto quell’immagine siamo rimasti ipnotizzati. La sensibilità dell’epoca rispetto al biancore accecante del Polo ha creato una visione così stilizzata da diventare ancora più astratta e affascinante. Da subito c’è stato chiaro il livello di ambiguità di un’immagine che rimandava all’eccesso di addomesticamento degli animali casalinghi sottoposti a tac, radiografie e chemioterapie e cioè a un eccesso di cure che rasentano l’accanimento terapeutico. Ci rendiamo conto di entrare in un territorio molto scivoloso per il fatto di avere a che fare con la sensibilità di ognuno rispetto alla relazione che ha col proprio animale.

Il vostro è un cinema fatto di strutture e spazi organizzati che, per come li filmate, con un’osservazione quasi ipnotica, subiscono una trasfigurazione capace di farli percepire come una sorta di universo parallelo. Succedeva così rispetto al Duomo di Milano, succede lo stesso per l’orto botanico di Padova. Per come lo filmate a me è sembrato di sbarcare su un pianeta alieno. 

Succede sempre così quando posi sulle cose uno sguardo paziente e profondo, che non si accontenta dell’evidenza ma che cerca nuovi modi di guardare, tentando di relazionarsi all’invisibile. Quando succede si crea quel cortocircuito, per noi molto magico, che il cinema riesce a restituire attraverso le riprese, il suono, il montaggio. Questo è un po’ il tipo di cinema che ci piace fare ma anche che amiamo incontrare e vedere. Quando, come nel caso dell’orto botanico, si ha la possibilità di stare nei luoghi, quello che ne viene fuori è qualcosa che va oltre la materia per diventare qualcosa di più metafisico.

Peraltro i vostri film svolgono anche una funzione divulgativa portandoci a conoscenza di una storia che crediamo di sapere e che invece scopriamo di ignorare. Mi riferisco per esempio all’Orto botanico di Padova, il più vecchio del mondo, quello che ha ispirato tutti gli altri.

In un’epoca in cui siamo bombardati da milioni di informazioni poi capita di perdere le cose importanti. Purtroppo questa è un po’ la caratteristica della contemporaneità, l’eccesso di informazioni che ti allontana dal vero sapere. Quando hai la possibilità di prenderti cura dei luoghi e di trattarli nella loro complessità ti capita di scoprire cose come queste.

La suddivisione in capitoli funziona anche come destrutturazione del vostro cinema perché il lavoro sugli archivi, il documentario d’osservazione e quello industriale costituiscono tutte insieme le diverse anime di un unico dispositivo.

Si tratta di un’intenzione presente sin dalla fase di scrittura. Volevamo che ogni capitolo fosse un genere dentro il genere.  Il documentario è costituito da diversi linguaggi sui cui volevamo lavorare per poi tradirli. Anche perché Bestiari non è un vero film d’archivio, Erbari non è un vero film d’osservazione, Lapidari non era un vero film industriale. Il motore che ci ha fatto partire è stato proprio la possibilità di giocare con il linguaggio.   

Tutto questo dona ai vostri film una particolarità di sguardo che in qualche maniera diventa la chiave per non diventare complici del potere realizzando film assuefatti.

Il nostro cinema ha sempre l’ambizione di essere sovversivo rispetto al potere quindi il nostro non può che essere uno sguardo critico. Detto questo non esistono regole auree per cui si ha la certezza di riuscirci. Ogni film ci consente di metterci alla prova per verificare il nostro sguardo. Mi ricordo di qualcuno che parlando dei suoi film diceva di averli fatti per liberarsi dei titoli che gli aveva dato. Succede così anche a noi. Troviamo un titolo che poi ci costringe a lavorare in un certo modo rispondendo al significato contenuto nel titolo.

Mi avete detto che avevate desiderio di ricordare i vostri produttori. Facciamolo.

La componente produttiva è stata molto importante, perché ci ha permesso di fare un film durato quattro anni. Abbiamo vinto Eurimages, abbiamo stabilito una coproduzione con la Svizzera e con la Lombardia Film Commission. Soprattutto abbiamo ripreso i rapporti con l’Istituto Luce e la Cinematheque Svizzera già presenti in Guerra e Pace, ma anche con l’Eiffel Museum di Amsterdam, che è stato molto prezioso. La relazione con tutte le Cineteche europee è stata una relazione perfetta. Per finire volevo citare tre collaboratori fondamentali. Uno è Massimo Mariano, il nostro musicista e montatore del suono, che ci accompagna da sempre. Poi ci sono Raffaella Milazzo e Valerio Antonini che ci hanno aiutato alla realizzazione del film occupandosi della parte relativa alla produzione, da un punto di vista ministeriale.


Carlo Cerofolini

(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)