Presentato fuori concorso
all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica Bestiari, Erbari,
Lapidari continua il percorso di ricerca intorno all’uomo compiuto da Massimo
D’Anolfi e Martina Parenti. Dei temi dell’opera e di come la forma del loro
cinema li fa entrare in dialettica abbiamo parlato con i due registi.
Al di là della
suddivisione in tre capitoli derivata dalla classificazione enciclopedica di
matrice medievale a cui rimanda il titolo mi sono interrogato sulla continuità
della struttura narrativa perché è vero che le sezioni dedicate a Bestiari,
Erbari, Lapidari dialogano tra di loro attraverso diverse modalità.
Come hai detto tu Bestiari,
Erbari, Lapidari è nato per essere un unico film con uno sviluppo
drammaturgico unitario. L’idea dei Bestiari Erbari e Lapidari rubata
ai compendi medievali prevedeva fin da subito il fatto di essere un corpo
unico. La sua linea drammaturgica è nata in maniera abbastanza istintiva dalla
naturale collocazione dei tre compendi. Era chiaro che Lapidari dovesse
essere la parte conclusiva mentre avendo a che fare con il cinema abbiamo
pensato che il film si aprisse con Bestiari le cui immagini
hanno a che fare con il proto cinema. Tutto questo nonostante l’origine della
vita sulla terra sia più legata alle piante che agli animali.
Uno dei motivi della
continuità narrativa è dato dal fatto che il racconto dei diversi regni del
mondo naturale si relaziona con la storia dell’uomo svelandone le pulsioni più
nascoste.
Per noi è come se il
primo film ti aiutasse a entrare, il secondo ti disponesse all’osservazione
mentre il terzo è quello in cui qualcosa ti viene rivelato. In tutto questo
l’uomo è sottinteso nel senso che ci è già stato e ha fatto in tempo a lasciare
il segno del suo passaggio. Quelle che vediamo infatti sono tutte nature
addomesticate: gli animali sono stati già filmati e uccisi, le piante ridotte a
orto botanico, la pietra trasformata in cemento. Questo non vuol dire declinare
le nostre responsabilità nei confronti di questi regni. Fin dall’inizio Bestiari,
Erbari, Lapidari voleva essere un omaggio alle bestie, alle
piante, alle pietre, così come alla capacità dell’uomo di prendersi cura e di
trasformare in qualcosa di più ciò che gli viene dato.
Un altro tema conduttore
è dato dal racconto a trecentosessanta gradi dell’attività umana vista
attraverso il suo rapporto con il mondo circostante. Nel film ne prendete in
rassegna le caratteristiche di invasività, ma anche la capacità di prendersi
cura delle cose, così come di ricordare gli effetti del proprio operato per
evitare di ripeterne gli errori.
È esattamente così, il
film è un viaggio che noi facciamo nel tempo e dello spazio all’interno degli
archivi così come nel regno vegetale, animale, minerale. È un percorso che si
conclude attorcigliandosi su se stesso nel pre-finale, con le pietre
posate a terra a futura memoria degli orrori di cui si è parlato nel primo
capitolo. E che poi si conclude sulle immagini dei fossili vecchi di 50 milioni
di anni fa in cui la natura è regista e interprete di se stessa restituendoci
immagini capaci di attraversare il tempo e lo spazio.
In ogni capitolo abbiamo
adottato una forma diversa. Bestiari è un film
d’archivio, Erbari un film poetico e d’osservazioni, Lapidari invece
è un genere che abbiamo tentato di inventare nel senso che è un lungometraggio
industriale ma anche sentimentale ed emotivo. Ancora, il nostro è stato un
viaggio nella parola che è presente in Bestiari, si dirada in Erbari,
rappresentata per lo più dalla voce dello studioso del regno vegetale, fino a
sparire completamente in Lapidari. Ci siamo detti che nell’ultimo
capitolo la parola non viene pronunciata ma è comunque racchiusa nei volti e
nelle storie nei volti delle persone scomparse nei campi di
concentramento. Nonostante non ci sia parola umana e neanche un uomo
protagonista Lapidari è il capitolo più denso di storia umana.
Nel film la storia si
insegue e ritorna su se stessa come succede quando il paragone degli
allevamenti della volpe rossa si ricollega ai campi di concentramento di cui si
parla nell’ultimo capitolo, quello della memoria. Mentre il contatto con il
regno animale ispira al genere umano reazioni autodistruttive così non accade
nel regno vegetale in cui il ritorno alla natura riporta l’uomo a essere in
armonia con ciò che lo circonda, come succede al giovane studioso che arruolato
e spedito sul fronte trae sollievo dalla possibilità di creare un nuovo
erbario.
Ci sono uomini sottintesi
e altri che vengono citati. I primi si sono resi autori di
distruzione mentre quelli presenti oppure menzionati lo sono perché hanno
contribuito a creare qualcosa di positivo. La storia che hai citato
sull’erbario di guerra è un esempio da ricordare perché si tratta di un giovane
soldato laureato che, pur costretto ad andare in guerra, ritrova il senso della
vita riuscendo a donare all’orto botanico uno straordinario erbario.
Il dialogo esistente tra
i vari capitoli trova riscontro nella riflessione dello studioso quando parla
di come l’uomo si consideri erroneamente al primo posto tra gli elementi della
terra. Parliamo dello stesso ego che porta gli esseri umani a compiere i
delitti efferati di cui si parla in Bestiari e Lapidari.
Ogni parte del film
risuona in quella successiva per il fatto che con Martina tendiamo
a costruire i film in maniera corale. I nostri protagonisti non sono mai le
classiche figure eroiche perché le nostre storie sono sempre fatte da più
persone. In questo lavoro è successo ancora di più perché accanto all’uomo ci
sono gli alberi, gli animali, il vento, l’atmosfera, il tempo. Ci sono una
miriade di elementi e per quello che dicevi tu prima, a noi piace fare dei film
dove lo spettatore può entrare dentro e iniziare il suo viaggio. Si tratta di
un percorso così stratificato in cui ogni volta che lo rifai scopri qualcosa di
nuovo, come è successo anche a te. Nella sua semplicità Bestiari,
Erbari, Lapidari è un film che ha una miriade di storie, di
situazioni e di narrazioni possibili.
In Bestiari fa
abbastanza effetto scoprire che immagini del mondo animale, simile a quelle che
ancora oggi entrano nelle nostre case attraverso i documentari, nascondo in
realtà una radice di morte e di abusi perpetrati dall’uomo nei confronti
degli animali.
Parte dell’aspetto più
interessante del lavoro sugli archivi è capire come immagini a cui abbiamo
fatto l’abitudine e che ci sembrano innocue possano nascondere il male che
verrà o che c’è già stato. Come succede con la fabbrica delle pellicce di volpi
che ha ispirato la costruzione dei campi di sterminio oppure come quelle che
raccontano l’addestramento degli animali o i concorsi di bellezza. Le immagini
risalgono agli anni dieci del secolo scorso considerando che la maggior parte
di queste sono state realizzate negli anni cinquanta. Ciononostante in quelle
ritroviamo tutta la struttura comportamentale che ancora oggi condiziona la
nostra relazione con gli animali. L’ultima cosa che vorremmo dire è che Bestiari
Erbari Lapidari è un film fatto con tantissimi archivi del
nostro continente perché per noi questo è un film profondamente europeo. Fin
dall’inizio questo era il limite che ci eravamo dati e cioè di lavorare
all’interno dell’Europa e dunque delle nostre radici. L’unica eccezione è
costituita dagli archivi che viaggiano e vanno a fare i loro film di safari in
Africa.
Il vostro è un cinema
capace di lavorare sull’inconscio dello spettatore andando a toccare le sue
corde più profonde. In tal senso una delle scene più impressionanti è quella in
bianco e nero in cui vediamo un esploratore che tenta in tutti i modi di toccare
un pinguino. A essere impressionante è la capacità di quelle di restituire la
paura dell’animale di fronte a chi ha appena invaso il suo spazio. Sembra quasi
un film dell’orrore.
Quelle di cui parli sono
immagini preziosissime, realizzate durante la seconda spedizione di Roald
Amundsen, e siamo quasi certi che sia la prima volta in cui si vede
all’interno dello stesso fotogramma un uomo e un pinguino. Quando abbiamo visto
quell’immagine siamo rimasti ipnotizzati. La sensibilità dell’epoca rispetto al
biancore accecante del Polo ha creato una visione così stilizzata da diventare
ancora più astratta e affascinante. Da subito c’è stato chiaro il livello di
ambiguità di un’immagine che rimandava all’eccesso di addomesticamento degli
animali casalinghi sottoposti a tac, radiografie e chemioterapie e cioè a un
eccesso di cure che rasentano l’accanimento terapeutico. Ci rendiamo conto di
entrare in un territorio molto scivoloso per il fatto di avere a che fare
con la sensibilità di ognuno rispetto alla relazione che ha col proprio
animale.
Il vostro è un cinema
fatto di strutture e spazi organizzati che, per come li filmate, con
un’osservazione quasi ipnotica, subiscono una trasfigurazione capace di farli
percepire come una sorta di universo parallelo. Succedeva così rispetto al
Duomo di Milano, succede lo stesso per l’orto botanico di Padova. Per come lo
filmate a me è sembrato di sbarcare su un pianeta alieno.
Succede sempre così
quando posi sulle cose uno sguardo paziente e profondo, che non si accontenta
dell’evidenza ma che cerca nuovi modi di guardare, tentando di relazionarsi
all’invisibile. Quando succede si crea quel cortocircuito, per noi molto
magico, che il cinema riesce a restituire attraverso le riprese, il suono, il
montaggio. Questo è un po’ il tipo di cinema che ci piace fare ma anche che
amiamo incontrare e vedere. Quando, come nel caso dell’orto botanico, si ha la
possibilità di stare nei luoghi, quello che ne viene fuori è qualcosa che va
oltre la materia per diventare qualcosa di più metafisico.
Peraltro i vostri film
svolgono anche una funzione divulgativa portandoci a conoscenza di una storia
che crediamo di sapere e che invece scopriamo di ignorare. Mi riferisco per
esempio all’Orto botanico di Padova, il più vecchio del mondo, quello che ha ispirato
tutti gli altri.
In un’epoca in cui siamo
bombardati da milioni di informazioni poi capita di perdere le cose
importanti. Purtroppo questa è un po’ la caratteristica della
contemporaneità, l’eccesso di informazioni che ti allontana dal vero sapere.
Quando hai la possibilità di prenderti cura dei luoghi e di trattarli nella
loro complessità ti capita di scoprire cose come queste.
La suddivisione in
capitoli funziona anche come destrutturazione del vostro cinema perché il
lavoro sugli archivi, il documentario d’osservazione e quello industriale
costituiscono tutte insieme le diverse anime di un unico dispositivo.
Si tratta di
un’intenzione presente sin dalla fase di scrittura. Volevamo che ogni capitolo
fosse un genere dentro il genere. Il documentario è costituito da diversi
linguaggi sui cui volevamo lavorare per poi tradirli. Anche perché Bestiari non
è un vero film d’archivio, Erbari non è un vero film
d’osservazione, Lapidari non era un vero film industriale. Il
motore che ci ha fatto partire è stato proprio la possibilità di giocare con il
linguaggio.
Tutto questo dona ai
vostri film una particolarità di sguardo che in qualche maniera diventa la
chiave per non diventare complici del potere realizzando film assuefatti.
Il nostro cinema ha
sempre l’ambizione di essere sovversivo rispetto al potere quindi il nostro non
può che essere uno sguardo critico. Detto questo non esistono regole auree per
cui si ha la certezza di riuscirci. Ogni film ci consente di metterci alla prova
per verificare il nostro sguardo. Mi ricordo di qualcuno che parlando dei suoi
film diceva di averli fatti per liberarsi dei titoli che gli aveva dato.
Succede così anche a noi. Troviamo un titolo che poi ci costringe a lavorare in
un certo modo rispondendo al significato contenuto nel titolo.
Mi avete detto che
avevate desiderio di ricordare i vostri produttori. Facciamolo.
La componente produttiva
è stata molto importante, perché ci ha permesso di fare un film durato quattro
anni. Abbiamo vinto Eurimages, abbiamo stabilito una coproduzione
con la Svizzera e con la Lombardia Film Commission. Soprattutto
abbiamo ripreso i rapporti con l’Istituto Luce e la Cinematheque Svizzera
già presenti in Guerra e Pace, ma anche con l’Eiffel Museum di
Amsterdam, che è stato molto prezioso. La relazione con tutte le Cineteche
europee è stata una relazione perfetta. Per finire volevo citare tre
collaboratori fondamentali. Uno è Massimo Mariano, il
nostro musicista e montatore del suono, che ci accompagna da sempre. Poi
ci sono Raffaella Milazzo e Valerio Antonini che
ci hanno aiutato alla realizzazione del film occupandosi della parte relativa
alla produzione, da un punto di vista ministeriale.
Carlo Cerofolini
(conversazione pubblicata su taxidrivers.it)