giovedì, gennaio 09, 2025

LE CLASSIFICHE DE I CINEMANIACI 2024

 Le classifiche de I Cinemaniaci 2024

Carlo Cerofolini


  1. Anora (Sean Baker)
  2. La Zona d’interesse (Jonathan Glazer)
  3. The Beast (Bertrand Bonello) 
  4. Another End (Piero Messina)
  5. Dune - Parte 2 (Denis Villeneuve)
  6. Dostoevskij (Damiano e Fabio D’Innocenzo)
  7. Vermiglio (Maura Delpero)
  8. Il gusto delle cose (Trần Anh Hùng) 
  9. Upon Entry - L’arrivo (Alejandro Rojas, Juan Sebastian Vasquez)
  10. La Terra Promessa (Nikolaj Arcel)
  11. Civil War (Alex Garland)
  12. Hit Man - Killer per caso (Richard Linklater)  
  13. Bestiari, Erbari, Lapidari (Massimo D'Anolfi, Martina Parenti)
  14. I delinquenti (Rodrigo Moreno)
  15. Sulla Terra Leggeri (Sara Fgaier)
  16. Quasi a Casa (Carolina Pavone)
  17. La Sala professori (Ilker Katak)
  18. Perfect Days (Wim Wenders)
  19. Quell’estate con Irene (Carlo Sironi)
  20. Past Lives (Celine Song)

-Migliore regia: Jonathan Glazer (La Zona d’Interesse)

-Miglior attore: Filippo Timi (Dostoevskij)

-Migliore attrice: Mikey Madison (Anora)

-Migliore sceneggiatura: Nikolaj Arcel, Anders Thomas Jensen (La terra promessa)

-Migliore Colonna Sonora: Coca Puma (Quasi a casa

-Miglior Fotografia: Greig Fraser (Dune - Parte 2)

-Montaggio: Massimo D’Anolfi, Martina Parenti (Bestiari, Erbari, Lapidari)

-Rivelazione: Maria Camilla Brandenburg (Quell’estate con Irene), Maria Chiara Arrighini (Quasi a casa)

-Opera Prima: Sulla terra leggeri (Sara Fgaier)


Veronica Ranocchi


  1. Vermiglio (Maura Delpero)
  2. Il ragazzo e l'airone (Hayao Miyazaki) 
  3. Anora (Sean Baker)
  4. Perfect Days (Wim Wenders)
  5. The Holdovers (Alexander Payne)
  6. La zona d'interesse (Jonathan Glazer)
  7. Il gusto delle cose (Trần Anh Hùng) 
  8. Past Lives (Celine Song)
  9. Il robot selvaggio (Chris Sanders)
  10. La Terra Promessa (Nikolaj Arcel)
  11. Dune - Parte 2 (Denis Villeneuve)
  12. Hit Man - Killer per caso (Richard Linklater)  
  13. Il corpo (Vincenzo Alfieri)
  14. Inside out 2 (Kelsey Mann)
  15. Tatami - Una donna in lotta per la libertà (Zar Amir Ebrahimi, Guy Nattiv)
  16. Civil War (Alex Garland)
  17. Parthenope (Paolo Sorrentino)
  18. Flow - Un mondo da salvare (Gints Zilbalodis)
  19. The Substance (Coralie Fargeat)
  20. Io e il secco (Gianluca Santoni)


-Migliore regia: Jonathan Glazer (La Zona d’Interesse)

-Miglior attore: Sebastian Stan (The Apprentice)

-Migliore attrice: Mikey Madison (Anora) - Sandra Huller (La zona d'interesse)

-Migliore sceneggiatura: Coralie Fargeat (The Substance)

-Migliore Colonna Sonora: Trent Reznor, Atticus Ross (Challengers

-Miglior Fotografia: Daria D'Antonio (Parthenope)

-Montaggio: Vincenzo Alfieri (Il corpo)

-Rivelazione: Dominic Sessa (The Holdovers)

-Opera Prima: Io e il Secco (Gianluca Santoni)

lunedì, gennaio 06, 2025

BLITZ

Blitz

di Steve McQueen

con Saoirse Ronan, Elliott Heffernan, Harris Dickinson

USA, UK 2024

genere: guerra, drammatico

durata: 120’

Preceduto da "Occupied City" il nuovo film di Steve McQueen sembra nascere come reazione al penultimo lavoro del regista inglese. Ambientato nella Londra del 1940, quella messa a ferro e fuoco dai bombardamenti della famigerata Luftwaffe, l'aviazione militare tedesca che tanto contribuì alla riuscita della cosiddetta "guerra lampo", "Blitz" (almeno all'inizio) non si perde in chiacchiere portandoci nell'inferno di fuoco causato dall'azione dei bombardieri nemici non prima di aver contestualizzato il periodo storico con una veloce didascalia che oltre a fissare il periodo dei fatti si prende briga di spiegare allo spettatore il significato etimologico della parola scelta per dare il titolo al film.

La volontà del qui e ora con cui McQueen decide di romanzare la Storia, ricostruendola con la dovizia di particolari tipica dei film in costume, sembra quasi volersi vendicare della priorità del fuoricampo di "Occupied City" in cui la Amsterdam occupata dall'esercito nazista veniva rievocata per interposta persona, senza ricorrere ai materiali d'archivio e con le immagini della città dei nostri giorni volte a suggerire una continuità dei fatti di ieri con quelli di oggi.

Pur rimanendo fedele all'idea di un cinema capace di mettere in discussione la Storia ufficiale, rileggendola dal punto di vista degli umiliati e offesi, il regista inglese decide di rinunciare al proprio côté artistico e, dunque, alla capacità della componente visiva di farsi carico di ciò di cui non si può parlare per gettarsi a capofitto in un racconto di guerra realizzato in modo da corrispondere nella maniera più fedele possibile al modo di pensare e di guardare il mondo di personaggi vissuti quasi un secolo fa.

Per farlo McQueen rinuncia alla metafisica del racconto che era stata il punto di forza di war movie come "Dunkirk" e "1917" (pensiamo al rovesciamento operato da Christopher Nolan che fa della guerra il personaggio principale del suo film e a Sam Mendes, capace di rileggere il primo conflitto mondiale alla luce della bellicistica contemporanea, immaginando le azioni delle artiglierie nemiche con un impatto simile a quello delle nuove tecnologie impiegate sui campi di battaglia contemporanei) a favore di una messinscena che esaurisce sé stessa nella saturazione dell'elemento visivo e dialogico.

Al contrario di altre volte McQueen crede così poco alla possibilità d'astrazione dello strumento cinematografico da sentire il bisogno di puntellare ogni fotogramma con un'overdose di informazioni che finiscono per togliere ai personaggi la propria autonomia.

Un'evidenza che risalta soprattutto nel pensiero che sta dietro alla costruzione narrativa, poggiata su un percorso ad ostacoli - simile a quello dei videogame - dove il ritorno a casa del piccolo George (fuggito dalla campagna in cui la madre l'ha spedito per evitargli i rischi dei bombardamenti nemici) diventa occasione per inanellare una moltitudine di "sfortunati eventi" raccontati come si farebbe in una serie, con le tappe del viaggio scandite da altrettanti racconti autoconclusivi.

Steve McQueen adotta dunque un modello popolare in linea con le premesse del progetto a cui però viene a mancare la durata necessaria per un'efficace resa drammaturgica. Costretto a condensare la vicenda in meno di due ore la progressione di "Blitz" è tutta esteriore, legata a una ripetizione dei fatti che non riesce a essere accompagnata da un adeguato sviluppo psicologico dei personaggi qui ridotti a pedine nelle mani di un demiurgo esterno.

Abituato a raccontare personaggi fuori dagli schemi, McQueen non si smentisce neanche in questa occasione perché tutti i protagonisti, nessuno escluso, portano sulla propria pelle le stimmate di una diversità che nei film del regista inglese sono da sempre motore della storia. A differenza di altri lavori, però, in "Blitz" tutto è destinato a rimanere in superficie come spunto per tratteggiare un racconto tanto edificante quanto enfatico (per l'insistenza con cui il regista continua a frapporre ostacoli tra George e la sua meta) in cui all'autore sembra interessare più che altro il sottotesto razziale e autobiografico (il bambino è figlio dell'amore tra Saoirse Ronan e un ragazzo nero), in cui la visione progressista del mondo è destinata a trionfare non prima di aver fatto i conti con una sfilza incredibile di soprusi e discriminazioni. In questo senso poco possono fare in termini di emozioni la pur brava Ronan e, in un ruolo che sarebbe piaciuto a Charles Dickens, il giovanissimo Heliot Heffernan; per non dire di Paul Weller tornato sul grande schermo per interpretare un personaggio che si perde lungo il percorso della storia. La decisione da parte di Apple di farlo uscire direttamente in piattaforma potrebbe essere anche la conseguenza di una riflessione sulla debolezza del film.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

domenica, gennaio 05, 2025

DIAMANTI

Diamanti

di Ferzan Ozpetek

con Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Vanessa Scalera

Italia, 2024

genere: drammatico, commedia

durata: 135’

Gli elementi ricorrenti del cinema di Ozpetek ci sono: c’è il cast corale, c’è la grande tavolata, ci sono i volti che hanno lavorato con il regista negli anni. Ma, oltre a questo, ci sono anche delle novità e delle differenze che, se inizialmente sembrano dare una nuova luce, con l’andare avanti della storia si perdono nelle innumerevoli strade che Diamanti sembra voler percorrere.

Un escamotage di metacinema è quello che sceglie il regista turco ormai italianizzato per far addentrare lo spettatore all’interno della sua nuova perla. Un pranzo insieme a tutte le sue attrici (e un paio di attori) è il modo migliore per Ferzan Ozpetek per introdurre sia loro che noi a una storia che trasuda cinema da tutti i pori, ma che, come un bel vestito pomposo, rischia anche, talvolta, di perdersi.

Da un pranzo insieme con una tavola imbandita il regista inizia a spiegare ai presenti il suo prossimo film, cominciando ad assegnare i primi ruoli e fornendo i vari copioni. Improvvisamente veniamo trasportati negli anni ’70, all’interno di una sartoria che si occupa prevalentemente di costumi per teatro e cinema. A capo della sartoria in questione ci sono due sorelle, Alberta e Gabriella Canova (Luisa Ranieri e Jasmine Trinca), per le quali lavora un nutrito gruppo di donne. Tra chi si occupa di tingere le stoffe a chi le taglia, passando per chi le cuce e crea i modelli, tutte sono dedite alla propria occupazione, entusiaste e felici di lavorare insieme per progetti di prestigio. Se, però, possono contare l’una sull’altra sull’ambiente di lavoro, non possono fare lo stesso a casa dove ognuna sembra avere delle problematiche importanti. In questo senso anche i colori, sgargianti, luminosi e quasi magici, all’interno della sartoria, si incupiscono e scuriscono nel momento in cui ognuna di loro varca la soglia della propria abitazione. Tra chi deve fronteggiare problemi economici, a chi ha (o ha avuto) problemi con i figli, passando per chi ha a che fare con la violenza fisica, ogni donna diventa sola e fragile.

Un parterre di grandi attrici che si susseguono sullo schermo per dare vita a un abito, metafora del cinema stesso, dove ogni elemento diventa fondamentale per la buona riuscita del prodotto finale. Diventano necessarie le mani di ognuna delle protagoniste perché, come insegna Alberta all’inizio non esiste un io, esiste un noi. Eliminando anche un solo elemento il risultato finale non sarà mai lo stesso di quello pensato. Bianca Vega (la costumista premio Oscar interpretata da una Vanessa Scalera in stato di grazia) si (af)fida a queste donne che riescono, meglio di chiunque altro, a interpretare i suoi sogni, incarnati da dei bozzetti di costumi per un esigentissimo regista (Stefano Accorsi). Loro sono le uniche in grado di riuscire in un’impresa del genere perché, come i diamanti che andranno (metaforicamente e non) a comporre il maestoso abito finale, sono unite e sanno di poter contare l’una sull’altra. Ma sono anche diamanti intesi come qualcosa di prezioso, resistente e durevole al pari dello spirito femminile.

Al di là di mostrare situazioni purtroppo ancora attuali di disagio e difficoltà, le richieste da parte di alcune di loro (Paolina-Anna Ferzetti ed Eleonora-Lunetta Savino) di nascondere beni preziosi vanno oltre la semplice amicizia. Quella delle sorelle Canova è una sartoria basata sulla fiducia di tutte le donne che, volenterose, hanno deciso di lavorarci e dare anima e cuore al loro mestiere.

Se al centro ci sono le donne e la loro visione del mondo, Ozpetek ritaglia un piccolo spazio anche per alcuni uomini, rovesciando, però, i tradizionali cliché che li vedono in situazioni opposte a quelle mostrate dal film.

    Noi siamo collegate alle stelle, per quello sentiamo tutto.

Potrebbe essere la massima che riassume un film corale, dove, però, ogni personaggio è in grado di delinearsi perfettamente e concretamente, senza prevaricare su nessuno, ma mostrandosi completamente. Rappresentate e incarnate anche dai colori degli abiti che indossano (nella sartoria tutte uguali, ma fuori ognuna con il proprio eccentrico stile) le donne di questo film riescono a essere i perfetti pezzi di un puzzle il cui risultato finale è l’essenza stessa del cinema, come tenta di spiegare il regista con le sue apparizioni saltuarie e la sua conclusione, però non del tutto perfetta.


Veronica Ranocchi

sabato, gennaio 04, 2025

KRAVEN - IL CACCIATORE

Kraven – Il cacciatore

di J.C. Chandor

con Alessandro Nivola, Ariana DeBose, Russell Crowe, Aaron Taylor-Johnson

USA, 2024

genere: azione, sci-fi

durata: 127’

Sarebbe facile parlar male di un film come "Kraven - Il cacciatore", alla pari di altri usciti per conto della Sony, destinato a deludere le attese dei fan. Detto che ciclicamente generi e formati cinematografici, come succede a prodotti e forme d'arte, sono destinati ad attraversare alti e bassi non c'è dubbio che i film di Supereroi, dopo il clamoroso successo della trilogia degli Avengers, - culminata con il trionfo al botteghino di "Avenger: Endgame"-, stiano attraversando un momento di stanca, innanzitutto creativa, laddove la volontà di architettare una cesura tra il prima e il dopo, rappresentato dall'ultimo film dei Vendicatori, dando il via a un vero e proprio restyling di storie, attori e personaggi, non ha ancora dato i frutti sperati, tant'è che la "Casa delle idee" è tornata all'usato mettendo in cantiere un nuovo lungometraggio dedicato al super gruppo.

In acque peggiori versa la Sony i cui film - eccezion fatta per la trilogia di "Venom" - dedicati ai villain dell'Uomo Ragno hanno fatto di tutto per tenere i fedelissimi del genere lontani dalle sale. In tale contesto lo slittamento dell'uscita nelle sale di "Kraven - Il cacciatore", ultimo lungometraggio della casa di produzione giapponese rinviato di un anno rispetto alla data prevista non era stato certo un buon segno.

Certo è che film di J.C. Chandor ("Margin Call", "1981: Indagine a New York") si affidava a credenziali produttive già note non solo nella scelta di un regista/autore capace di bilanciare con uno sguardo "indipendente" la presenza dei cliché necessari alla riconoscibilità del format, ma anche a quella di coinvolgere nel progetto - come già successo in passato con Antony Hopkins, Michael Douglas, Harrison Ford e questa volta con Russell Crowe - icone cinematografiche incaricate di trasmettere al film un'appeal trasversale in grado di intercettare anche un pubblico più adulto. Al contrario, a interpretare il personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko nel lontano 1964 era stato chiamato Aaron Taylor Johnson ancora in cerca del ruolo della vita e qui chiamato a dare vita all'eccezionalità di un personaggio costretto dopo il suicidio della madre a fare i conti con un padre padrone (Crowe) che vorrebbe crescerlo a sua immagine e somiglianza e con il fratello più piccolo che per tale ragione ne patisce carisma e personalità.

Questo per dire di come "Kraven - Il cacciatore" avesse almeno in premessa l'intenzione di volare alto facendo dei legami di sangue e del dissidio tra padri e figli una specie di tragedia shakespeariana in cui l'azione doveva essere conseguenza di quei conflitti. Cosa che così non è perché a venire meno all'intento è proprio la personalità tormentata dei personaggi, troppo poco elaborata per creare una vera drammaturgia, e con la figura del diavolo, incarnata da un Russel Crowe ai "minimi termini", ridotta a comparsa quando invece avrebbe dovuto essere - anche nel fuori campo - il fantasma che aleggia sulla storia. In questo modo la differenza tra bene e male e l'abitudine del protagonista a oscillare tra i due antipodi diventa nella messinscena un fattore secondario (sebbene nel finale il fratello di Kraven ne ribadisca l'importanza), relegato a intermezzo narrativo tra una scena d'azione e l'altra.

Chiamato a raccontare l'adesione dell'uomo al suo alter ego e dunque, alla visione di un mondo diviso tra predatori e prede, la caccia di Kraven nel film di Chandor non riesce mai ad essere epica né a diventare avventura, anche per quanto riguarda gli effetti speciali, qui utilizzati in maniera tutt'altro che smagliante. Nati con la prerogativa di essere un'esperienza da consumare necessariamente in sala, i film Marvel di ultimissima generazione si sono trasformati in prodotti di stampo televisivo proprio per la mancanza di quell'immersione sensoriale che anche nelle regie più anonime - e quella di Chandor lo è - era in grado di dare senso al costo del biglietto. In questa ottica l'ennesimo tonfo al botteghino (uscito l'11 dicembre "Kraven - Il cacciatore" dopo una settimana non ha ancora superato gli 800 mila euro di incasso rispecchiando i risultati del box office americano) dopo quelli di "Morbius" e "Madame Web" potrebbe accelerare un'auspicata inversione di tendenza.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, novembre 21, 2024

MARKO POLO

Marko Polo

di Elisa Fuksas

con Elisa Fuksas, Lavinia Fuksas, Iaia Forte

Italia, 2024

genere: docufiction

durata: 78’

A metà strada tra finzione e realtà, Elisa Fuksas dà vita a Marko Polo, film che racconta (o almeno prova) il viaggio che lei, insieme alla sorella, alla sceneggiatrice e a una figura pseudo misteriosa, compie per arrivare a Medjugorje.

È la stessa regista a introdurre la storia spiegando come il film che stava preparando sia stato interrotto e come lei si sia trovata, in qualche modo, costretta a girare questo per raccontare quella che lei a volte definisce conversione, ma che è semplicemente la sua decisione di diventare cattolica.

Credere in qualcosa è cercare di stare.

Un assunto importante alla base della storia che prende il nome dalla nave che dovrebbe trasportare i protagonisti verso la loro destinazione, fisica, ma anche metaforica.

Con uno stile unico e una serie di sperimentazioni a livello registico la Fuksas ci immerge completamente in questo viaggio facendoci diventare il quinto personaggio che viaggia insieme a loro, tra fragilità e punti di forza. Al procedere della loro traversata si alternano delle interviste fatte ad alcuni personaggi a proposito della religione, il grande tema al centro del lavoro di Elisa Fuksas. Le risposte sono le più disparate e fanno tornare al discorso del documentario, a differenza di quanto invece fanno le (dis)avventure dei protagonisti, tra una sorella talvolta ingombrante, una sceneggiatrice che decide di non pronunciare più alcuna parola e un personaggio che, in parte, dovrebbe richiamare la coscienza, ma che, in realtà, sembra quasi essere un omaggio/citazione, a metà strada tra il Grillo Parlante di Pinocchio e l’Armadillo di Zerocalcare.

Se prendiamo per vero che Successo e fallimento possono essere la stessa cosa, come ci suggerisce la stessa regista e protagonista, comprendiamo bene l’intento di un documentario tanto reale quanto ironico. Ogni punto di vista è unico in una continua sperimentazione e mescolanza di generi, definizioni e certezze.

Alla base di Marko Polo è indubbio che ci sia il discorso relativo non tanto alla fede quanto alla credenza e al credere in generale. Credere in sé stessi, credere negli altri, credere nei propri mezzi e credere in qualcosa di altro e di indefinito.

Credere è come avere due sguardi.

E la Fuksas ci mette abilmente di fronte a entrambi. In un esperimento nel quale si respira metacinema, anche noi spettatori ci domandiamo costantemente chi siamo e cosa stiamo vedendo. Il dubbio che quello che ci viene mostrato sullo schermo sia reale o frutto della sua o della nostra immaginazione aleggia sul pubblico per tutta la durata, seppur breve, del film. A suggellare, poi, tutto quanto il disvelamento della maschera, la risposta alle mille domande che sorgono spontanee fin dall’inizio.

Seppur nella sua sperimentazione e nella sua (voluta) imperfezione Marko Polo riesce a trovare un modo per tenere insieme i pezzi e regala più di una riflessione allo spettatore, spaesato, disilluso e spaventato, costretto a lasciare la sala con più domande che risposte.


Veronica Ranocchi

mercoledì, novembre 20, 2024

EN FANFARE

En fanfare

di Emmanuel Courcol

con Benjamin Lavernhe, Pierre Lottin, Sarah Suco

Francia, 2024

genere: commedia, drammatico

durata: 103’

Thibaut è un maestro d’orchestra, ma ha la leucemia. Da questo incipit si sviluppa un film che, pur con toni drammatici, racconta, in realtà, una storia di riappacificazione, senza indorare troppo la pillola, ma concentrandosi soltanto su determinati aspetti.

Perché, come suggerisce il titolo originale, En fanfare non è solo il modo in cui viene presentata e suona la banda di un paese, ma è anche l’approccio che il protagonista, o meglio i protagonisti, hanno riguardo la loro vita.

Thibaut è un maestro d’orchestra che improvvisamente sviene durante una delle innumerevoli prove con la sua banda. Scopre di avere la leucemia e di avere bisogno di un’importante donazione. Fortunatamente ha una sorella che riduce le probabilità di trovare un donatore compatibile a pochissimo. Peccato che Sara non sia la sorella di Thibaut, o meglio che Thibaut non sia il fratello di Sara perché adottato prima che lei nascesse. Così scopre di avere un fratello che può davvero aiutarlo con il trapianto e al quale decide di dedicarsi anima e corpo per ricompensarlo del grande gesto altruista compiuto. Ma Jimmy non sembra essere d’accordo. Jimmy, che conduce una vita completamente diversa da quella del fratello non vuole aiuto da nessuno, meno che mai da Thibaut. L’unica cosa che vuole è dedicarsi alla musica.

Definire En fanfare o soltanto un dramma o soltanto una commedia sarebbe ed è limitativo e limitante. Perché il film di Emmanuel Courcol va oltre e utilizza lo stratagemma della musica per mettere d’accordo tutti. Non solo i protagonisti, ma anche gli spettatori restano affascinati da quello che è un linguaggio universale e che può dire molto di più rispetto alle parole.

Così diversi eppure così simili, Thibaut e Jimmy hanno un approccio completamente diverso nei confronti della vita e del mondo che va di pari passo con quello che hanno (e che portano) con la musica. Se da una parte c’è il grande maestro d’orchestra che inizia a riflettere sulla propria esistenza, sulla propria fortuna e sulla propria condizione, a tratti privilegiata, dall’altra c’è il direttore della banda musicale che, dal canto suo, ha “solo” un grande talento, ma non gli stessi privilegi di un fratello fino a quel momento mai conosciuto.

Bisogna avere ambizione nella vita.

E la chiave del successo di En fanfare forse è proprio questa. Un’ambizione che, oltre a “seguire” i protagonisti, è rincorsa anche dalla regia e dalla sceneggiatura. Rischiando di perdersi nei meandri delle tante tematiche che si susseguono una dopo l’altra sullo schermo, la commedia francese, presentata prima in concorso al Festival di Cannes e poi nella sezione Best of della Festa del cinema di Roma, riesce sempre a ritrovare la retta via. Tra ostacoli e peripezie riesce a fondere alla perfezione tutti gli elementi che lo compongono, proprio come una vera orchestra, nella quale nessun elemento è lasciato al caso, ma tutto è necessario per il corretto equilibrio.

Dalla figlia di Jimmy alla nuova fiamma, passando per il ruolo tutt’altro che secondario della presunta sorella di Thibaut. Ogni pezzo del puzzle risulta necessario e indispensabile e, quindi, sviluppato, senza essere dimenticato per strada.

Comprendendo fin dall’inizio le problematiche che la vita di tutti i giorni può comportare, En fanfare sembra suggerire il ruolo salvifico della musica, destinata a ricucire qualsiasi tipo di strappo e ferita. Che sia un’orchestra o una banda cittadina, le note che fluttuano nell’aria hanno un impatto superiore rispetto a qualsiasi altra cosa. Al pari di un abbraccio o di una parola di conforto, la musica diventa il collante unico e solo di un vero e proprio inno alla vita.


Veronica Ranocchi

venerdì, novembre 15, 2024

FINO ALLA FINE

Fino alla fine

di Gabriele Muccino

con Elena Kampouris, Saul Nanni, Lorenzo Richelmy

Italia, 2024

genere: drammatico, thriller

durata: 118’

Che Gabriele Muccino avesse gli strumenti in regola per fare bene nel cinema americano lo avevamo capito prima che il regista sbarcasse a Hollywood per girare la sua prima produzione internazionale. A farcelo pensare era stato soprattutto lo smalto luccicante delle immagini e la capacità della macchina da presa di creare l'illusione di un continuo movimento laddove le storie si presentavano per lo più impantanate nella rabbia e nelle disillusioni generazionali dei suoi personaggi. Dopo lo sbalorditivo debutto coinciso con l'inaspettato successo di "La ricerca della felicità" e il connubio con la star del momento, quel Will Smith con cui Muccino girò anche il meno fortunato "Sette anime", il percorso americano del nostro ebbe come contraccolpo un prosieguo non altrettanto felice che, dopo qualche anno, lo riportò ai nostri lidi.

A quell'esperienza Muccino dimostra di non aver mai smesso di pensare se è vero che dopo aver trovato il modo di tornare negli Stati Uniti per girare "L'estate addosso", oggi rinnova la sua voglia d'Oltreoceano attraverso un film - "Fino alla fine" - che sembra una sorta di dichiarazione d'amore a un mondo bello e (im)possibile come quello del cinema hollywoodiano. Per farlo però decide di compiere un viaggio opposto a quello del 2016, a partire dall'inversione di sguardo che fa dell'Italia - e non dell'America - la terra promessa e di un personaggio americano, Sophie (interpretata dall'atletica Elena Kampouris), la protagonista della storia. Ma c'è di più, perché Muccino nel cercare di mescolare le due culture, la nostra e quella anglosassone, si sbilancia a favore della seconda, riferendosi in particolare alla letteratura di Henry James del quale ripropone il modello della Young American Woman la cui voglia di libertà e d'indipendenza si esplica come da tradizione in un contesto attraente ma subdolo rappresentato dal Vecchio Continente, da sempre sinonimo di un altrove che, nel romanziere americano, è indicato più di altri come quello capace di mettere a rischio l'identità e i valori del paese a stelle e strisce.

In questo senso la trama di "Fino alla fine" appare finanche paradigmatica nel fare di Sophie l'eroina destinata a rimanere coinvolta nel giro di vite che trasformerà la sua vacanza a Palermo in un vero e proprio incubo. Quintessenza del salutismo americano e dell'idea fresca e vitale dell'America costruita a colpi di spot pubblicitari, Sophie segue il percorso che ci si aspetta da un personaggio come lei, a cominciare dalla fascinazione subita nei confronti di un paesaggio esotico e sensuale, per proseguire con l'innamoramento nei confronti di un giovane bello e pericoloso (per il gruppo di amici che frequenta) e finanche per quello spirito  vitale e primitivo su cui il cinema statunitense ha costruito il mito della nuova nazione.

Se la "cartolina" siciliana più tradizionale è coerente alla visione che hanno gli americani del Bel paese, più interessante è la versione notturna di Palermo, quella che introduce il cambio di passo e dunque il passaggio da quello che sulle prime sembrava essere una commedia drammatico-sentimentale, dai tempi di "Come te nessuno mai" marchio di fabbrica del regista romano, a una vera e propria crime story, con Sophie coinvolta da Giulio (Saul Nanni, apprezzato in "Brado" di Kim Rossi Stuart) e dai suoi amici negli affari della malavita locale.

Nel genere crime Muccino debutta senza farsi mancare nulla in termini di ritmo e tensione, con furti, inseguimenti, sparatorie e bagni di sangue che mescolano elementi di sottogeneri come l'heist movie e il mob movie per dare vita a un "cuore di tenebra" che omaggia ancora una volta l'immaginario del cinema americano citando il superomismo di "Point Break" e la corsa ostacoli all night long che rimanda nientedimeno che al celebre "I guerrieri della notte" di Walter Hill. Un immaginario, quello appena descritto, che il regista gestisce con l'intento di non perdere la propria identità e nell'ambizione di arricchire il proprio bagaglio drammaturgico con qualcosa di mai sperimentato. Nel farlo mantiene intatto il suo stile, e cioè quello di una narrazione supportata dalla capacità di saper far correre immagini alimentate da un carburante emotivo altamente incandescente: il che andrebbe anche bene se non fosse che il contatto con una materia a elevato voltaggio, per le fibrillazioni prodotte quando si tratta di rischiare la vita, prevederebbe soluzioni capaci di abbassare la tensione. Il fatto che questo non succeda comporta passaggi in cui l'isteria mucciniana sommandosi all'andamento survoltato tipico del genere provoca un'overdose emozionale che finisce per togliere forza ai momenti topici del film. Tutto questo al netto di un film che ha comunque dalla sua quella di saper intrattenere i "suoi" spettatori.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, novembre 14, 2024

ETERNO VISIONARIO

Eterno visionario

di Michele Placido

con Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Federica Vincenti

Italia, 2024

genere: drammatico, biografico

durata: 112’

Il legame tra l'autore di un film e la materia narrata può essere la conseguenza di diversi ragionamenti. Alcune volte può capitare che il regista senta il bisogno di mettere in scena sé stesso, senza alcun infingimento, spinto da un'urgenza di realtà che non può essere in nessun modo procrastinata; altre invece, in cui gli elementi personali investono lo schermo opportunamente trasfigurati, nella necessità di mettere la giusta distanza da un argomento che può essere troppo doloroso e che per questo necessita di un determinato grado di finzione. Pensiamo alla filmografia di Nanni Moretti in cui il sospetto di un certo autobiografismo diventa a un certo punto palese quando dopo una serie di pellicole incentrate su Michele Apicella, possibile alter ego del regista, abbiamo due lungometraggi come "Caro Diario" e "Aprile" in cui è lo stesso Moretti nella parte di sé stesso a raccontare vicissitudini e punti di vista della sua vita privata.

In questo ragionamento un film come "Eterno visionario" si pone agli antipodi di quelli appena citati, tanto la presenza di una messinscena forte sembra essere lì per creare un separé tra elementi di similitudine o qualsivoglia collegamento tra Luigi Pirandello e il regista, Michele Placido: il quale, giunto al suo quattordicesimo film, decide di raccontare il drammaturgo siciliano come non era stato mai "visto", ovvero facendo del privato del protagonista il proscenio dove assurgono a vita e si giustificano le ossessioni e la poetica dei romanzi e delle pièce teatrali. Invece che relegarlo a un riempitivo popolato da personaggi pensati come funzioni narrative o come semplici appendici del racconto, lo spazio famigliare prende vita attraverso una drammaturgia che di moglie e figli fa i veri teatranti all'interno del film. Placido ne dà legittimazione nell'immagine finale in cui la natura onirica del contesto, quando i familiari e Marta Abba - musa e attrice nella quale Pirandello trovò una platonica via di fuga ai propri tormenti esistenziali -, radunati attorno alla salma di Pirandello per un ultimo saluto, sembrano svelare la loro doppia natura, quella di esseri umani in carne e ossa e allo stesso tempo proiezioni fantasmatiche dei personaggi che hanno popolato le opere dello scrittore.

Seguendo questo pensiero non solo la sovrapposizione tra arte e vita raccontata in "Eterno visionario" è un tema comune a Placido, così come a tutti quegli autori che hanno provato a raccontarlo per averlo sperimentato sulla propria pelle, ma diventa particolare nell'analogia che vede il regista alle prese con dei figli (Violante, Brenno e Michelangelo Placido) che allo stesso modo di quelli di Pirandello hanno intrapreso la carriera artistica sapendo di avere come metro di paragone la carriera di un padre così famoso.

"Eterno visionario" è un film di Michele Placido anche nella continuità con cui il regista, a partire da "Un eroe borghese", ha deciso di rileggere la storia italiana attraverso altrettanti biopic dedicati a figure divorate dalle proprie ossessioni, eppure in grado di attraversare il limite fino a essere precursori (non solo Caravaggio ma anche Renato Vallanzasca nel suo campo lo fu) del proprio tempo. Per non dire delle lunghe e continue frequentazioni pirandelliane avute da Placido nel corso della sua carriera teatrale.

Da questo punto di vista la riuscita di "Eterno visionario" va oltre la puntualità delle interpretazioni - oltre a quella di Fabrizio Bentivoglio e Valeria Bruni Tedeschi, bravi a dar vita alla follia del ménage matrimoniale, si distingue anche Federica Vincenti nel ruolo della Abba - trovando motivo di interesse in funzione didattica per la capacità di raccontare con chiarezza e semplicità i meccanismi dell'arte e in particolare quelli che riguardano la genesi dell'opera come pure di ragionare e far pensare alle similitudini tra la teatralità dell'arte e quella  della vita. Caratteristiche queste che hanno come rovescio della medaglia il rischio di una sintesi che deve dare conto di troppe cose (a cominciare dall'opera omnia di Pirandello) e che così facendo ogni tanto trasforma la divulgazione in un racconto didascalico. Come succede quando "Eterno visionario" riflettendo sulla modernità dell'opera del drammaturgo siciliano lo fa attraverso una serie di stereotipi (l'omosessualità, il travestitismo) che esplicano il tema senza riuscire ad approfondirlo. Ciò detto "Eterno visionario" è una delle opere migliori del regista pugliese e comunque all'altezza dell'amore sempiterno di Placido per il suo protagonista.


Carlo Cerofolini

(recensione già pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, ottobre 28, 2024

LA PIE VOLEUSE

La pie voleuse

di Robert Guédiguian

con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Daourroussin, Gérard Meylan

Francia, 2024

genere: commedia

durata: 96’

Ancora una volta c’è Marsiglia quando si parla di Robert Guédiguain che, tracciando al meglio il suo cinema e avvalendosi di quelli che sono ormai i suoi attori feticci, realizza un ennesimo spaccato di vita (francese). Stavolta il film è La pie voleuse, presentato nella sezione Grand Public della Festa del cinema di Roma.

Un inizio concitato, tra il treno in movimento e quello che è a tutti gli effetti un furto, o almeno un presunto tale, al quale il regista francese ricorre per introdurre la storia, senza poi tornarci nello specifico. Non ci interessa sapere chi sono i rapinatori e cosa volevano. A interessarci sono le vite quotidiane di una serie di persone, tutte (o quasi) che ruotano, per un motivo o per un altro, attorno a Maria, donna delle pulizie (e all’occorrenza badante) di alcuni anziani nei dintorni di casa. Ma Maria non ha solo i suoi amici da badare e sistemare. Ha anche un marito a cui piace giocare, soprattutto soldi che puntualmente perde; ha una figlia sposata con un marito molto spesso assente a causa del suo lavoro e un nipote al quale vuole regalare il miglior futuro possibile e che vede già come un pianista affermato. Purtroppo, però, il costo di un pianoforte e delle lezioni è molto alto, tanto che né i genitori né i nonni possono permetterselo. Ma Maria, per aiutare figlia e soprattutto nipote, pensa di escogitare un piano perfetto e avere quei soldi necessari per coltivare il talento del più piccolo.

A differenza di altri suoi film, anche più metaforici o comunque con una morale diversa, La pie voleuse tratteggia quella che è la quotidianità e come essa può subire un cambiamento, anche importante, da un momento all’altro.

Le persone con cui si litiga sono quelle che si amano davvero.

E di litigi in questo film ce ne sono, ma per fortuna ci sono anche (nuove) riappacificazioni. Un intreccio continuo di relazioni che iniziano, finiscono e si mescolano tra loro per dare vita a nuovi legami, più o meno forti dei precedenti.

Al pari dell’inizio, improvviso e inaspettato, anche lo sviluppo della storia rompe un apparente equilibrio per crearne un altro. Come la pie voleuse del titolo (che richiama sia il negozio di musica dove viene acquistato il pianoforte sia l’agire, seppur a fin di bene, della protagonista), anche il ritmo, al pari di un ladro, si trova costretto a rubare qualcosa. È come se la storia si fermasse per concentrarsi sui legami dei personaggi. E se può apparire improvvisa la relazione tra due personaggi completamente agli antipodi, quello che in realtà vuole proporci Guédiguain è la possibilità di guardare il mondo da un’altra prospettiva. Una diversa prospettiva legata anche al fatto che sono le generazioni a cambiare e che il male di alcuni può ricadere sul futuro, ma spetta poi a questo futuro cercare una via di fuga. E se, però, anche i figli cadono negli stessi errori e negli stessi errori dei genitori?

In questo modo il regista strizza l’occhio, come da sempre ama fare con il suo cinema, a una realtà sempre più vicina alla finzione straripante delle tante opere artistiche. Il regista francese filma una verità passata, ma anche presente, in netta contrapposizione, entrambe incarnate perfettamente dai personaggi, come se fossero schierati in due fazioni: da una parte i genitori, nello specifico Maria, che cerca in maniera quasi ossessiva di realizzarsi, anche attraverso gli altri, e dall’altra Jennifer, la figlia sempre attenta e prudente. Alla fine, però, nessuno prevarica sull’altro, non viene elogiato uno per affossare l’altro e non vengono dati giudizi. Non ci sono né vincitori né vinti, ma c’è la consapevolezza (e la speranza) di poter dare un’altra possibilità e fare in modo che si esca dalla sala cinematografica rinfrancati e rigenerati dall’atmosfera, complici fotografia e colori, sempre positiva dell’autore francese.


Veronica Ranocchi

domenica, ottobre 27, 2024

PARTHENOPE

Parthenope

di Paolo Sorrentino

con Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Dario Aita

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 136’

Un’ode a Napoli è quello che ha ripetuto più e più volte Paolo Sorrentino nel presentare e promuovere il suo Parthenope

“Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”.

È con questa frase, e con le meravigliose immagini di una Napoli quasi magica e onirica, che si apre l’ultima fatica del regista partenopeo. In qualche modo è un primo tentativo di Sorrentino di invitare lo spettatore a immergersi completamente in un’opera tanto reale quanto immaginata e sperata, un’opera vera e autentica, ma al contempo onirica e a tratti utopistica.

Quella che sentiamo è la voce di una donna che vediamo solo di spalle da un terrazzo. Poi improvvisamente siamo catapultati nel 1950, nel momento in cui viene data alla luce Parthenope, sorella minore del tormentato Raimondo. Velocemente arriviamo al 1968, più precisamente alla maggiore età della protagonista, per poi percorrere alcuni anni densi e intensi di avvenimenti. Tra incontri con personaggi particolari, studi universitari in antropologia e una maggiore consapevolezza di sé, dopo aver compreso le difficoltà della vita, Parthenope si mostra e si racconta in una serie di ricordi che rievocano, inevitabilmente, una Napoli che è la sua stessa incarnazione. 

“Io non so niente, ma mi piace tutto”.

Una delle tante frasi a effetto che Sorrentino inserisce nel film (e nei suoi film in generale), ma anche una delle tante frasi a effetto di cui sono impregnati i film più classici, come ci ricorda più volte la giovane Parthenope che, per un breve periodo, sogna di diventare attrice perché “gli attori nei vecchi film hanno sempre la risposta pronta”.

Quello che fa un’incredibile esordiente come Celeste Dalla Porta nel corso del film è guidarci all’interno del suo mondo (e) quello di Napoli. Se da una parte vediamo una ragazza, a volte tormentata, a volte sicura di sé e determinata a conoscere nuove sfumature, dall’altra vediamo anche il suo corrispettivo, una Napoli elegante, silenziosa, quasi magica, con la sua eccentricità e la sua unicità. Perché Napoli (e Parthenope) è quello che dice la Greta Cool di Luisa Ranieri (per la quale i riferimenti si sprecano), ma è anche molto di più. 

Perché Sorrentino ci guida, tramite la sua protagonista, sia in una storia di crescita, d’amore, d’accettazione e di consapevolezza, ma più di tutto ci guida nella sua Napoli, quella che nasconde al suo interno delle perle di rara bellezza, siano esse una carrozza, un figlio tanto grande quanto tanto adorato o un miracolo, quello di San Gennaro, elevato ormai non più a credenza popolare, ma a consapevolezza nazionale.

“Sei bella e indimenticabile”. Tutto è al contempo materialità e astrattismo. La bellezza vera, giovane, fresca e corporea di Parthenope è esattamente identica alla bellezza universale e immutata di Napoli che, complice il mare, il paesaggio e una fotografia che propone immagini perfette, è veramente indimenticabile per chiunque, dallo spettatore al più fragile dei personaggi destinato a rimanere inerme e indifeso nei confronti di un futuro per lui irraggiungibile, forse perché nel suo silenzio aveva già compreso tutto.

Ogni inquadratura può essere considerata un quadro per come è congegnata, alla Sorrentino, e proprio per questo, nasconde molto più di quello che si può immaginare. Dalle tematiche care al regista allo sviluppo di uno sguardo sempre più deciso e preciso, si passa con disinvoltura alla conoscenza di personaggi eccentrici nella loro normalità e normali nella loro eccentricità (dalla Flora Malva di Isabella Ferrari, celata da un velo nero che vuole coprirle un volto ormai fin troppo deturpato a un Devoto Marotta al quale presta il volto Silvio Orlando, professore universitario che invita a vedere e non a guardare, con un metodo di insegnamento tutt’altro che convenzionale, senza dimenticare l’omaggio a John Cheever di Gary Oldman).

“Quando sai tutto muori triste e solo”.

È quasi impossibile non scrivere di Parthenope partendo e parlando attraverso frasi e citazioni che si inseguono durante tutto il film. E forse, proprio in linea con quest’ultima, è meglio non scardinare troppo un film che poggia le sue solide basi su una visione reale eppure onirica di un mondo che, alla fine, appartiene un po’ a tutti, basta solo riuscire a vederlo.

Prendendo in prestito temi cari al cinema di Sorrentino e volti ormai diventati iconici grazie a lui, il regista napoletano disegna un film anche sulla sua pelle, seppur in maniera minore rispetto al precedente È stata la mano di Dio, ma provando comunque a raccontarsi in un modo in cui solo lui riesce a fare.


Veronica Ranocchi

martedì, ottobre 15, 2024

IL ROBOT SELVAGGIO

Il robot selvaggio

di Chris Sanders

USA, 2024

genere: animazione, fantascienza

durata: 102’

Questa volta sono bastati pochi e semplici ingredienti alla DreamWorks per creare una storia degna di rimanere impressa nel cuore di chiunque.

Uno spazio e un tempo indefiniti fanno da cornice alla storia di Roz, robot multiuso ROZZOM disperso a seguito di un tifone, insieme ad altre cinque unità da una nave cargo della Universal Dynamics. Roz, il cui vero nome è unità ROZZOM 7134, programmata, come tutti gli altri robot, per aiutare e soprattutto per portare a termine un compito, si trova spaesata in un luogo abitato soltanto da animali con i quali inizialmente non riesce a comunicare e che, spaventati, la ribattezzano “il mostro”. Allontanata ed evitata da tutti, Roz pensa di fornire la sua posizione ai produttori per essere recuperata, ma a seguito di un inseguimento distrugge un nido di oche lasciando intatto solo un uovo. Aiutata, in qualche modo, da alcuni degli abitanti del posto, Roz ha un nuovo compito: prendersi cura del piccolo (che la identifica come madre, essendo la prima cosa che vede alla nascita) e aiutarlo a crescere e sopravvivere. Per farlo potrà contare sull’aiuto dell’astuta volpe Fink e non solo…

Il robot selvaggio, nato dalla penna e dai disegni di Peter Brown e diretto da Chris Sanders (che ha all’attivo grandi titoli come Lilo & Stitch, Dragon Trainer, I Croods, tanto per citarne alcuni) è sicuramente un film d’animazione al passo coi tempi.

Dai numerosi temi che emergono sia dalla storia che dai rapporti con i personaggi agli innumerevoli riferimenti e alle citazioni che si sprecano nel corso della narrazione, il film di Sanders regala una visione a metà strada tra il vecchio e il nuovo.

Innanzitutto c’è la scelta di ricorrere a un’animazione volutamente sporcata, imprecisa e imperfetta in alcuni punti. Non siamo di fronte alla perfezione alla quale ci ha abituati la Pixar, ma non siamo nemmeno di fronte ai primi acerbi disegni dei grandi e storici classici Disney. Il robot selvaggio mescola in ogni decisione, sia tecnica che narrativa, l’esperienza del passato con la speranza del futuro e lo fa strizzando l’occhio non solo ai più piccoli, ma anche e soprattutto agli adulti, invitandoli a guardare il mondo da un’altra prospettiva, proprio come Roz.

Amore, amicizia, ecologia, speranza, forza di volontà. L’elenco potrebbe continuare all’infinito talmente sono tanti gli aspetti da dovere e potere analizzare. Ma Il robot selvaggio è anche e soprattutto metafora di vita, la vita di ogni giorno che, tra pericoli, insidie e ostacoli, ci mette di fronte a delle scelte, più o meno importanti non solo per il bene del singolo, ma anche dell’intera comunità.

Identificarsi in Roz è semplice: è l’unico essere non animale del luogo e l’unico essere che cerca fin da subito di comunicare utilizzando un mezzo tutt’altro che animale, la parola, ma è il rapporto che crea con gli altri animali a renderla umana a tutti gli effetti, trasformando anche loro in esseri più vicini a noi, in grado di essere compresi. Ed è così che Fink (un omaggio o un prestito da Zootropolis e il suo riuscito coprotagonista) capisce che forse essere il più furbo del gruppo può avere dei vantaggi in fatto di prede e cibo, ma non lo porterà mai ad avere degli amici. Allo stesso modo Beccolustro (la piccola oca “nata” da mamma Roz) dovrà allargare i suoi orizzonti e comprendere che a volte le cose più semplici sono quelle meno scontate.

Insomma gli insegnamenti sono tanti, alcuni da scavare a fondo, altri che emergono più in superficie, tra un inseguimento e l’altro, una corsa, un addestramento e un’amicizia sempre più forte e solida.

Impossibile non pensare a Wall E guardando Il robot selvaggio, ma se quello che caratterizzava il robot della Pixar era la solitudine, quello che caratterizza Roz è ben altro: qualcosa di profondo e innato in ognuno di noi, da ricercare e salvaguardare costantemente, ma anche da addomesticare (come insegna Il piccolo principe, altro titolo di richiamo).

E se diventa anche divertente cercare di individuare i famigerati Easter Eggs (dalla gamba di legno di Dragon Trainer alla spedizione in volo che ricorda quella per mare di Alla ricerca di Nemo, passando per il Baymax di Big Hero 6 e il suo “quanto valuti da 1 a 10 la mia prestazione?”) è interessante notare come i riferimenti e i richiami siano una sorta di omaggio a dei titoli che è come se, messi tutti insieme, avessero come conclusione proprio la storia de Il robot selvaggio. Una Roz che diventa una sorta di Mary Poppins disposta a strapparsi un cuore artificiale dal suo bagaglio pieno di cose per fare spazio a un cuore vero e accogliere il piccolo Beccolustro con il quale si crea un legame indissolubile e anomalo, alla Sepúlveda, con il suo gatto che è riuscito a insegnare a volare a una gabbianella.


Veronica Ranocchi

mercoledì, ottobre 09, 2024

IL TEMPO CHE CI VUOLE

Il tempo che ci vuole

di Francesca Comencini

con Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 110’

Ci sono diversi modi di realizzare un biopic. Trattandosi di un genere oltremodo popolare la tendenza generale è quella di affidarsi alla fama del protagonista attenendosi a un racconto riepilogativo degli eventi più importanti della sua vita. La mancanza di regole fa si che taluni optino per una rappresentazione capace di risalire al tutto proponendo una o più fasi della stessa esistenza come ha fatto Dennis Boyle per “Steve Jobs”. A valorizzare il genere però è stato più di tutti Christopher Nolan che lo scorso anno ha monopolizzato la stagione dei premi con un film, “Oppenheimer”, che lavorando sulla forma ha saputo superare i limiti del conosciuto per raccontare dal di dentro le contraddizioni del suo personaggio.

Per competenza argomentativa e soprattutto per la capacità di adottare un punto di vista intrinseco alla materia narrata “Il tempo che ci vuole”  nella sua natura di biopic anomalo - pronto a trasfigurare il reale in favore di un racconto emotivo e poetico -, partiva in qualche modo avvantaggiato in virtù del fatto che a raccontare il rapporto tra Luigi Comencini e sua figlia Francesca è proprio quest’ultima, ancora una volta dopo il film d’esordio (“Pianoforte”, 1984) alle prese con un discorso autobiografico che qui si va completando nel ricordo della figura paterna, approfondita nella sua accezione salvifica e dunque negli effetti benefici che ebbe la sua vicinanza nel percorso di guarigione dalla tossicodipendenza.

Se “Pianoforte” era stato per la Comencini un film girato quasi in diretta, nell’intento di oggettivare il ritorno alla vita nella necessità di mettersi alle spalle una volta per tutte l’esperienza più drammatica della propria vita, “Il tempo che ci vuole” è un’opera che ha dovuto aspettare il tempo necessario per essere realizzata e che dunque più di altre ha a che fare con l’età matura. E questo non tanto per il consuntivo esistenziale che il lungometraggio contiene e neanche, come si potrebbe pensare, per un rapporto, quello tra padre e figlia che nei fatti costituisce il centro del racconto. Parafrasando il titolo del film, il tempo che ci vuole è tra le altre cose quello necessario per fare pace con la generazione dei padri che le generazioni sessantottine avevano dichiarato di voler uccidere. Se “Colpire al cuore” per essere stato contiguo agli anni di piombo non poteva far altro che raccontare il rapporto padre figlio nella sua irresolutezza conflittuale, “Il tempo che ci vuole” riesce a smarcarsi dal contesto storico che racconta leggendo quella stagione a distanza di anni e dunque da una prospettiva che gli consente - sotto la spinta della propria esperienza - di guardare a quel rapporto in maniera conciliante.

Legato alla Settima arte per forza di cose, “Il tempo che ci vuole” più che sul cinema e un film sul modo in cui Luigi e Francesca Comencini lo hanno inteso e cioè in maniera minoritaria rispetto alle priorità della vita. In questo senso partendo dalla figura paterna, divisa tra la vita e il set, il film fa del cinema e delle sue incursioni nell’esistenza dei protagonisti una sorta di appendice a un quotidiano che la Comencini decide di trasfigurare attraverso rimembranze che si colorano di continua fantasia. Incastonato all’interno di una cornice che rimanda al sogno e dunque al cinema (ci riferiamo ai frammenti del film in bianco e nero che aprono e concludono il film, quelli in cui vediamo una persona addormentarsi e poi destarsi dal sonno), il racconto si mantiene coerente alla sua premessa prendendo le distanze da qualsiasi naturalismo per abbracciare una visione ideale che pur facendo riferimento a fatti realmente accaduti li reinterpreta alla luce del sentimento di affetto e di riconoscenza della figlia nei confronti del padre.

Raccontando la propria vita e quella del genitore come non era mai stato fatto, immaginandola in esclusiva e cioè senza la presenza (visiva e materiale) di familiari e amici, “Il tempo che ci vuole” adotta un dispositivo che si fa portatore di un nuovo sguardo sulle persone e sulle cose e con esso di una buona dose di libertà artistica. Funzionale al discorso privato e dunque alla volontà di dare conto di un’esperienza eccezionale come lo è stata quella della Comencini con il padre e mentore, il “metodo” utilizzato dall’autrice si porta dietro una freschezza che alleggerisce il discorso evitando all’immaginazione di essere imbrigliata da intellettualismi e autocelebrazioni.

Così facendo ad andare in scena sul grande schermo è una favola nella favola che mescola realtà e finzione nella maniera in cui lo facevano i film di Luigi Comencini, sempre attenti a preservare l’umano dall’invadenza della macchina da presa. “Il tempo che ci vuole” parafrasa il cinema ogni volta che può, talora dando vita a fantasmagorie cinematografiche che rimandano all’universo e alla mitologia condivisa dai due protagonisti (a svettare sono quelle legate al Pinocchio collodiano), altre volte valorizzando attraverso i molti primi piani presenti della seconda parte la forza espressiva degli attori, Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, bravissimi nel dare conto di gioie e dolori mantenendosi sempre sulla soglia di un'essenzialità che non rinuncia all’emozione. Al contrario dei biopic classici, che rincorrono l’interpretazione mimetica per far parlare di sé, “Il tempo che ci vuole” se ne tiene lontano in maniera coerente affidando agli attori la capacità di suscitare i ricordi senza usurparne l’immagine. Presentato fuori concorso all’81 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, per chi scrive “Il tempo che ci vuole” avrebbe meritato una vetrina ancora più prestigiosa.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it) 

venerdì, ottobre 04, 2024

FAMILIA

Familia

di Francesco Costabile

con Francesco Gheghi, Francesco Di Leva, Barbara Ronchi

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 120’

Dopo il debutto forte e impegnato con il suo “Una femmina” Francesco Costabile torna a parlare di tematiche d’impatto con il suo “Familia”.

Un film che dà valore alla vita, (di)mostrando come guardare e rapportarsi con il mondo che si è disposti a creare nella propria esistenza.

La storia di Luigi Celeste inizia quando lui, ancora piccolo, è con il fratello Alessandro ed entrambi sono costretti ad assistere, seppur al di là di una porta a vetri, alla violenza domestica che ha luogo nella loro casa per mano del padre. Franco Celeste (un bravo e detestabile Francesco Di Leva) è accecato da una gelosia morbosa a tal punto da non permettere alla moglie Licia (una dimessa, ma sempre efficace Barbara Ronchi) di condurre una vita normale come tutti. Possessivo al punto da costringerla a dire e fare tutto quello che vuole lui, nel momento in cui lei prova a ribellarsi, la violenza verbale si trasforma in violenza fisica. Queste scene, sempre più frequenti e sempre più spaventose, iniziano a uscire dalle mura domestiche tramite i figli che ne scrivono nei temi scolastici. Una denuncia e un allontanamento forzato del padre portano, però, alla separazione dei due figli dalla madre che, per proteggerli, si trova costretta ad accettare il fatto compiuto. Così i fratelli crescono, prendendo strade diverse, pur rimanendo uniti da quel piccolo-grande segreto familiare, il più grande, Alessandro, interpretato da Marco Cicalese, e il più piccolo, Luigi “Gigi”, interpretato dal giovane talento Francesco Gheghi (premiato a Venezia come miglior attore della sezione Orizzonti).

I sospiri concitati, carichi di preoccupazione e terrore, che si sentono fin dall’inizio, si trasformano nel corso del film, di pari passo con la crescita dei due fratelli, soprattutto di Gigi che, dopo aver millantato nella X MAS, è il primo a cercare una via d’uscita, seppur estrema, dalla situazione in cui lui, Alessandro e la madre si trovano.

Se la Familia del titolo vuole richiamare l’idea di famiglia normale intesa come equilibrata, in realtà quello che il regista vuole suggerire allo spettatore è che ne esistono diversi tipi, non tutti corretti, non tutti uguali, non tutti con le stesse regole. La riflessione è molto più ampia e inizia immediatamente. Due contesti e due rapporti diversi. La madre che evita di toccare l’argomento, cambia serratura e cerca di ovviare al problema non affrontandolo. Il padre che va a prendere i due figli e li porta al parco giochi, li fa (apparentemente) divertire, sperando di trasformarli in burattini nelle sue mani. E proprio dal contrasto di questi due rapporti nasceranno approcci diversi da parte dei due figli, in grado entrambi di reagire, ma non allo stesso modo. Il già più maturo Alessandro, in grado di comprendere fin dalla tenera età, la gravità della situazione cercherà, per quanto possibile, di dimenticare, a differenza di un agguerrito Gigi, in cerca più che altro di un suo posto nel mondo e di un suo autentico concetto di famiglia.

Il suo millantare all’interno del gruppo fascista è soprattutto una ricerca di un’identità che probabilmente non ha mai avuto a casa. Non è un caso, infatti, che solo in quel momento Gigi si senta un figlio, capito (almeno in parte) e aiutato, e non un padre o comunque qualcuno con la responsabilità di dover mandare avanti una famiglia. Ed è sempre lì che incontra Giulia (Tecla Insolia) con la quale sperimenta una sorta di relazione, provando a mettere in pratica insegnamenti che ha appreso autonomamente. Un tira e molla continuo che non sfocia, però, mai nella violenza fisica (fatta eccezione per una spinta). Un tira e molla al quale entrambi cercano di appigliarsi con le unghie e con i denti per non dover affrontare il resto del mondo, ma provando a rimanere nel proprio “caldo” nido come quello di un uccellino che dà vita ai suoi piccoli, covandoli e aspettando che l’uovo si schiuda.

Io non posso più aspettare.

L’impazienza e la determinazione di Luigi evolvono nel corso della narrazione, mostrando una crescita a tratti necessaria, a tratti pericolosa che ben si amalgama non solo con l’interpretazione di Francesco Gheghi che si concede anima e corpo al suo personaggio, ma anche e soprattutto con una regia onnipresente e mai ridondante. Dai continui cambi di sguardi dei personaggi ai movimenti lenti della macchina da presa nei momenti più conviviali e, quindi, notoriamente, più familiari, la regia di Francesco Costabile invita lo spettatore a prestare molta attenzione a ogni singolo elemento in scena. O fuori scena, come la corsa, apparentemente senza confini e senza meta del piccolo Luigi.


Veronica Ranocchi