giovedì, marzo 25, 2010
Banditi a Milano, di Carlo Lizzani
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italia,
Italia '70 - Il cinema a mano armata,
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DAYBREAKERS - L'ultimo vampiro
DAYBRAKERS - L'ultimo vampiro
regia Michael e Peter Spierig
Eppure l’inizio aveva lasciato sperare in qualcosa di diverso: atmosfere fumose rivestite con abiti dal taglio retrò e borsalini calzati all’ultima moda a far da contraltare ad uno scenario di asettica modernità.
Il tutto valorizzato da un campione del cinema di genere, al secolo Ethan Hawke, già protagonista di "Gattaca", a cui "Daybreakers" deve molto, non solo in termini di presenza attoriale.
Poi però servono anche le idee e qui il film si ferma, paralizzato da una serie di luoghi comuni sul vampirismo moderno aggiornati da quel surplus di paradosso che ha creato fenomeni di massa e fatto la fortuna di omologhe serie televisive.
Un argomento di tendenza ma già usurato, a cui "Daybreakers" dà il colpo di grazia per l'intreccio scontato, i personaggi abbozzati ed un dinamismo così poco cinetico da risultare letale in un contesto del genere.
L'umanità è in via di estinzione ed il dottor Edward Dalton, vampiro ed ematologo di una multinazionale farmaceutica (come sempre disonesta e come sempre capeggiata dal cattivo di turno), decide di allearsi con gli umani per creare il virus capace di interrompere la pandemia che li sta decimando: questa la premessa di un nulla condito dalle solite citazioni sociologiche e cinematografiche, e con un finale che lascerebbe intendere pericolose gemmazioni.
A farne le spese, oltre allo spettatore attirato da una confezione ingannevole, anche gli attori, tra cui si distingue Willem Dafoe, colpevolemente recidivo (Anamorph) e qui alle prese con un interpretazione da pesce fuor d’acqua raramente ripetibile.
A questo punto sono meglio le torture di Von Trier.
regia Michael e Peter Spierig
Eppure l’inizio aveva lasciato sperare in qualcosa di diverso: atmosfere fumose rivestite con abiti dal taglio retrò e borsalini calzati all’ultima moda a far da contraltare ad uno scenario di asettica modernità.
Il tutto valorizzato da un campione del cinema di genere, al secolo Ethan Hawke, già protagonista di "Gattaca", a cui "Daybreakers" deve molto, non solo in termini di presenza attoriale.
Poi però servono anche le idee e qui il film si ferma, paralizzato da una serie di luoghi comuni sul vampirismo moderno aggiornati da quel surplus di paradosso che ha creato fenomeni di massa e fatto la fortuna di omologhe serie televisive.
Un argomento di tendenza ma già usurato, a cui "Daybreakers" dà il colpo di grazia per l'intreccio scontato, i personaggi abbozzati ed un dinamismo così poco cinetico da risultare letale in un contesto del genere.
L'umanità è in via di estinzione ed il dottor Edward Dalton, vampiro ed ematologo di una multinazionale farmaceutica (come sempre disonesta e come sempre capeggiata dal cattivo di turno), decide di allearsi con gli umani per creare il virus capace di interrompere la pandemia che li sta decimando: questa la premessa di un nulla condito dalle solite citazioni sociologiche e cinematografiche, e con un finale che lascerebbe intendere pericolose gemmazioni.
A farne le spese, oltre allo spettatore attirato da una confezione ingannevole, anche gli attori, tra cui si distingue Willem Dafoe, colpevolemente recidivo (Anamorph) e qui alle prese con un interpretazione da pesce fuor d’acqua raramente ripetibile.
A questo punto sono meglio le torture di Von Trier.
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anteprime,
recensioni
Film in sala dal 26 marzo 2010
Daddy Sitter
(Old Dogs)
GENERE: Commedia
ANNO: 2008 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Walt Becker
Daybreakers
(Daybreakers)
GENERE: Azione, Drammatico, Horror, Thriller
ANNO: 2009 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: Australia, USA
REGIA: Michael Spierig, Peter Spierig
Dragon Trainer
(How to Train Your Dragon)
GENERE: Animazione
ANNO: 2010 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Dean DeBlois, Chris Sanders
Happy Family
GENERE: Commedia
ANNO: 2010 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Gabriele Salvatores
La Première étoile
(La Première étoile)
GENERE: Commedia
ANNO: 2009 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Lucien Jean-Baptiste
Remember Me
(Remember Me)
GENERE: Drammatico, Romantico
ANNO: 2010 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Allen Coulter
(Old Dogs)
GENERE: Commedia
ANNO: 2008 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Walt Becker
Daybreakers
(Daybreakers)
GENERE: Azione, Drammatico, Horror, Thriller
ANNO: 2009 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: Australia, USA
REGIA: Michael Spierig, Peter Spierig
Dragon Trainer
(How to Train Your Dragon)
GENERE: Animazione
ANNO: 2010 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Dean DeBlois, Chris Sanders
Happy Family
GENERE: Commedia
ANNO: 2010 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Gabriele Salvatores
La Première étoile
(La Première étoile)
GENERE: Commedia
ANNO: 2009 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Lucien Jean-Baptiste
Remember Me
(Remember Me)
GENERE: Drammatico, Romantico
ANNO: 2010 DATA: 26/03/2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Allen Coulter
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film in uscita 2010
mercoledì, marzo 24, 2010
Gli occhi di Penelope (4) - L'UOMO CHE VERRA'
L'UOMO CHE VERRA'
regia di Giorgio Diritti
L’Empire, in piazza Vittorio Veneto a Torino, è uno dei pochi cinema a godere del privilegio di saper preservare l’atmosfera delle sale d’essai di una volta, quelle in cui si andava per investire il proprio tempo libero, magari serale, a favore di un’idea di arte cinematografica che andava affermandosi in maniera sempre più corposa nelle coscienze e nelle preferenze di qualcuno, quella
del cinema alternativo e di sperimentazione.
Un paio di anni fa, ero proprio all’Empire per vedere un film dal nome francamente
impronunciabile: “Odgrobadogroba” (che in italiano vuol dire più o meno “Di tomba in tomba”), una commedia nera slovena che avevo trovato davvero ben riuscita. Nell’altra sala davano un film di un regista a me (allora) sconosciuto, tale Giorgio Diritti, dal titolo “Il vento fa il suo giro”. Ebbi subito la sensazione di avere di fronte un film importante, o quantomeno un titolo poetico ed evocativo.
All’uscita dalla sala, dopo la visione del mio “Odgrobadogroba” che mi aveva riservato delle sorprese insperate - tra le altre cose, due deliziose versioni di “Sex Bomb” e di “I will survive” alla balcanica, con tanto di orchestrina dotata di ottoni, fisarmonica e tamburi al servizio di una delirante “unza-unza-dance”, ed una irriverente versione della celebre romanza “Nessun dorma” della Turandot pucciniana, spassosamente inquinata dal vago sapore partenopeo di “Te voglio bene assaje” - dedicai qualche minuto alla lettura delle recensioni di “Il vento fa il suo giro” esposte in vetrina. Il soggetto mi sembrò molto interessante: un ex insegnante francese si trasferisce in un piccolo paese delle valli cuneesi con tutta la sua famiglia, dove comincia a vivere di pastorizia, sotto gli sguardi diffidenti degli abitanti locali. Un film sulla conoscenza reciproca, genuino, non retorico, a cui qualcuno ha riconosciuto “la forza di un trattato antropologico”, ed in cui si parla addirittura il “patuà”, dialetto delle valli occitane piemontesi. Sempre più incuriosita, consultai quella sera stessa vari dizionari del cinema ed articoli-recensioni online: travolta da quella profusione infinita di “stelle- cinematografiche” e di suggerimenti tipo “Consigliato: Assolutamente Sì”, decisi che quel film sarebbe-Assolutamente!-entrato a far parte del mio bagaglio culturale.
Non sono mai riuscita a vedere quel film. Forse lo avevo scoperto troppo tardi: il tempo di organizzarmi e… puff!... scomparso dalla sala. Quelle cellette che il mio cervello aveva riservato e dedicato a “Il vento fa il suo giro” vennero, col passare dei giorni, utilizzate per altri scopi, peraltro molto meno nobili, ed il ricordo di quella visione mancata fu lentamente ed inesorabilmente insabbiato.
Venerdì 22 Gennaio 2010, uscita del film L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti.
Giorgio Diritti, Gior-gio Di-rit-ti, non mi diceva nulla, anche se… a pensarci bene… decisi che qualcosa mi diceva.
Una oscura associazione di idee mi riportò alla memoria il viso di un guerriero dall’espressione stanca, con la barba incolta, la chioma in disordine e gli occhi infossati. La mia mente aveva anche circondato quella fronte di una inesistente fascetta rossa che si intravvedeva tra i capelli, legata sul didietro, un po’ alla Ninja Turtles, che nel bianco e nero dell’immagine spiccava violentemente. Era
la locandina de “Il vento fa il suo giro”, con l’aggiunta di quel particolare, frutto esclusivo della mia fantasia che aveva sostituito un ornamento semi-bellico (la fascetta) a delle semplici ed espressive rughe frontali.
Dunque, “L’uomo che verrà” è il secondo film di Giorgio Diritti. Questa volta le
bieche logiche del mercato cinematografico non mi hanno fregata.
Il buio della sala non viene interrotto dall’incipit del film: una telecamera indaga nell’oscurità dell’interno di una casa di campagna, salendo e scendendo scalini, scrutando letti disfatti e muri incrostati. Poi, gradualmente, l’alba, il mattino, la luce. Siamo sugli Appennini bolognesi, sulle colline di Monte Sole, dove, nel 1944, la comunità contadina del luogo, che si esprime quasi esclusivamente nel dialetto locale (vecchio e geniale vizio di sceneggiatura!), vive e lavora i propri territori, sempre più alla mercè delle truppe naziste. La rabbia della comunità cresce e si trasforma nel tempo in organizzazioni partigiane ed in lotta esplicita contro quegli invasori e stupratori della tranquillità quotidiana che, con cattiveria strafottente, vengono assiduamente a chiedere loro uova e pane, ed ad osservare lascivi le loro donne. La fine è tristemente nota alla storia con il nome di strage di Marzabotto.
Già le prime scene palesano il carattere realista della pellicola. Come in preda ad un viaggio istantaneo ed inconsapevole, mi sono ritrovata catapultata nel ricordo di una famosissima opera di Ermanno Olmi, “L’albero degli zoccoli”, datata 1978. Forse il racconto della realtà agraria del nord, il suono dei dialetti settentrionali, l’atmosfera colma di particelle di nebbia nel fresco mattino di campagna, la consistenza e l’odore percepiti del terreno umido, le cascine vissute intensamente dai suoi abitanti, l’innocenza dei bambini dai vestiti strappati, la ruvida grettezza degli adulti, gli alberi, gli animali e gli altri elementi della natura, il profumo del pane fatto in quelle case, il crepitio di un fuoco consolatorio, sono tutti i particolari che hanno restituito vitalità ad un ricordo vecchio di almeno trent’anni. Diritti, come Olmi, scruta senza invadenza le vite di questi “cafoni” di una Fontamara emiliana, uomini e donne nati e vissuti nella rassegnazione della propria condizione di inferiorità sociale ed intellettuale (“se siamo nati ignoranti, dobbiamo rimanere ignoranti!”), in bilico tra le pulsioni dell’istinto ed un sincero timor Dei, che omaggiano inconsciamente l’uomo venuto dalla città tappezzando il ricovero a lui riservato di fogli di carta stampata, a rimarcare che
lor signori, sì, non sono cafoni-come-noi. L’arrendevolezza culturale però non uccide l’identità, l’orgoglio e la dignità di questa gente di fronte all’invasore, e questo fa sì che si inneschino dinamiche di inevitabile solidarietà tra simili, rivolte al tentativo della comune sopravvivenza.
Talvolta capita anche che ci si prenda involontariamente gioco del pericolo, e che si mettano tanti bambini in fila davanti ad un muro, e che si tenti di fucilarli tutti con un ramo-fucile; ma è solo la realtà di quella fanciullezza infelice cui anche il gioco della morte può divertire.
La speranza nel futuro è affidata all’”uomo che verrà”, custodito attentamente nella pancia di una delle protagoniste (Maya Sansa) che si affida a sua volta ad una impotente Madonna incinta intrappolata in una nicchia di montagna, ed allo sguardo di una bambina muta, Martina, dal cui punto di vista è osservata tutta la vicenda, non con lo scopo di addolcire e rabbonire la rude verità, ma piuttosto con quello di riportare allo spettatore la cronaca dei fatti depurata da ogni sorta di giudizio. La Natura è l’incontestata co-protagonista della storia, ed assume il ruolo di madre
assoluta e protettrice di quelle anime derelitte: le sfama e veglia su di loro offrendosi come rifugio accogliente nel momento del bisogno. A questo proposito, di notevole impatto è la scena dell’uomo che si nasconde nel ventre di un grosso albero per scappare alle truppe naziste. Ed ecco costituitasi una trinità sacra: l’Uomo, il Divino, la Natura. Ognuno di essi porta in grembo l’”uomo che verrà”: il nascituro nella protagonista, il Gesù nella Madonna, l’uomo rifugiato nella Natura. La trinità
affida il proprio compito di salvatrice ultima alla piccola Martina, che si batterà fino all’incoscienza per proteggere e preservare la vita del piccolo fratellino con un genuino istinto materno.
Il regista è decisamente ispirato e riesce a dosare in maniera perfetta la fissità delle immagini ed il movimento dei piani sequenza, le oscurità con le luci ed i colori, riuscendo in una fotografia dal carattere divino, dove il cielo dalle nuvole piene, i prati, la terra e le vallate sanno comunicare, e dove anche le ignare lucciole parlano di magia allo spettatore. Diritti si concede un unico strappo
alla regola del realismo: un ralenti nella sequenza culmine dell’esecuzione degli innocenti, dove tutto sembra fermarsi, le vene si raggelano, incluse quelle del pubblico in sala.
Anche la scelta delle facce della gente dona rigore ed onestà alla pellicola (in effetti, molti interpreti sono non professionisti): difficile ricordarsi di essere davanti a degli attori quando si guardano i visi di Maya Sansa e di Alba Rohrwacher, così autenticamente contadini, l’uno scuro dallo sguardo penetrante che racconta la fatica del lavoro nei campi, l’altro diafano e sciupato dalla pungente
purezza dell’aria di montagna. Per non citare l’importante prestazione di Claudio Casadio, uomo rubato al teatro, di cui anche le rughe ci sanno parlare di sofferenza.
regia di Giorgio Diritti
L’Empire, in piazza Vittorio Veneto a Torino, è uno dei pochi cinema a godere del privilegio di saper preservare l’atmosfera delle sale d’essai di una volta, quelle in cui si andava per investire il proprio tempo libero, magari serale, a favore di un’idea di arte cinematografica che andava affermandosi in maniera sempre più corposa nelle coscienze e nelle preferenze di qualcuno, quella
del cinema alternativo e di sperimentazione.
Un paio di anni fa, ero proprio all’Empire per vedere un film dal nome francamente
impronunciabile: “Odgrobadogroba” (che in italiano vuol dire più o meno “Di tomba in tomba”), una commedia nera slovena che avevo trovato davvero ben riuscita. Nell’altra sala davano un film di un regista a me (allora) sconosciuto, tale Giorgio Diritti, dal titolo “Il vento fa il suo giro”. Ebbi subito la sensazione di avere di fronte un film importante, o quantomeno un titolo poetico ed evocativo.
All’uscita dalla sala, dopo la visione del mio “Odgrobadogroba” che mi aveva riservato delle sorprese insperate - tra le altre cose, due deliziose versioni di “Sex Bomb” e di “I will survive” alla balcanica, con tanto di orchestrina dotata di ottoni, fisarmonica e tamburi al servizio di una delirante “unza-unza-dance”, ed una irriverente versione della celebre romanza “Nessun dorma” della Turandot pucciniana, spassosamente inquinata dal vago sapore partenopeo di “Te voglio bene assaje” - dedicai qualche minuto alla lettura delle recensioni di “Il vento fa il suo giro” esposte in vetrina. Il soggetto mi sembrò molto interessante: un ex insegnante francese si trasferisce in un piccolo paese delle valli cuneesi con tutta la sua famiglia, dove comincia a vivere di pastorizia, sotto gli sguardi diffidenti degli abitanti locali. Un film sulla conoscenza reciproca, genuino, non retorico, a cui qualcuno ha riconosciuto “la forza di un trattato antropologico”, ed in cui si parla addirittura il “patuà”, dialetto delle valli occitane piemontesi. Sempre più incuriosita, consultai quella sera stessa vari dizionari del cinema ed articoli-recensioni online: travolta da quella profusione infinita di “stelle- cinematografiche” e di suggerimenti tipo “Consigliato: Assolutamente Sì”, decisi che quel film sarebbe-Assolutamente!-entrato a far parte del mio bagaglio culturale.
Non sono mai riuscita a vedere quel film. Forse lo avevo scoperto troppo tardi: il tempo di organizzarmi e… puff!... scomparso dalla sala. Quelle cellette che il mio cervello aveva riservato e dedicato a “Il vento fa il suo giro” vennero, col passare dei giorni, utilizzate per altri scopi, peraltro molto meno nobili, ed il ricordo di quella visione mancata fu lentamente ed inesorabilmente insabbiato.
Venerdì 22 Gennaio 2010, uscita del film L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti.
Giorgio Diritti, Gior-gio Di-rit-ti, non mi diceva nulla, anche se… a pensarci bene… decisi che qualcosa mi diceva.
Una oscura associazione di idee mi riportò alla memoria il viso di un guerriero dall’espressione stanca, con la barba incolta, la chioma in disordine e gli occhi infossati. La mia mente aveva anche circondato quella fronte di una inesistente fascetta rossa che si intravvedeva tra i capelli, legata sul didietro, un po’ alla Ninja Turtles, che nel bianco e nero dell’immagine spiccava violentemente. Era
la locandina de “Il vento fa il suo giro”, con l’aggiunta di quel particolare, frutto esclusivo della mia fantasia che aveva sostituito un ornamento semi-bellico (la fascetta) a delle semplici ed espressive rughe frontali.
Dunque, “L’uomo che verrà” è il secondo film di Giorgio Diritti. Questa volta le
bieche logiche del mercato cinematografico non mi hanno fregata.
Il buio della sala non viene interrotto dall’incipit del film: una telecamera indaga nell’oscurità dell’interno di una casa di campagna, salendo e scendendo scalini, scrutando letti disfatti e muri incrostati. Poi, gradualmente, l’alba, il mattino, la luce. Siamo sugli Appennini bolognesi, sulle colline di Monte Sole, dove, nel 1944, la comunità contadina del luogo, che si esprime quasi esclusivamente nel dialetto locale (vecchio e geniale vizio di sceneggiatura!), vive e lavora i propri territori, sempre più alla mercè delle truppe naziste. La rabbia della comunità cresce e si trasforma nel tempo in organizzazioni partigiane ed in lotta esplicita contro quegli invasori e stupratori della tranquillità quotidiana che, con cattiveria strafottente, vengono assiduamente a chiedere loro uova e pane, ed ad osservare lascivi le loro donne. La fine è tristemente nota alla storia con il nome di strage di Marzabotto.
Già le prime scene palesano il carattere realista della pellicola. Come in preda ad un viaggio istantaneo ed inconsapevole, mi sono ritrovata catapultata nel ricordo di una famosissima opera di Ermanno Olmi, “L’albero degli zoccoli”, datata 1978. Forse il racconto della realtà agraria del nord, il suono dei dialetti settentrionali, l’atmosfera colma di particelle di nebbia nel fresco mattino di campagna, la consistenza e l’odore percepiti del terreno umido, le cascine vissute intensamente dai suoi abitanti, l’innocenza dei bambini dai vestiti strappati, la ruvida grettezza degli adulti, gli alberi, gli animali e gli altri elementi della natura, il profumo del pane fatto in quelle case, il crepitio di un fuoco consolatorio, sono tutti i particolari che hanno restituito vitalità ad un ricordo vecchio di almeno trent’anni. Diritti, come Olmi, scruta senza invadenza le vite di questi “cafoni” di una Fontamara emiliana, uomini e donne nati e vissuti nella rassegnazione della propria condizione di inferiorità sociale ed intellettuale (“se siamo nati ignoranti, dobbiamo rimanere ignoranti!”), in bilico tra le pulsioni dell’istinto ed un sincero timor Dei, che omaggiano inconsciamente l’uomo venuto dalla città tappezzando il ricovero a lui riservato di fogli di carta stampata, a rimarcare che
lor signori, sì, non sono cafoni-come-noi. L’arrendevolezza culturale però non uccide l’identità, l’orgoglio e la dignità di questa gente di fronte all’invasore, e questo fa sì che si inneschino dinamiche di inevitabile solidarietà tra simili, rivolte al tentativo della comune sopravvivenza.
Talvolta capita anche che ci si prenda involontariamente gioco del pericolo, e che si mettano tanti bambini in fila davanti ad un muro, e che si tenti di fucilarli tutti con un ramo-fucile; ma è solo la realtà di quella fanciullezza infelice cui anche il gioco della morte può divertire.
La speranza nel futuro è affidata all’”uomo che verrà”, custodito attentamente nella pancia di una delle protagoniste (Maya Sansa) che si affida a sua volta ad una impotente Madonna incinta intrappolata in una nicchia di montagna, ed allo sguardo di una bambina muta, Martina, dal cui punto di vista è osservata tutta la vicenda, non con lo scopo di addolcire e rabbonire la rude verità, ma piuttosto con quello di riportare allo spettatore la cronaca dei fatti depurata da ogni sorta di giudizio. La Natura è l’incontestata co-protagonista della storia, ed assume il ruolo di madre
assoluta e protettrice di quelle anime derelitte: le sfama e veglia su di loro offrendosi come rifugio accogliente nel momento del bisogno. A questo proposito, di notevole impatto è la scena dell’uomo che si nasconde nel ventre di un grosso albero per scappare alle truppe naziste. Ed ecco costituitasi una trinità sacra: l’Uomo, il Divino, la Natura. Ognuno di essi porta in grembo l’”uomo che verrà”: il nascituro nella protagonista, il Gesù nella Madonna, l’uomo rifugiato nella Natura. La trinità
affida il proprio compito di salvatrice ultima alla piccola Martina, che si batterà fino all’incoscienza per proteggere e preservare la vita del piccolo fratellino con un genuino istinto materno.
Il regista è decisamente ispirato e riesce a dosare in maniera perfetta la fissità delle immagini ed il movimento dei piani sequenza, le oscurità con le luci ed i colori, riuscendo in una fotografia dal carattere divino, dove il cielo dalle nuvole piene, i prati, la terra e le vallate sanno comunicare, e dove anche le ignare lucciole parlano di magia allo spettatore. Diritti si concede un unico strappo
alla regola del realismo: un ralenti nella sequenza culmine dell’esecuzione degli innocenti, dove tutto sembra fermarsi, le vene si raggelano, incluse quelle del pubblico in sala.
Anche la scelta delle facce della gente dona rigore ed onestà alla pellicola (in effetti, molti interpreti sono non professionisti): difficile ricordarsi di essere davanti a degli attori quando si guardano i visi di Maya Sansa e di Alba Rohrwacher, così autenticamente contadini, l’uno scuro dallo sguardo penetrante che racconta la fatica del lavoro nei campi, l’altro diafano e sciupato dalla pungente
purezza dell’aria di montagna. Per non citare l’importante prestazione di Claudio Casadio, uomo rubato al teatro, di cui anche le rughe ci sanno parlare di sofferenza.
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recensione
giovedì, marzo 18, 2010
IL PROFETA
Il PROFETA
regia di Jacques Audiard
recensione di Nickoftime del 12-6-2009
La scelta di ambientare una storia all’interno del carcere dove il protagonista (Malik) viene rinchiuso, è di per sé significativa ed individua una nuova tendenza del cinema francese, che già l’anno scorso si era imposto all’attenzione del pubblico con un film (La classe) obbligato all’interno di uno spazio circoscritto. Strutture materiali e della mente che obbligano le persone a confrontarsi con le proprie paure attraverso un percorso in cui la riprogrammazione dell’individuo, attuata con i metodi coercitivi della convivenza coatta e della separazione dal mondo esterno, diventa la possibilità di una riscoperta quotidiana, ottenuta con decisioni dolorose (Malik è costretto ad uccidere per salvarsi la vita e diventa il promotore di un escalation di terribile violenza) ed inevitabilmente destinata a ribaltare le posizioni di partenza.
Senza rinunciare alle regole del cinema di genere, enfatizzate dalla presenza di un avversario tanto forte quanto mefistofelico (il boss corso Cesar Luciani), vero e proprio Imperatore circondato da una corte di accoliti, e monopolizzate dallo scontro di due personalità opposte ma unite dal bisogno di sopravvivere all’evidenza dei fatti (per Malik un esistenza segnata dalle proprie origini, per Luciani la consapevolezza di un ergastolo improrogabile), Audiard realizza un microcosmo che riproduce su scala ridotta le problematiche di un paese alle prese con i fantasmi di un integrazione realizzata solo a parole e costretta a confrontarsi con la rabbia di chi viene emarginato.
Una dimensione parallela e dimenticata che il giovane magrebino porta a galla in maniera paradigmatica nel corso della storia, con l’alienazione delle fasi iniziali, in cui la chiusura è logica reazione alla novità del paesaggio, e poi nel conformismo dei momenti successivi, quello dell’apprendistato mascherato dal più vile servilismo e caratterizzato da un gioco di specchi in cui Malik sperimenta sugli altri le forme del potere che ha subito, per arrivare ad una presa di coscienza che definisce l’individuo e lo propone sulla ribalta con le proprie aspirazioni.
Audiard spazza via la società cosiddetta “civile”(nel film la lingua francese è sinonimo di minoranza) per scoperchiare i gangli di un malessere che è connaturato ad un modello di vita darwinista e verso il quale non è possibile proporre ricette (la ratio del film è il frutto di una nevrosi che diventa quasi patologica quando il protagonista accetta i suggerimenti dal fantasma dell’uomo che ha ammazzato o individua nella realtà i segni premonitori dei suoi incubi notturni) o soluzioni.
Un materiale in continuo divenire che Audiard riesce a fissare attraverso un linguaggio ridotto all’essenziale, con restringimenti di campo e piccoli sussulti della telecamera che individuano lo stato d’animo di un personaggio, e con dettagli come la scelta di un vestito od il taglio di capelli che danno il senso di un avvenuto cambiamento. Eccellente nella direzione degli attori il regista ci regala due figure che entrano nella testa dalla porta principale e ci rimangono grazie ad una recitazione che privilegia l’impatto emotivo alla fascinazione dell’aspetto, dando vita ad una sfida senza esclusione di colpi che ricorda quella tra Davide e Golia, a patto di sostituire il mito con un overdose di realtà.
regia di Jacques Audiard
recensione di Nickoftime del 12-6-2009
La scelta di ambientare una storia all’interno del carcere dove il protagonista (Malik) viene rinchiuso, è di per sé significativa ed individua una nuova tendenza del cinema francese, che già l’anno scorso si era imposto all’attenzione del pubblico con un film (La classe) obbligato all’interno di uno spazio circoscritto. Strutture materiali e della mente che obbligano le persone a confrontarsi con le proprie paure attraverso un percorso in cui la riprogrammazione dell’individuo, attuata con i metodi coercitivi della convivenza coatta e della separazione dal mondo esterno, diventa la possibilità di una riscoperta quotidiana, ottenuta con decisioni dolorose (Malik è costretto ad uccidere per salvarsi la vita e diventa il promotore di un escalation di terribile violenza) ed inevitabilmente destinata a ribaltare le posizioni di partenza.
Senza rinunciare alle regole del cinema di genere, enfatizzate dalla presenza di un avversario tanto forte quanto mefistofelico (il boss corso Cesar Luciani), vero e proprio Imperatore circondato da una corte di accoliti, e monopolizzate dallo scontro di due personalità opposte ma unite dal bisogno di sopravvivere all’evidenza dei fatti (per Malik un esistenza segnata dalle proprie origini, per Luciani la consapevolezza di un ergastolo improrogabile), Audiard realizza un microcosmo che riproduce su scala ridotta le problematiche di un paese alle prese con i fantasmi di un integrazione realizzata solo a parole e costretta a confrontarsi con la rabbia di chi viene emarginato.
Una dimensione parallela e dimenticata che il giovane magrebino porta a galla in maniera paradigmatica nel corso della storia, con l’alienazione delle fasi iniziali, in cui la chiusura è logica reazione alla novità del paesaggio, e poi nel conformismo dei momenti successivi, quello dell’apprendistato mascherato dal più vile servilismo e caratterizzato da un gioco di specchi in cui Malik sperimenta sugli altri le forme del potere che ha subito, per arrivare ad una presa di coscienza che definisce l’individuo e lo propone sulla ribalta con le proprie aspirazioni.
Audiard spazza via la società cosiddetta “civile”(nel film la lingua francese è sinonimo di minoranza) per scoperchiare i gangli di un malessere che è connaturato ad un modello di vita darwinista e verso il quale non è possibile proporre ricette (la ratio del film è il frutto di una nevrosi che diventa quasi patologica quando il protagonista accetta i suggerimenti dal fantasma dell’uomo che ha ammazzato o individua nella realtà i segni premonitori dei suoi incubi notturni) o soluzioni.
Un materiale in continuo divenire che Audiard riesce a fissare attraverso un linguaggio ridotto all’essenziale, con restringimenti di campo e piccoli sussulti della telecamera che individuano lo stato d’animo di un personaggio, e con dettagli come la scelta di un vestito od il taglio di capelli che danno il senso di un avvenuto cambiamento. Eccellente nella direzione degli attori il regista ci regala due figure che entrano nella testa dalla porta principale e ci rimangono grazie ad una recitazione che privilegia l’impatto emotivo alla fascinazione dell’aspetto, dando vita ad una sfida senza esclusione di colpi che ricorda quella tra Davide e Golia, a patto di sostituire il mito con un overdose di realtà.
ALICE IN WONDERLAND
ALICE IN WONDERLAND
di Tim Burton
"Quasi affatto" (per citare il brucaliffo) è utile fare confronti tra cinema e letteratura perché un film dovrebbe sempre reggersi sulle proprie gambe ed essere apprezzato come lavoro a sè stante – oppure reggersi sulle proprie zampe ed essere accarezzato sotto il mento.
Detto questo, Tim Burton, nella sua rivisitazione delle avventure di Alice, ha affondato le mani nei racconti di Lewis Carroll cercando di sfidare l’impossibile, ovvero di dare un senso cinematografico ai personaggi e alle vicende che per la mente matematica di Carroll, alle prese con i divertissment della logica, non sono che rappresentazioni di universi algebrici in cui si celebrano gaudenti festival di equazioni di secondo grado e in cui si scontrano suggestivi sistemi di disequazioni irrazionali provocando turbinii di logaritmi di quozienti e sturm und drang di radicali doppi (fa molto menu nouvelle cuisine…).
E da questa sfida Burton non ne esce troppo poco vincente ma nemmeno nient’affatto perdente, se così fosse stato lo poteva essere, se non lo fosse non lo sarebbe :-))
Del suo lavoro è interessante e a tratti coinvolgente l’impianto scenico ricco di elementi gotici e di bizzarrie anatomiche che sono il suo marchio di fabbrica (Helena B.C è perfetta nel ruolo di macrocefala regina rossa), mentre la storia, i protagonisti e lo scopo nel loro insieme danno al film una sensazione di incompiutezza: l’esplorazione del mondo dell’assurdo rimane purtroppo fredda e priva di quella carica emotiva e drammatica necessaria per poter assurgere a viaggio alla scoperta del sé interiore con conseguente risveglio e liberazione catartica.
Mia Wasikowska – che per tutto il film mi chiedevo a chi somigliasse e ora l’ho capito: sembra la versione femminile del calciatore Andrij Shevchenko – è un’inconsistente Alice poco convincente nella sua missione di rendere possibile l’impossibile, missione cui, con il proseguire della narrazione, si sovrappone il compito oneroso di riscoprirsi artefice del proprio destino che finisce per eleggere Alice a ruolo di paladina dell’emancipazione femminile – l’armatura d’argento modello Giovanna d’arco le sta da dio.
Gianni Depp è un credibile incredibile cappellaio matto ed è piuttosto sopportabile nella sua ennesima performance gigionesca che insieme al cospicuo trucco e parrucco restituisce un personaggio malinconico che fa anche tenerezza.
Dunque, di ritorno dalla tana del bianconiglio non tutto è da buttare…. I momenti di noia sono tutto sommato compensati da piccole cose strambe e divertenti che strappano qualche risata e salvano il film, le più memorabili riguardano il maiale poggiapiedi, la mobilia animata e i conati di vomito dell’ironica regina bianca Anne Hatheway.
Un’ultima considerazione sul 3D: non è spinto e aggiunge poco o nulla al talento visionario di Burton - del quale, credo, la regina Rossa non ordinerà di tagliare la testa.
Ma c’è una domanda che ancora non trova risposta:
voi sapete perché un corvo assomiglia ad una scrivania?
di Tim Burton
"Quasi affatto" (per citare il brucaliffo) è utile fare confronti tra cinema e letteratura perché un film dovrebbe sempre reggersi sulle proprie gambe ed essere apprezzato come lavoro a sè stante – oppure reggersi sulle proprie zampe ed essere accarezzato sotto il mento.
Detto questo, Tim Burton, nella sua rivisitazione delle avventure di Alice, ha affondato le mani nei racconti di Lewis Carroll cercando di sfidare l’impossibile, ovvero di dare un senso cinematografico ai personaggi e alle vicende che per la mente matematica di Carroll, alle prese con i divertissment della logica, non sono che rappresentazioni di universi algebrici in cui si celebrano gaudenti festival di equazioni di secondo grado e in cui si scontrano suggestivi sistemi di disequazioni irrazionali provocando turbinii di logaritmi di quozienti e sturm und drang di radicali doppi (fa molto menu nouvelle cuisine…).
E da questa sfida Burton non ne esce troppo poco vincente ma nemmeno nient’affatto perdente, se così fosse stato lo poteva essere, se non lo fosse non lo sarebbe :-))
Del suo lavoro è interessante e a tratti coinvolgente l’impianto scenico ricco di elementi gotici e di bizzarrie anatomiche che sono il suo marchio di fabbrica (Helena B.C è perfetta nel ruolo di macrocefala regina rossa), mentre la storia, i protagonisti e lo scopo nel loro insieme danno al film una sensazione di incompiutezza: l’esplorazione del mondo dell’assurdo rimane purtroppo fredda e priva di quella carica emotiva e drammatica necessaria per poter assurgere a viaggio alla scoperta del sé interiore con conseguente risveglio e liberazione catartica.
Mia Wasikowska – che per tutto il film mi chiedevo a chi somigliasse e ora l’ho capito: sembra la versione femminile del calciatore Andrij Shevchenko – è un’inconsistente Alice poco convincente nella sua missione di rendere possibile l’impossibile, missione cui, con il proseguire della narrazione, si sovrappone il compito oneroso di riscoprirsi artefice del proprio destino che finisce per eleggere Alice a ruolo di paladina dell’emancipazione femminile – l’armatura d’argento modello Giovanna d’arco le sta da dio.
Gianni Depp è un credibile incredibile cappellaio matto ed è piuttosto sopportabile nella sua ennesima performance gigionesca che insieme al cospicuo trucco e parrucco restituisce un personaggio malinconico che fa anche tenerezza.
Dunque, di ritorno dalla tana del bianconiglio non tutto è da buttare…. I momenti di noia sono tutto sommato compensati da piccole cose strambe e divertenti che strappano qualche risata e salvano il film, le più memorabili riguardano il maiale poggiapiedi, la mobilia animata e i conati di vomito dell’ironica regina bianca Anne Hatheway.
Un’ultima considerazione sul 3D: non è spinto e aggiunge poco o nulla al talento visionario di Burton - del quale, credo, la regina Rossa non ordinerà di tagliare la testa.
Ma c’è una domanda che ancora non trova risposta:
voi sapete perché un corvo assomiglia ad una scrivania?
Film in sala dal 19 marzo 2010
E' complicato
(It's Complicated)
GENERE: Commedia, Romantico
ANNO: 2009 DATA: 19/03/2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Nancy Meyers
Fuori controllo
(Edge of Darkness)
GENERE: Thriller
ANNO: 2009 DATA: 19/03/2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Martin Campbell
Il profeta
(Un prophète)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2009 DATA: 19/03/2010
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Jacques Audiard
Io sono l'amore
GENERE: Drammatico, Romantico
ANNO: 2009 DATA: 19/03/2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Luca Guadagnino
Tutto l'amore del mondo
GENERE: Commedia, Romantico, Sentimentale
ANNO: 2009 DATA: 19/03/2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Riccardo Grandi
(It's Complicated)
GENERE: Commedia, Romantico
ANNO: 2009 DATA: 19/03/2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Nancy Meyers
Fuori controllo
(Edge of Darkness)
GENERE: Thriller
ANNO: 2009 DATA: 19/03/2010
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Martin Campbell
Il profeta
(Un prophète)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2009 DATA: 19/03/2010
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Jacques Audiard
Io sono l'amore
GENERE: Drammatico, Romantico
ANNO: 2009 DATA: 19/03/2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Luca Guadagnino
Tutto l'amore del mondo
GENERE: Commedia, Romantico, Sentimentale
ANNO: 2009 DATA: 19/03/2010
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Riccardo Grandi
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film in uscita 2010
mercoledì, marzo 17, 2010
REVANCHE - TI UCCIDERO'
REVANCHE - TI UCCIDERO'
Regia: Gotz Spielmann
Il ladruncolo Alex (Krisch) si guadagna da vivere come tuttofare in un bordello ed ha una relazione con Tamara (Potapenko), una prostituta che esercita nello stesso locale.
Quando gli amanti intuiscono che il proprietario del bordello sospetta fortemente che tra i due esista una relazione, decidono di fuggire per non incappare nelle ritorsioni del boss e dei suoi scagnozzi.
Per procurasi il denaro necessario Alex e Tamara rapinano una piccola banca di un anonimo paesino, tutto sembra andare per il meglio, ma il casuale intervento del poliziotto Robert porterà all'uccisione involontaria di Tamara.
Da quel momento l'unico pensiero di Alex sarà la vendetta, ma la sua esistenza andrà a sbattere contro quella di Robert e Susan, lui poliziotto e marito premuroso caduto in depressione dopo l'uccisione di Tamara, lei commessa che ha il solo scopo di avere un figlio che il marito non riesce a dargli.
Il regista austriaco disegna questo REVANCHE come una tragedia classica, arricchendola con una trama solo apparentemente semplice, ma in realtà molto più complessa e ricca di colpi di scena che vengono serviti allo spettatore senza clamore ma quasi sottovoce.
Spielmann è bravo a descrivere lo squallore delle esistenze dei due protagonisti; Lui è un fallito, un ladruncolo di periferia, un emarginato, finito a fare un lavoro umiliante; lei una ragazza ucraina che fa la prostituta e che sopporta con rassegnazione lo squallore del "mestiere" fatto di mani invadenti, angherie di ogni tipo, sperma e violenza.
Alex e Tamara, due sconfitti che mettono insieme le loro vite offese usando come collante un amore disperato che ha la sola funzione di fornire speranza in un qualsiasi futuro.
Sguardi pieni d'odio, silenzi, attese, questi gli ingredienti di questo noir spiazzante, carico di tensione e dalle atmosfere rarefatte che indaga sull'odio, il peccato e l'egoismo.
Sorprendente la scelta di ambientare un noir (da sempre di ambientazione cittadina) nella campagna austriaca e regia che ammicca ad alcuni grandi maestri europei (Haneke, e per alcuni aspetti Kaurismaki) con la mdp fissa quasi a delineare l'oppressione delle esistenze dei protagonisti.
Candidato all'Oscar 2009 come miglior film straniero.
Tipico esempio di film europeo che il pubblico italiano raramente premia al botteghino.
Sbagliando.
Regia: Gotz Spielmann
Il ladruncolo Alex (Krisch) si guadagna da vivere come tuttofare in un bordello ed ha una relazione con Tamara (Potapenko), una prostituta che esercita nello stesso locale.
Quando gli amanti intuiscono che il proprietario del bordello sospetta fortemente che tra i due esista una relazione, decidono di fuggire per non incappare nelle ritorsioni del boss e dei suoi scagnozzi.
Per procurasi il denaro necessario Alex e Tamara rapinano una piccola banca di un anonimo paesino, tutto sembra andare per il meglio, ma il casuale intervento del poliziotto Robert porterà all'uccisione involontaria di Tamara.
Da quel momento l'unico pensiero di Alex sarà la vendetta, ma la sua esistenza andrà a sbattere contro quella di Robert e Susan, lui poliziotto e marito premuroso caduto in depressione dopo l'uccisione di Tamara, lei commessa che ha il solo scopo di avere un figlio che il marito non riesce a dargli.
Il regista austriaco disegna questo REVANCHE come una tragedia classica, arricchendola con una trama solo apparentemente semplice, ma in realtà molto più complessa e ricca di colpi di scena che vengono serviti allo spettatore senza clamore ma quasi sottovoce.
Spielmann è bravo a descrivere lo squallore delle esistenze dei due protagonisti; Lui è un fallito, un ladruncolo di periferia, un emarginato, finito a fare un lavoro umiliante; lei una ragazza ucraina che fa la prostituta e che sopporta con rassegnazione lo squallore del "mestiere" fatto di mani invadenti, angherie di ogni tipo, sperma e violenza.
Alex e Tamara, due sconfitti che mettono insieme le loro vite offese usando come collante un amore disperato che ha la sola funzione di fornire speranza in un qualsiasi futuro.
Sguardi pieni d'odio, silenzi, attese, questi gli ingredienti di questo noir spiazzante, carico di tensione e dalle atmosfere rarefatte che indaga sull'odio, il peccato e l'egoismo.
Sorprendente la scelta di ambientare un noir (da sempre di ambientazione cittadina) nella campagna austriaca e regia che ammicca ad alcuni grandi maestri europei (Haneke, e per alcuni aspetti Kaurismaki) con la mdp fissa quasi a delineare l'oppressione delle esistenze dei protagonisti.
Candidato all'Oscar 2009 come miglior film straniero.
Tipico esempio di film europeo che il pubblico italiano raramente premia al botteghino.
Sbagliando.
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recensioni
martedì, marzo 16, 2010
Gli occhi di Penelope (3) – IL CONCERTO
IL CONCERTO
Un giorno degli inizi di Dicembre 2008, dietro consiglio di un collega col quale credo di condividere un certo gusto per il buon cinema, decisi di iscrivermi ad un corso: "Il mestiere del critico dal cinema ai nuovi media". Per i sei mesi successivi, ho trascorso tutte le settimane in attesa di quell’appuntamento del Venerdì sera, che mi vedeva uscire di soppiatto dall’ufficio ed imboccare la strada per la metropolitana. Fermata Porta Nuova, e poi giù per la meravigliosa, e pedonale, via Lagrange, a Torino. Ogni Venerdì, stesso itinerario, per raggiungere l’incantevole Galleria Subalpina di piazza Castello, sede dell’AIACE.
Il corso prevedeva la preparazione di un lavoro finale, il progetto di un intervento critico.
La passione per il cinema e per la musica mi ha portato a fondere e confondere le due arti nel mio progetto di fine corso, che si prefiggeva di raccontare la musica nel cinema, e di analizzarla nel suo divenire protagonista della scena. Il mio interesse era quindi rivolto ad approfondire il connubio tra i due linguaggi, musicale e cinematografico. A questo scopo, ho voluto scegliere, come modello ed esempio, un universo musicale che ha sempre esercitato su di me un fascino magnetico, quello caratteristico dei popoli in continuo movimento, capaci di vivere profondamente le proprie tradizioni in musica e allo stesso tempo di rielaborarne l’essenza, cullati dagli spostamenti spaziali e temporali. La musica fa tappa, con gli uomini, nei luoghi visitati, ed incontrando nuove culture e tradizioni, muta, si trasforma, accoglie l’intuizione del diverso e si contamina, dando origine ad una metamorfosi che arricchisce se stessa ed il suo ospite. Poi riparte, e ricomincia la trasformazione, fino a far perdere di vista, quasi completamente, le coordinate dello spazio e del tempo. Ed è così che la musica dei gitani, partita in tempi antichissimi dalla lontana India, si colora delle sonorità balcaniche e rom nell’Europa dell’est, incorpora il temperamento iberico tramutandosi in flamenco, e regala i natali, in terra franco-belga, ad un genio assoluto di nome Django Reinhard, padre del jazz Manouche.
Con gli zingari, in moto perenne e quasi sempre volontario, anche gli ebrei, sebbene costretti alla diaspora. Ed è stato proprio mentre progettavo il mio intervento critico “La musica delle diaspore va in scena” che ho avuto l’occasione di rivivere e riscoprire quello che considero uno dei momenti cinematografici più belli e commoventi dedicati all’incontro musicale tra due culture, quella gitana e quella ebraica, così intimamente diverse, ma che un destino comune ha reso spesso molto somiglianti. Il film da cui ho tratto l’intera scena di un duello musicale tra le due comunità, combattuto a suon di clarinetti e violini, balli e canti yiddish e ottoni tzigani, colorate danze zingare e il più ordinato ma non meno corpulento entusiasmo ebraico, che trova la sua naturale risoluzione in una delirante festa comunitaria, in cui cedono all’estasi del ballo anche due pseudo guardie naziste, è “Train de vie – Un treno per vivere”, grande successo di Radu Mihaileanu.
Il regista romeno, di formazione cinematografica francese, ha sempre testimoniato, attraverso le sue opere, una enorme generosità nei confronti della musica, che spesso è musica della sua gente e della sua terra. Con “Train de vie” sembra quasi voler celebrare la sua stessa vita, quella di un ebreo di Bucarest, figlio di comunisti, il cui cognome avrebbe evocato l’incanto delle atmosfere yiddish, se non fosse stato modificato, dopo il disastro nazista, in uno dal suono decisamente più romeno. E così, l’incontro-scontro tra le due culture e la mutua trasformazione vivono e prendono corpo nei suoi film, allo stesso modo in cui l’anima ebrea e quella tzigana si plasmano e si modellano a vicenda nell’uomo Mihaileanu, dando luogo ad una convivenza vivace e cinematograficamente prolifica.
Con il suo ultimo film “Il concerto”, Mihaileanu concede a se stesso ed ai suoi spettatori il rapimento sublime della musica classica. Andreï Filipov, un direttore d’orchestra moscovita caduto in disgrazia durante il regime di Breznev per aver difeso alcuni suoi orchestrali ebrei, trascorre gli ultimi trent’anni della sua vita facendo le pulizie al Bolshoi di Mosca. Fino a quando, un giorno, l’intercettazione involontaria di un fax gli cambia l’esistenza: un teatro parigino, lo Chatelet, invita l’orchestra del Bolshoi a tenere un concerto. Quel “Concerto per violino e orchestra” di Tchaikovsky, rimasto sospeso nell’anima del direttore e da lui stesso interrotto per combattere al fianco dei suoi amici ebrei, sognato per decenni, rinasce nella mente e nel cuore febbricitanti di Andreï. Così comincia una grottesca avventura che vede la vecchia compagnia di orchestrali riunirsi dopo trent’anni, e spacciarsi per la grande orchestra del Bolshoi.
La creatività favolistica ed il rigore del classico si mescolano dando luogo ad una bizzarra alchimia, che pare essere dominata dai numeri. Mihaileanu sembra quasi voler affidare alla matematica il ruolo di giudice supremo, di genitrice artistica della musica che, proprio come fa una madre, cerca di imporre le sue regole all’estro filiale. Si conta durante tutto il film: i partecipanti alle manifestazioni politiche, ai matrimoni kitsch dei nuovi borghesi russi, alle nostalgiche riunioni di partito. E poi naturalmente si contano gli orchestrali, i soldi, i compensi. I numeri, però, sono quasi sempre raggiunti a stento, e si fa fatica, si lotta per cercare di rimanere agganciati a quell’ideale matematico di perfezione, sino a sacrificare l’austerità dei comportamenti, in nome di quel principio machiavellico che esalta i fini e giustifica i mezzi. Il numero diventa ossessione ed oppressione, e la svolta giunge con un fragoroso e liberatorio “non rompere i coglioni con i numeri!!!”.
Raccolti tutti i membri dell’orchestra, alcuni dei quali recuperati nei relativi campi rom d’appartenenza - Mihaileanu cita se stesso in “Train de vie” quando ripropone la vita nei campi, i balli e i canti attorno alle roulotte illuminate dalla luce fioca dei falò, gli abiti delle donne lucenti di folklore gitano, e i denti d’oro degli uomini dal violino manouche - comincia il divertente viaggio verso Parigi. Il regista si diletta non poco con i luoghi comuni costruiti dal mondo occidentale sui suoi personaggi, e diverte lo spettatore giocando con il “temperamento slavo”, con la maniacale propensione ebraica verso il commercio ed il denaro, con la spiccata tendenza dei nomadi alla malavita ed alla dispersione (seppur nella città romantica, con tanto di comprensione!), con la supremazia cinese nel mondo dei cellulari, con i miti del comunismo russo ridotti a piccole matrioske, e col gas a cui l’occidente non può permettersi di rinunciare, anche a costo di sopportare le innocue minacce di un fastidioso ed egocentrico magnate russo. Infine, non si può non notare lo sgambetto birichino che viene rivolto alla popolazione colta francese, quella che frequenta i teatri e le grandi orchestre internazionali, che, nel suo essere bacchettona, crede davvero di essere davanti alla (improbabile) grande orchestra del Bolshoi.
Controparte dell’inverosimile e del grottesco è la componente melodrammatica della storia, la cui intensità viene spesso sottolineata dall’uso del bianco e nero sulle immagini sfocate della memoria di Andreï. La follia di quell’impresa, il profondo affetto per la giovane violinista francese, l’amore smisurato per la musica, il riscatto di Andreï direttore e uomo, e con lui quello dei musicisti ghettizzati trent’anni prima, il ricordo della dolorosa deportazione e della triste fine dell’amica violinista di un tempo, confluiscono vorticosamente nell’agognata esecuzione del “Concerto per violino e orchestra” di Tchaikovsky. Tutti, russi, zingari ed ebrei sono chiamati a condividere la stessa magia e si ritrovano uniti dal potere travolgente della musica. Infatti, la musica si impossessa inesorabilmente della scena, spazzando via qualsiasi altro elemento della storia, ridotto a semplice dettaglio. Il pubblico in sala si sostituisce inconsapevolmente alla platea del teatro parigino, e vive il crescendo di emozioni come se stesse davvero assistendo a quel concerto. Cadono tutte le barriere tra lo spettatore ed il film, e campeggia una sola certezza, sapientemente guidata dalle espressive mani del direttore, quella della musica di Tchaikovsky nelle orecchie e nei cuori di chi è presente, con l’impulso strozzato di applaudire, alla fine.
A vincere (e convincere) sono la bacchetta spezzata di Andreï portatrice di dolorosi ricordi, la condivisione estatica interna alla pseudo orchestra, le voluttuose emozioni suscitate nello spettatore, tutti elementi di un film che non ha generi, o che forse li contiene tutti quanti. L’incantesimo di quando il cinema incontra la musica.
Un giorno degli inizi di Dicembre 2008, dietro consiglio di un collega col quale credo di condividere un certo gusto per il buon cinema, decisi di iscrivermi ad un corso: "Il mestiere del critico dal cinema ai nuovi media". Per i sei mesi successivi, ho trascorso tutte le settimane in attesa di quell’appuntamento del Venerdì sera, che mi vedeva uscire di soppiatto dall’ufficio ed imboccare la strada per la metropolitana. Fermata Porta Nuova, e poi giù per la meravigliosa, e pedonale, via Lagrange, a Torino. Ogni Venerdì, stesso itinerario, per raggiungere l’incantevole Galleria Subalpina di piazza Castello, sede dell’AIACE.
Il corso prevedeva la preparazione di un lavoro finale, il progetto di un intervento critico.
La passione per il cinema e per la musica mi ha portato a fondere e confondere le due arti nel mio progetto di fine corso, che si prefiggeva di raccontare la musica nel cinema, e di analizzarla nel suo divenire protagonista della scena. Il mio interesse era quindi rivolto ad approfondire il connubio tra i due linguaggi, musicale e cinematografico. A questo scopo, ho voluto scegliere, come modello ed esempio, un universo musicale che ha sempre esercitato su di me un fascino magnetico, quello caratteristico dei popoli in continuo movimento, capaci di vivere profondamente le proprie tradizioni in musica e allo stesso tempo di rielaborarne l’essenza, cullati dagli spostamenti spaziali e temporali. La musica fa tappa, con gli uomini, nei luoghi visitati, ed incontrando nuove culture e tradizioni, muta, si trasforma, accoglie l’intuizione del diverso e si contamina, dando origine ad una metamorfosi che arricchisce se stessa ed il suo ospite. Poi riparte, e ricomincia la trasformazione, fino a far perdere di vista, quasi completamente, le coordinate dello spazio e del tempo. Ed è così che la musica dei gitani, partita in tempi antichissimi dalla lontana India, si colora delle sonorità balcaniche e rom nell’Europa dell’est, incorpora il temperamento iberico tramutandosi in flamenco, e regala i natali, in terra franco-belga, ad un genio assoluto di nome Django Reinhard, padre del jazz Manouche.
Con gli zingari, in moto perenne e quasi sempre volontario, anche gli ebrei, sebbene costretti alla diaspora. Ed è stato proprio mentre progettavo il mio intervento critico “La musica delle diaspore va in scena” che ho avuto l’occasione di rivivere e riscoprire quello che considero uno dei momenti cinematografici più belli e commoventi dedicati all’incontro musicale tra due culture, quella gitana e quella ebraica, così intimamente diverse, ma che un destino comune ha reso spesso molto somiglianti. Il film da cui ho tratto l’intera scena di un duello musicale tra le due comunità, combattuto a suon di clarinetti e violini, balli e canti yiddish e ottoni tzigani, colorate danze zingare e il più ordinato ma non meno corpulento entusiasmo ebraico, che trova la sua naturale risoluzione in una delirante festa comunitaria, in cui cedono all’estasi del ballo anche due pseudo guardie naziste, è “Train de vie – Un treno per vivere”, grande successo di Radu Mihaileanu.
Il regista romeno, di formazione cinematografica francese, ha sempre testimoniato, attraverso le sue opere, una enorme generosità nei confronti della musica, che spesso è musica della sua gente e della sua terra. Con “Train de vie” sembra quasi voler celebrare la sua stessa vita, quella di un ebreo di Bucarest, figlio di comunisti, il cui cognome avrebbe evocato l’incanto delle atmosfere yiddish, se non fosse stato modificato, dopo il disastro nazista, in uno dal suono decisamente più romeno. E così, l’incontro-scontro tra le due culture e la mutua trasformazione vivono e prendono corpo nei suoi film, allo stesso modo in cui l’anima ebrea e quella tzigana si plasmano e si modellano a vicenda nell’uomo Mihaileanu, dando luogo ad una convivenza vivace e cinematograficamente prolifica.
Con il suo ultimo film “Il concerto”, Mihaileanu concede a se stesso ed ai suoi spettatori il rapimento sublime della musica classica. Andreï Filipov, un direttore d’orchestra moscovita caduto in disgrazia durante il regime di Breznev per aver difeso alcuni suoi orchestrali ebrei, trascorre gli ultimi trent’anni della sua vita facendo le pulizie al Bolshoi di Mosca. Fino a quando, un giorno, l’intercettazione involontaria di un fax gli cambia l’esistenza: un teatro parigino, lo Chatelet, invita l’orchestra del Bolshoi a tenere un concerto. Quel “Concerto per violino e orchestra” di Tchaikovsky, rimasto sospeso nell’anima del direttore e da lui stesso interrotto per combattere al fianco dei suoi amici ebrei, sognato per decenni, rinasce nella mente e nel cuore febbricitanti di Andreï. Così comincia una grottesca avventura che vede la vecchia compagnia di orchestrali riunirsi dopo trent’anni, e spacciarsi per la grande orchestra del Bolshoi.
La creatività favolistica ed il rigore del classico si mescolano dando luogo ad una bizzarra alchimia, che pare essere dominata dai numeri. Mihaileanu sembra quasi voler affidare alla matematica il ruolo di giudice supremo, di genitrice artistica della musica che, proprio come fa una madre, cerca di imporre le sue regole all’estro filiale. Si conta durante tutto il film: i partecipanti alle manifestazioni politiche, ai matrimoni kitsch dei nuovi borghesi russi, alle nostalgiche riunioni di partito. E poi naturalmente si contano gli orchestrali, i soldi, i compensi. I numeri, però, sono quasi sempre raggiunti a stento, e si fa fatica, si lotta per cercare di rimanere agganciati a quell’ideale matematico di perfezione, sino a sacrificare l’austerità dei comportamenti, in nome di quel principio machiavellico che esalta i fini e giustifica i mezzi. Il numero diventa ossessione ed oppressione, e la svolta giunge con un fragoroso e liberatorio “non rompere i coglioni con i numeri!!!”.
Raccolti tutti i membri dell’orchestra, alcuni dei quali recuperati nei relativi campi rom d’appartenenza - Mihaileanu cita se stesso in “Train de vie” quando ripropone la vita nei campi, i balli e i canti attorno alle roulotte illuminate dalla luce fioca dei falò, gli abiti delle donne lucenti di folklore gitano, e i denti d’oro degli uomini dal violino manouche - comincia il divertente viaggio verso Parigi. Il regista si diletta non poco con i luoghi comuni costruiti dal mondo occidentale sui suoi personaggi, e diverte lo spettatore giocando con il “temperamento slavo”, con la maniacale propensione ebraica verso il commercio ed il denaro, con la spiccata tendenza dei nomadi alla malavita ed alla dispersione (seppur nella città romantica, con tanto di comprensione!), con la supremazia cinese nel mondo dei cellulari, con i miti del comunismo russo ridotti a piccole matrioske, e col gas a cui l’occidente non può permettersi di rinunciare, anche a costo di sopportare le innocue minacce di un fastidioso ed egocentrico magnate russo. Infine, non si può non notare lo sgambetto birichino che viene rivolto alla popolazione colta francese, quella che frequenta i teatri e le grandi orchestre internazionali, che, nel suo essere bacchettona, crede davvero di essere davanti alla (improbabile) grande orchestra del Bolshoi.
Controparte dell’inverosimile e del grottesco è la componente melodrammatica della storia, la cui intensità viene spesso sottolineata dall’uso del bianco e nero sulle immagini sfocate della memoria di Andreï. La follia di quell’impresa, il profondo affetto per la giovane violinista francese, l’amore smisurato per la musica, il riscatto di Andreï direttore e uomo, e con lui quello dei musicisti ghettizzati trent’anni prima, il ricordo della dolorosa deportazione e della triste fine dell’amica violinista di un tempo, confluiscono vorticosamente nell’agognata esecuzione del “Concerto per violino e orchestra” di Tchaikovsky. Tutti, russi, zingari ed ebrei sono chiamati a condividere la stessa magia e si ritrovano uniti dal potere travolgente della musica. Infatti, la musica si impossessa inesorabilmente della scena, spazzando via qualsiasi altro elemento della storia, ridotto a semplice dettaglio. Il pubblico in sala si sostituisce inconsapevolmente alla platea del teatro parigino, e vive il crescendo di emozioni come se stesse davvero assistendo a quel concerto. Cadono tutte le barriere tra lo spettatore ed il film, e campeggia una sola certezza, sapientemente guidata dalle espressive mani del direttore, quella della musica di Tchaikovsky nelle orecchie e nei cuori di chi è presente, con l’impulso strozzato di applaudire, alla fine.
A vincere (e convincere) sono la bacchetta spezzata di Andreï portatrice di dolorosi ricordi, la condivisione estatica interna alla pseudo orchestra, le voluttuose emozioni suscitate nello spettatore, tutti elementi di un film che non ha generi, o che forse li contiene tutti quanti. L’incantesimo di quando il cinema incontra la musica.
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sabato, marzo 13, 2010
Mine vaganti
MINE VAGANTI
di Ferzan Ozpetek
Con MINE VAGANTI, ambientato in una Lecce solare e splendente, Ozpetek unisce l'ironia che da sempre lo contraddistingue alla profondità degli argomenti trattati, percorrendo la via della commedia pura, seppure un po' patinata, come forse non era ancora riuscito a fare.
In questo nuovo lungometraggio il regista turco affronta i temi a lui più cari quali la famiglia, la omosessualità, la ricerca della propria dimensione e strada, alla scoperta delle personali vocazioni, mettendo in scena una commedia umana e privata, non priva di momenti tragici.
Tommaso (Riccardo Scamarcio) torna a Lecce dopo la laurea per aiutare la famiglia nella gestione del pastificio. Manca da casa da molti anni, da quando è partito per Roma per studiare. Il padre lo sapeva laureando in economia e lo attende da tempo alla porta di casa per affidare a lui, ed al fratello maggiore Antonio (A. Preziosi) le redini dell'azienda.
Tommaso, introverso e gentile, gradualmente cerca di riabituarsi alle non semplici geometrie famigliari e riprende il dialogo con Antonio con cui non parla da molto tempo e al quale confida l'intenzione di dichiarare in famiglia il proprio disinteresse per l'azienda e la propria omosessualità. Il gesto avrebbe di certo gettato scompiglio in tutti e scatenato le ire del padre bigotto e orgoglioso, con l'auspicato suo vantaggio di essere cacciato di casa e quindi liberato di un fardello che non vuole portare. Ma Tommaso non sembra essere così sicuro delle proprie intenzioni, come cerca di far vedere, anzi, sembra cercare in lui un coraggio e una chiarezza non ancora definiti.
Si apprende ben presto che Tommaso ha aspirazioni da scrittore e non da manager e che a Roma ha studiato lettere e frequentato l'ambiente omosessuale. A Roma lo attende Marco e tutta una vita da costruire secondo i suoi sogni.
Ad una cena di famiglia con il futuro socio di azienda, Tommaso sta per fare le tanto pesanti dichiarazioni. Ma è Antonio, con sorpresa e sgomento generale, a rivoltare le carte in tavola, rubandogli la parola e parlando ai genitori di se stesso, in un coming out spiazzante: da sempre omosessuale Antonio si dichiara stanco di nascondersi e di fingere. Non è il figlio maggiore che il padre aveva sempre pensato di avere e reclama la propria libertà.
Ed è da qui che tutto inizia, è da qui che si sviluppano le storie di tutti i personaggi, intessendo un mosaico corale che aiuterà Tommaso a trovare la via giusta per sè.
Ozpetek intreccia molte storie su tre livelli narrativi: i nonni, i genitori e i figli rappresentano tre generazioni a confrontro che si scontrano e si inseguono alla continua ricerca della verità privata e da condividere. Ozpetek sfrutta ancora una volta i flash back e mescola passato al presente in un continuo intreccio, fino ad un finale felliniano in cui i personaggi del passato si uniscono a quelli del presente in una danza di pace e di unione.
Ma in MINE VAGANTI ritroviamo anche richiami alla iconografia omosessuale di Gus Van Sant, senza però mai raggiungerne la perfezione e l'emotività di sguardo.
E c'è anche tanto cinema di Ozpetek stesso, forse in una involontaria citazione di se stesso. MINE VAGANTI è fitto di banchetti e cene: il cibo non manca mai ed anche in questa occasione è il campo in cui potersi incontrare, aprire, parlare, è il mezzo attraverso il quale esprimere i propri stati d'animo, da cui trarre vita (si pensi al pastificio) e la morte.
La musica sottolinea il tono ironico e e lo sguardo leggero dell'opera e la sceneggiatura, ben strutturata, sfodera dialoghi allo stesso tempo godibili e di spessore.
Ozpetek racconta tragedie e catarsi di famiglia sempre con gradevole lievità e misurato candore.
Gli si perdonano la eccessiva patinatura e perfezione di messa in scena, soprattutto nell'apprezzare i carateristi scelti nel casting.
Bravo Scamarcio in un ruolo delicato e difficile da mettere in scena. Molto apprazzabili tutti gli ali altri attori (Elena Sofia Ricci quasi irriconoscibile e credibile, Lunetta Savino forse solo un po' forzata, Preziosi bellissimo e naturale), eccezion fatta, a mio personale parere, per Fantastichini che risulta purtroppo un po' troppo caricato, spesso al limite del grottesco.
Ma in una commedia, in questa, che mi ha fatto ridere e riflettere e star bene e che ti fa uscire dalla sala col cuore leggero, può starci tutto.
Voto 7
di Ferzan Ozpetek
Con MINE VAGANTI, ambientato in una Lecce solare e splendente, Ozpetek unisce l'ironia che da sempre lo contraddistingue alla profondità degli argomenti trattati, percorrendo la via della commedia pura, seppure un po' patinata, come forse non era ancora riuscito a fare.
In questo nuovo lungometraggio il regista turco affronta i temi a lui più cari quali la famiglia, la omosessualità, la ricerca della propria dimensione e strada, alla scoperta delle personali vocazioni, mettendo in scena una commedia umana e privata, non priva di momenti tragici.
Tommaso (Riccardo Scamarcio) torna a Lecce dopo la laurea per aiutare la famiglia nella gestione del pastificio. Manca da casa da molti anni, da quando è partito per Roma per studiare. Il padre lo sapeva laureando in economia e lo attende da tempo alla porta di casa per affidare a lui, ed al fratello maggiore Antonio (A. Preziosi) le redini dell'azienda.
Tommaso, introverso e gentile, gradualmente cerca di riabituarsi alle non semplici geometrie famigliari e riprende il dialogo con Antonio con cui non parla da molto tempo e al quale confida l'intenzione di dichiarare in famiglia il proprio disinteresse per l'azienda e la propria omosessualità. Il gesto avrebbe di certo gettato scompiglio in tutti e scatenato le ire del padre bigotto e orgoglioso, con l'auspicato suo vantaggio di essere cacciato di casa e quindi liberato di un fardello che non vuole portare. Ma Tommaso non sembra essere così sicuro delle proprie intenzioni, come cerca di far vedere, anzi, sembra cercare in lui un coraggio e una chiarezza non ancora definiti.
Si apprende ben presto che Tommaso ha aspirazioni da scrittore e non da manager e che a Roma ha studiato lettere e frequentato l'ambiente omosessuale. A Roma lo attende Marco e tutta una vita da costruire secondo i suoi sogni.
Ad una cena di famiglia con il futuro socio di azienda, Tommaso sta per fare le tanto pesanti dichiarazioni. Ma è Antonio, con sorpresa e sgomento generale, a rivoltare le carte in tavola, rubandogli la parola e parlando ai genitori di se stesso, in un coming out spiazzante: da sempre omosessuale Antonio si dichiara stanco di nascondersi e di fingere. Non è il figlio maggiore che il padre aveva sempre pensato di avere e reclama la propria libertà.
Ed è da qui che tutto inizia, è da qui che si sviluppano le storie di tutti i personaggi, intessendo un mosaico corale che aiuterà Tommaso a trovare la via giusta per sè.
Ozpetek intreccia molte storie su tre livelli narrativi: i nonni, i genitori e i figli rappresentano tre generazioni a confrontro che si scontrano e si inseguono alla continua ricerca della verità privata e da condividere. Ozpetek sfrutta ancora una volta i flash back e mescola passato al presente in un continuo intreccio, fino ad un finale felliniano in cui i personaggi del passato si uniscono a quelli del presente in una danza di pace e di unione.
Ma in MINE VAGANTI ritroviamo anche richiami alla iconografia omosessuale di Gus Van Sant, senza però mai raggiungerne la perfezione e l'emotività di sguardo.
E c'è anche tanto cinema di Ozpetek stesso, forse in una involontaria citazione di se stesso. MINE VAGANTI è fitto di banchetti e cene: il cibo non manca mai ed anche in questa occasione è il campo in cui potersi incontrare, aprire, parlare, è il mezzo attraverso il quale esprimere i propri stati d'animo, da cui trarre vita (si pensi al pastificio) e la morte.
La musica sottolinea il tono ironico e e lo sguardo leggero dell'opera e la sceneggiatura, ben strutturata, sfodera dialoghi allo stesso tempo godibili e di spessore.
Ozpetek racconta tragedie e catarsi di famiglia sempre con gradevole lievità e misurato candore.
Gli si perdonano la eccessiva patinatura e perfezione di messa in scena, soprattutto nell'apprezzare i carateristi scelti nel casting.
Bravo Scamarcio in un ruolo delicato e difficile da mettere in scena. Molto apprazzabili tutti gli ali altri attori (Elena Sofia Ricci quasi irriconoscibile e credibile, Lunetta Savino forse solo un po' forzata, Preziosi bellissimo e naturale), eccezion fatta, a mio personale parere, per Fantastichini che risulta purtroppo un po' troppo caricato, spesso al limite del grottesco.
Ma in una commedia, in questa, che mi ha fatto ridere e riflettere e star bene e che ti fa uscire dalla sala col cuore leggero, può starci tutto.
Voto 7
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italia,
recensioni
venerdì, marzo 12, 2010
Eastwood attualmente sta girando il thriller soprannaturale 'Hereafter'
Roma, 11 marzo 2010 - Senza un attimo di tregua. Clint Eastwood - attualmente impegnato alla lavorazione del thriller soprannaturale Hereafter - già pensa al prossimo progetto.
Il film sarà incentrato sulla figura di J. Edgar Hoover, storico capo dell'FBI che - dal 1935 - contribuì in modo determinante ad affinare la struttura per combattere il crimine organizzato. Rimasto a capo dell'FBI, 48 anni, fino alla morte, avvenuta nel '72, Hoover non si è mai sposato, dando adito già a partire dagli anni '40 ad insistenti voci sulla sua presunta omosessualità.
Prodotto dallo stesso Eastwood, insieme a Brian Grazer, alla Malpaso di Robert Lorenz e alla Imagine Entertainment di Ron Howard, il film sarà basato su uno script di Dustin Lance Black, premio Oscar per la sceneggiatura originale di 'Milk', diretto da Gus Van Sant, che lo scorso anno portò alla statuetta anche Sean Penn, miglior attore protagonista.
(fonte Il Giorno)
Il film sarà incentrato sulla figura di J. Edgar Hoover, storico capo dell'FBI che - dal 1935 - contribuì in modo determinante ad affinare la struttura per combattere il crimine organizzato. Rimasto a capo dell'FBI, 48 anni, fino alla morte, avvenuta nel '72, Hoover non si è mai sposato, dando adito già a partire dagli anni '40 ad insistenti voci sulla sua presunta omosessualità.
Prodotto dallo stesso Eastwood, insieme a Brian Grazer, alla Malpaso di Robert Lorenz e alla Imagine Entertainment di Ron Howard, il film sarà basato su uno script di Dustin Lance Black, premio Oscar per la sceneggiatura originale di 'Milk', diretto da Gus Van Sant, che lo scorso anno portò alla statuetta anche Sean Penn, miglior attore protagonista.
(fonte Il Giorno)
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popcorn
giovedì, marzo 11, 2010
Il missionario
IL MISSIONARIO
Regia di Roger Delattre
Mario (Bigard) dopo sette anni passati in galera per il furto compiuto ai danni di una gioielleria, viene rilasciato per buona condotta.
Ad attenderlo ci sono i suoi due complici che reclamano la propria parte di bottino e che alle resistenze di Mario, prima fanno saltare in aria l'auto e poi danno fuoco alla casa del loro ex socio.
Sentitosi in pericolo, Mario chiede aiuto a suo fratello Patrick (Strajmayster) giovane prete che lo invia da Padre Etienne, sacerdote in uno sperduto paesino dell'Ardèche, dove potrà nascondersi fingendosi seminarista.
Indossata la tonaca il burbero Mario raggiunge il paese, dove viene accolto dal sindaco e dalle autorità che pensano sia il nuovo parroco, visto che nella notte Padre Etienne è morto.
Come il fortunatissimo GIU' AL NORD, anche IL MISSIONARIO fa dell'ironia su abitudini, costumi e usi degli abitanti della provincia francese.
L'esordiente regista, anche se la storia non è originalissima, realizza una commediola leggera e piacevole, mai volgare, tutta giocata sugli equivoci che propone anche una riflessione sull'eterno contrasto tra ebrei e musulmani.
Giocando con il galeotto falso prete, che con i suoi modi bruschi riesce a risolvere i problemi dei suoi parrocchiani e con il giovane vero prete represso che scopre le gioie materiali della vita, vengono messe in scena le debolezze dell'uomo ma anche i grandi slanci di generosità.
Regia di Roger Delattre
Mario (Bigard) dopo sette anni passati in galera per il furto compiuto ai danni di una gioielleria, viene rilasciato per buona condotta.
Ad attenderlo ci sono i suoi due complici che reclamano la propria parte di bottino e che alle resistenze di Mario, prima fanno saltare in aria l'auto e poi danno fuoco alla casa del loro ex socio.
Sentitosi in pericolo, Mario chiede aiuto a suo fratello Patrick (Strajmayster) giovane prete che lo invia da Padre Etienne, sacerdote in uno sperduto paesino dell'Ardèche, dove potrà nascondersi fingendosi seminarista.
Indossata la tonaca il burbero Mario raggiunge il paese, dove viene accolto dal sindaco e dalle autorità che pensano sia il nuovo parroco, visto che nella notte Padre Etienne è morto.
Come il fortunatissimo GIU' AL NORD, anche IL MISSIONARIO fa dell'ironia su abitudini, costumi e usi degli abitanti della provincia francese.
L'esordiente regista, anche se la storia non è originalissima, realizza una commediola leggera e piacevole, mai volgare, tutta giocata sugli equivoci che propone anche una riflessione sull'eterno contrasto tra ebrei e musulmani.
Giocando con il galeotto falso prete, che con i suoi modi bruschi riesce a risolvere i problemi dei suoi parrocchiani e con il giovane vero prete represso che scopre le gioie materiali della vita, vengono messe in scena le debolezze dell'uomo ma anche i grandi slanci di generosità.
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recensioni
Film in sala dal 12 marzo 2010
Appuntamento con l'amore
(Valentine's Day)
GENERE: Commedia, Romantico
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Garry Marshall
Chloe
(Chloe)
GENERE: Drammatico, Thriller
NAZIONALITÀ: Canada, Francia, USA
REGIA: Atom Egoyan
Donne senza uomini
(Zanan-e bedun-e mardan)
GENERE: Commedia, Drammatico, Storico
NAZIONALITÀ: Germania
REGIA: Shirin Neshat
La valigia sul letto
GENERE: Commedia
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Eduardo Tartaglia
Legion
(Legion)
GENERE: Horror, Thriller, Fantasy
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Scott Stewart
Mine vaganti
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Ferzan Ozpetek
Percy Jackson e gli Dei dell'Olimpo: Il ladro di fulmini
(Percy Jackson & the Olympians: The Lightning Thief)
GENERE: Commedia, Fantasy
NAZIONALITÀ: Canada, USA
REGIA: Chris Columbus
(Valentine's Day)
GENERE: Commedia, Romantico
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Garry Marshall
Chloe
(Chloe)
GENERE: Drammatico, Thriller
NAZIONALITÀ: Canada, Francia, USA
REGIA: Atom Egoyan
Donne senza uomini
(Zanan-e bedun-e mardan)
GENERE: Commedia, Drammatico, Storico
NAZIONALITÀ: Germania
REGIA: Shirin Neshat
La valigia sul letto
GENERE: Commedia
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Eduardo Tartaglia
Legion
(Legion)
GENERE: Horror, Thriller, Fantasy
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Scott Stewart
Mine vaganti
GENERE: Drammatico
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Ferzan Ozpetek
Percy Jackson e gli Dei dell'Olimpo: Il ladro di fulmini
(Percy Jackson & the Olympians: The Lightning Thief)
GENERE: Commedia, Fantasy
NAZIONALITÀ: Canada, USA
REGIA: Chris Columbus
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film in uscita 2010
martedì, marzo 09, 2010
The hurt locker
The hurt locker
regia di K. Bigelow
(pubblicato da Nickoftime il 24 ottobre 2008)
Lo sfondo ricorda il paesaggio lunare che appartiene ai luoghi dell’anima ma anche a quelli desunti dalla cronaca del tempo presente: la guerra come dimensione che annichilisce la dignità dell’uomo e la riduce, attraverso i suoi simboli più vistosi (le insegne, la divisa, le armi) in una ad una componente del meccanismo che la alimenta. Ma è lì, nel cuore del problema, che tutto si azzera e la retorica della democrazia si trasforma in una lotta contro il tempo: quello della bomba che sta per esplodere, ossessivo ed onnipresente, ma anche quello della tregua, scandito dal conto alla rovescia che accompagna e sottolinea in maniera drammatica, per il sentore di non riuscire ad arrivare al traguardo, le missioni di una squadra di artificieri nella capitale irachena.
E’ proprio laggiù, tra macerie reali (desunte dal contesto contingente) e metaforiche (quelle che appartengono alla vita dei tre protagonisti) che la Bigelow organizza il "rendez vous" con il suo cinema, tornando a respirare la libertà ed il dinamismo delle produzioni a basso budget. Un ritorno sulla terra, a base di “macchina a mano ed olio di gomito”, per denudare la notizia e restituircela nella crudezza della sua complessità.
La cronaca giornaliera, roboante ed adrenalinica quanto basta per stimolare le sinapsi dell’autrice, si mescola con i sentimenti di un privato tratteggiato in maniera minimalista ed imploso negli sguardi di quegli uomini e nella reticenza delle loro parole.
Americano nel privilegiare l’azione all’astrazione, "The Hurt Locker" non tralascia niente di questa sporca guerra: ci sono bambini che muoiono e soldati che uccidono, c’è l’onnipotenza di chi si crede vincitore ma anche il sudore freddo della paura. Ma è soprattutto il senso di tragica fatalità, continuamente presente negli sviluppi e nelle conclusioni delle vicende che occupano la scena e reso tangibile nel protagonista principale, un soldato che non può fare a meno della guerra- dopo i vampiri de "Il buio si avvicina" ed i surfisti di "Point break", la Bigelow ripropone con successo un personaggio "Addicted" - che il film riesce a superare le barriere del genere, diventando ben presto un resoconto sulla condizione umana.
Se la messa in scena della guerra appare estremamente veritiera, convince la volontà della Bigelow di dare un nome a coloro che la combattono, al di là delle ideologie e delle ragioni di parte.
Un cast di quasi sconosciuti (Makie l’avevamo visto in "She hate me" di Spike Lee e nel mai distribuito "Half Nelson", film nominato all’Oscar per la formidabile interpretazione di Ryan Gosling) e due star (Ralph Fiennes e Guy Pierce) che scompaiono quasi subito ci danno il senso di un opera che riduce le distanze e punta dritta al cuore dello spettatore.
K. Bigelow ha vinto l'oscar 2010 come miglior regista.
regia di K. Bigelow
(pubblicato da Nickoftime il 24 ottobre 2008)
Lo sfondo ricorda il paesaggio lunare che appartiene ai luoghi dell’anima ma anche a quelli desunti dalla cronaca del tempo presente: la guerra come dimensione che annichilisce la dignità dell’uomo e la riduce, attraverso i suoi simboli più vistosi (le insegne, la divisa, le armi) in una ad una componente del meccanismo che la alimenta. Ma è lì, nel cuore del problema, che tutto si azzera e la retorica della democrazia si trasforma in una lotta contro il tempo: quello della bomba che sta per esplodere, ossessivo ed onnipresente, ma anche quello della tregua, scandito dal conto alla rovescia che accompagna e sottolinea in maniera drammatica, per il sentore di non riuscire ad arrivare al traguardo, le missioni di una squadra di artificieri nella capitale irachena.
E’ proprio laggiù, tra macerie reali (desunte dal contesto contingente) e metaforiche (quelle che appartengono alla vita dei tre protagonisti) che la Bigelow organizza il "rendez vous" con il suo cinema, tornando a respirare la libertà ed il dinamismo delle produzioni a basso budget. Un ritorno sulla terra, a base di “macchina a mano ed olio di gomito”, per denudare la notizia e restituircela nella crudezza della sua complessità.
La cronaca giornaliera, roboante ed adrenalinica quanto basta per stimolare le sinapsi dell’autrice, si mescola con i sentimenti di un privato tratteggiato in maniera minimalista ed imploso negli sguardi di quegli uomini e nella reticenza delle loro parole.
Americano nel privilegiare l’azione all’astrazione, "The Hurt Locker" non tralascia niente di questa sporca guerra: ci sono bambini che muoiono e soldati che uccidono, c’è l’onnipotenza di chi si crede vincitore ma anche il sudore freddo della paura. Ma è soprattutto il senso di tragica fatalità, continuamente presente negli sviluppi e nelle conclusioni delle vicende che occupano la scena e reso tangibile nel protagonista principale, un soldato che non può fare a meno della guerra- dopo i vampiri de "Il buio si avvicina" ed i surfisti di "Point break", la Bigelow ripropone con successo un personaggio "Addicted" - che il film riesce a superare le barriere del genere, diventando ben presto un resoconto sulla condizione umana.
Se la messa in scena della guerra appare estremamente veritiera, convince la volontà della Bigelow di dare un nome a coloro che la combattono, al di là delle ideologie e delle ragioni di parte.
Un cast di quasi sconosciuti (Makie l’avevamo visto in "She hate me" di Spike Lee e nel mai distribuito "Half Nelson", film nominato all’Oscar per la formidabile interpretazione di Ryan Gosling) e due star (Ralph Fiennes e Guy Pierce) che scompaiono quasi subito ci danno il senso di un opera che riduce le distanze e punta dritta al cuore dello spettatore.
K. Bigelow ha vinto l'oscar 2010 come miglior regista.
The Blind Side
The Blind Side
regia di John Lee Hancock
Il segno dei tempi continua ad ispirare il cinema mainstream statunitense e dopo il successo personale di molti attori afroamericani ed un aumento delle produzioni incentrate su quella comunità, arriva sugli schermi "The Bind Side" di JL Hanckok, biopic dedicata all’incredibile ascesa di Michael Oher, passato dalle privazioni del ghetto ai successi del football, di cui lo stesso è diventato una delle stelle più fulgenti.
CONTINUA A LEGGERE LA RECENSIONE SU ONDACINEMA.IT
Per questa performance Sandra Bullock si è aggiudicata il premio Oscar 2010 come miglior attrice protagonista.
regia di John Lee Hancock
Il segno dei tempi continua ad ispirare il cinema mainstream statunitense e dopo il successo personale di molti attori afroamericani ed un aumento delle produzioni incentrate su quella comunità, arriva sugli schermi "The Bind Side" di JL Hanckok, biopic dedicata all’incredibile ascesa di Michael Oher, passato dalle privazioni del ghetto ai successi del football, di cui lo stesso è diventato una delle stelle più fulgenti.
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Per questa performance Sandra Bullock si è aggiudicata il premio Oscar 2010 come miglior attrice protagonista.
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anteprime,
recensioni
giovedì, marzo 04, 2010
Film in sala dal 5 marzo 2010
Alice in Wonderland
( Alice in Wonderland )
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2010
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Tim Burton
Crazy Heart
( Crazy Heart )
GENERE: Drammatico, Musical
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Scott Cooper
Diamond 13
( Diamond 13 )
GENERE: Azione, Poliziesco, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Belgio, Francia, Lussemburgo
REGIA: Giles Behat
L'amante inglese
( Partir )
GENERE: Drammatico, Romantico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Catherine Corsini
Revanche - Ti ucciderò
( Revanche )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Austria
REGIA: Götz Spielmann
Shutter Island
( Shutter Island )
GENERE: Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Martin Scorsese
( Alice in Wonderland )
GENERE: Fantasy, Avventura
ANNO PROD: 2010
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Tim Burton
Crazy Heart
( Crazy Heart )
GENERE: Drammatico, Musical
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Scott Cooper
Diamond 13
( Diamond 13 )
GENERE: Azione, Poliziesco, Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Belgio, Francia, Lussemburgo
REGIA: Giles Behat
L'amante inglese
( Partir )
GENERE: Drammatico, Romantico
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ Francia
REGIA: Catherine Corsini
Revanche - Ti ucciderò
( Revanche )
GENERE: Drammatico
ANNO PROD: 2008
NAZIONALITÀ Austria
REGIA: Götz Spielmann
Shutter Island
( Shutter Island )
GENERE: Thriller
ANNO PROD: 2009
NAZIONALITÀ USA
REGIA: Martin Scorsese
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film in uscita 2010
mercoledì, marzo 03, 2010
Gli occhi di Penelope (2) - IL RICCIO
Il riccio
regia di Mona Achache
"Il riccio" è la trasposizione cinematografica che una regista esordiente, tale Mona Achache, fa di un romanzo che nel 2006 ha segnato l’editoria francese (e non solo), facendo razzia di premi letterari: "L’eleganza del riccio" di Muriel Barbery.
Ho avuto il piacere di leggere il romanzo durante le ultime vacanze natalizie e, fortunatamente, appena prima dell’uscita del film nelle sale.
Avendo assolutamente gradito la lettura, che ha fatto balzare il romanzo nella mia personalissima top-ten delle preferenze letterarie, non ho potuto (né voluto) esimermi dall’andare a vedere il film, pur nella consapevolezza che una delusione avrebbe potuto tendermi un agguato. Psicologicamente preparata, ho varcato la soglia della sala.
Siccome non sempre le ciambelle riescono col buco, è capitato che l’autrice del romanzo abbia disconosciuto la pellicola, non ritenuta evidentemente degna di rappresentare su schermo quanto era già stato rappresentato su carta. Ma cosa è giusto aspettarsi da una operazione di questo genere?
In fondo, a ben pensarci, il romanzo in questione non è tra quelli che più si prestano ad una trasposizione cinematografica. Se lo si vuol guardare dal mero punto di vista della storia raccontata, bastano poche parole per riassumerne i punti salienti: c’è una portinaia parigina segretamente coltissima, una bambina aspirante suicida di famiglia ricca e dall’intelligenza superiore, un giapponese di mezza età perspicace e sensibile che si incontrano in un condominio alto-borghese. Un punto di partenza un po’ scarno per l’impianto narrativo di un film. Ma potrebbe essere proprio tale pochezza di accadimenti a costituire quella crepa in cui una giovane regista vuole coraggiosamente infilare la sua sfida cinematografica. La sfida è quella di riportare sul grande schermo l’atmosfera elegiaca del romanzo, la profondità delle tante riflessioni sofisticate, di riempire quei silenzi filosofici che rendono il libro gustoso ed allo stesso tempo confortante e dolcemente consolatorio, senza tradire o stravolgere le intenzioni intellettuali e lo stile dell’autrice. Sarà riuscita Mona Achache a compiere una siffatta impresa?
Io credo di sì. La regista compie un parallelo a mio parere molto riuscito: laddove nel romanzo la piccola Paloma è intenta a scrivere una sorta di diario, in cui annota i “pensieri profondi” e i “movimenti del mondo”, nella trasposizione della Achache lo stesso personaggio vuol cristallizzare le proprie considerazioni in un film, e lo si vede aggirarsi nelle varie situazioni con una vecchia videocamera, a riprendere i suoi familiari ed a descriverne le caratteristiche filtrandole attraverso i suoi occhi consapevoli e rassegnati. Dunque, pare sussistere l’uguaglianza “libro=film” non solo per il fatto che la storia raccontata è tratta, o almeno ispirata a quella di un romanzo, ma anche grazie alla scelta dello strumento di comunicazione dedicato al pubblico, che nel romanzo è giustamente un diario, quindi un altro scritto, e che nel film, nella massima coerenza, è un altro film. E così, ancora una volta, sia in letteratura, sia nella cinematografia, si vuol rendere omaggio al grande commediografo latino Plauto, colui il quale forse per primo scelse di svelare agli spettatori l’illusione del teatro mettendo in scena la rappresentazione teatrale stessa, dando i natali al cosiddetto meta-teatro. La regista, quindi, sceglie di mettere in scena la messa in scena, e non lo fa solo attraverso l’occhio della videocamera di Paloma, ma utilizza anche un altro registro linguistico, il cartoon, rivelando con innocente abilità i misteri di quel magico meccanismo che mette in moto le figure. E’ proprio così, usando questi strumenti, che l’arguta Paloma si racconta e racconta della delusione nei confronti del mondo che la circonda.
Il risultato è una sfiziosa favola moderna, i cui protagonisti sono significativi, seppur nella discrezione e nel garbo delle proprie personalità. L’atmosfera del romanzo viene disfatta e poi sapientemente ricostruita risultando in un alleggerimento complessivo dei temi trattati, il quale però non smarrisce il senso più profondo ed intimo del racconto della Barbery, ma si limita a sottacerne alcune introspezioni, che, seppur indispensabili all’economia del romanzo, nel film sarebbero apparse solo di contorno. Il messaggio dell’incontro e della comprensione dell’altro al di là delle apparenze giunge allo spettatore con una certa chiarezza, grazie all’efficacia delle due anime in incognito Reneè e Paloma, che trovano conforto e si nascondono dietro la maschera che la società ha attribuito loro, e grazie alla bravura di monsieur Ozu nel riconoscerne la prelibatezza e nello stanare il loro nascondiglio, con fiuto da vero cane da tartufo.
Le tante digressioni filosofiche del romanzo cedono il posto ad una certa leggerezza con cui la regista riempie i silenzi narrativi della storia. E lo fa con trovate graziose e sobrie, che spaziano dai disegni murali nella stanzetta di Paloma, fusione di creatività e razionalità, all’uso di fittizi cieli stellati, dal gusto infantile e fiabesco, alle tante citazioni letterarie, artistiche e cinematografiche che sembrano animarsi e vivere nella singolare concierge. Tutto questo viene annegato in un cocktail vincente a base di cartoon, di colori vivaci e di un linguaggio moderno ed accattivante. Particolarmente riusciti sono i visi e le espressioni delle due attrici protagoniste, che comunicano col solo sguardo, spento quello di Reneè, rassegnatamente disincantato quello di Paloma.
Insomma, l’autrice del romanzo ha messo questo film nella “boccia dei pesci rossi”. Ma tra la “boccia dei pesci rossi” e i “sempre nei mai”, ci sono infinite vie di mezzo, e questo film si pone in ottima posizione.
regia di Mona Achache
"Il riccio" è la trasposizione cinematografica che una regista esordiente, tale Mona Achache, fa di un romanzo che nel 2006 ha segnato l’editoria francese (e non solo), facendo razzia di premi letterari: "L’eleganza del riccio" di Muriel Barbery.
Ho avuto il piacere di leggere il romanzo durante le ultime vacanze natalizie e, fortunatamente, appena prima dell’uscita del film nelle sale.
Avendo assolutamente gradito la lettura, che ha fatto balzare il romanzo nella mia personalissima top-ten delle preferenze letterarie, non ho potuto (né voluto) esimermi dall’andare a vedere il film, pur nella consapevolezza che una delusione avrebbe potuto tendermi un agguato. Psicologicamente preparata, ho varcato la soglia della sala.
Siccome non sempre le ciambelle riescono col buco, è capitato che l’autrice del romanzo abbia disconosciuto la pellicola, non ritenuta evidentemente degna di rappresentare su schermo quanto era già stato rappresentato su carta. Ma cosa è giusto aspettarsi da una operazione di questo genere?
In fondo, a ben pensarci, il romanzo in questione non è tra quelli che più si prestano ad una trasposizione cinematografica. Se lo si vuol guardare dal mero punto di vista della storia raccontata, bastano poche parole per riassumerne i punti salienti: c’è una portinaia parigina segretamente coltissima, una bambina aspirante suicida di famiglia ricca e dall’intelligenza superiore, un giapponese di mezza età perspicace e sensibile che si incontrano in un condominio alto-borghese. Un punto di partenza un po’ scarno per l’impianto narrativo di un film. Ma potrebbe essere proprio tale pochezza di accadimenti a costituire quella crepa in cui una giovane regista vuole coraggiosamente infilare la sua sfida cinematografica. La sfida è quella di riportare sul grande schermo l’atmosfera elegiaca del romanzo, la profondità delle tante riflessioni sofisticate, di riempire quei silenzi filosofici che rendono il libro gustoso ed allo stesso tempo confortante e dolcemente consolatorio, senza tradire o stravolgere le intenzioni intellettuali e lo stile dell’autrice. Sarà riuscita Mona Achache a compiere una siffatta impresa?
Io credo di sì. La regista compie un parallelo a mio parere molto riuscito: laddove nel romanzo la piccola Paloma è intenta a scrivere una sorta di diario, in cui annota i “pensieri profondi” e i “movimenti del mondo”, nella trasposizione della Achache lo stesso personaggio vuol cristallizzare le proprie considerazioni in un film, e lo si vede aggirarsi nelle varie situazioni con una vecchia videocamera, a riprendere i suoi familiari ed a descriverne le caratteristiche filtrandole attraverso i suoi occhi consapevoli e rassegnati. Dunque, pare sussistere l’uguaglianza “libro=film” non solo per il fatto che la storia raccontata è tratta, o almeno ispirata a quella di un romanzo, ma anche grazie alla scelta dello strumento di comunicazione dedicato al pubblico, che nel romanzo è giustamente un diario, quindi un altro scritto, e che nel film, nella massima coerenza, è un altro film. E così, ancora una volta, sia in letteratura, sia nella cinematografia, si vuol rendere omaggio al grande commediografo latino Plauto, colui il quale forse per primo scelse di svelare agli spettatori l’illusione del teatro mettendo in scena la rappresentazione teatrale stessa, dando i natali al cosiddetto meta-teatro. La regista, quindi, sceglie di mettere in scena la messa in scena, e non lo fa solo attraverso l’occhio della videocamera di Paloma, ma utilizza anche un altro registro linguistico, il cartoon, rivelando con innocente abilità i misteri di quel magico meccanismo che mette in moto le figure. E’ proprio così, usando questi strumenti, che l’arguta Paloma si racconta e racconta della delusione nei confronti del mondo che la circonda.
Il risultato è una sfiziosa favola moderna, i cui protagonisti sono significativi, seppur nella discrezione e nel garbo delle proprie personalità. L’atmosfera del romanzo viene disfatta e poi sapientemente ricostruita risultando in un alleggerimento complessivo dei temi trattati, il quale però non smarrisce il senso più profondo ed intimo del racconto della Barbery, ma si limita a sottacerne alcune introspezioni, che, seppur indispensabili all’economia del romanzo, nel film sarebbero apparse solo di contorno. Il messaggio dell’incontro e della comprensione dell’altro al di là delle apparenze giunge allo spettatore con una certa chiarezza, grazie all’efficacia delle due anime in incognito Reneè e Paloma, che trovano conforto e si nascondono dietro la maschera che la società ha attribuito loro, e grazie alla bravura di monsieur Ozu nel riconoscerne la prelibatezza e nello stanare il loro nascondiglio, con fiuto da vero cane da tartufo.
Le tante digressioni filosofiche del romanzo cedono il posto ad una certa leggerezza con cui la regista riempie i silenzi narrativi della storia. E lo fa con trovate graziose e sobrie, che spaziano dai disegni murali nella stanzetta di Paloma, fusione di creatività e razionalità, all’uso di fittizi cieli stellati, dal gusto infantile e fiabesco, alle tante citazioni letterarie, artistiche e cinematografiche che sembrano animarsi e vivere nella singolare concierge. Tutto questo viene annegato in un cocktail vincente a base di cartoon, di colori vivaci e di un linguaggio moderno ed accattivante. Particolarmente riusciti sono i visi e le espressioni delle due attrici protagoniste, che comunicano col solo sguardo, spento quello di Reneè, rassegnatamente disincantato quello di Paloma.
Insomma, l’autrice del romanzo ha messo questo film nella “boccia dei pesci rossi”. Ma tra la “boccia dei pesci rossi” e i “sempre nei mai”, ci sono infinite vie di mezzo, e questo film si pone in ottima posizione.
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recensione
martedì, marzo 02, 2010
Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle)
Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle)
(regia di Arnaud Desplechin)
Dopo aver fatto i conti con la Storia ed aver chiuso nella tomba qualsiasi proposito di impegno politico e sociale, Despleshin si mette dietro le spalle il lavoro precedente tuffandosi nei miasmi dolciastri e vagamente retrò di "Comment je me suis dispute'...", film che fin dal titolo cerca di disimpegnarsi dalle arzigogolate acrobazie de "La sentinelle", per abbracciare una forma di narrazione apparentemente umorale e che fa sua una sintassi cinematografica, in cui gli accostamenti tra le singole scene non sono la conseguenza di un ordine precostituito, farmaceutica esecuzione di un piano di bordo studiato al millimetro, ma altresì la manifestazione di un interiorità che vuole liberarsi dei suoi fardelli, e ci riesce utilizzando la bile al posto del compasso, le sinapsi al posto della chimica, arrivando a dimostrare come qualsiasi costruzione, filosofica, scientifica o sentimentale debba fare i conti con le incognite della vita.
Così la "malattia" di Paul Dedalus, assistente universitario alle prese con un empasse esistenziale che gli impedisce di indirizzare i propri sforzi verso un comun denominatore ( vita borghese e promozione sociale oppure bohemien e rigurgiti ancestrali), la fidanzata decennale di cui sembra vergognarsi, una girandola di amici ed amanti incapaci di soddisfarne l’adolescenziale curiosità, il lavoro accademico e l’avanzamento di carriera frenato dalla comparsa di un ex collega diventato titolare della cattedra di Epistemologia ed a lui inviso a causa della disputa riportata in cartellone, diventano lo specchio di una generazione in cerca di identità in un "Monde sans pitie2, per dirla con le parole di un altro film che, in qualche modo anticipa e non risolve tematiche e situazioni qui presenti, e che lo stesso Desplechine aveva sceneggiato insieme all’amico Eric Rochant.
Il risultato è un opera ondivaga, a tratti debordante, per l’overdose dialettica che accompagna le vicende del protagonista, continuamente sospese tra fenomenologia e psicanalisi ( la storia del film è il resoconto di una guarigione oggettivata dalla seduta/confessione di Paul sul lettino del suo analista), per le numerose divagazioni che si soffermano su episodi poco rilevanti rispetto al centro del problema ma che, nondimeno, aiutano a far montare lo smarrimento generale dei personaggi, per la densità dei rimandi letterari (P.Roth e Joyce in prima linea), cinematografici (su tutti "Mon oncle d’amerique" di Alain Resnais) ed autobiografici, e fin ultimo per la compresenza di uno tono, farsesco ed insieme tragico, che diventerà uno dei tratti più distinguibili del cinema che verrà; caratteristiche di un arte che appare ancora incapace di contenersi ma già mostra una sincerità a tratti disarmante. Attraversato come al solito da uno stuolo di attori che non tarderà ad affermarsi (da Emanuelle Devos a Chiara Mastroianni, da Denis Podalydes a Jeanne Balibar sono per dirne alcuni) il film segna il passaggio di consenge tra Emanuelle Salinger, il feticcio degli esordi e qui relegato ad una parte da comprimario, e Mathieu Almaric, futuro protagonista dei capodopera del regista, e qui alle prese con un ruolo la cui performance rischia di mangiarsi il resto della truppa. In corcorso al Festival di Cannes del 1996, "Comment je me suis dispute (ma vie sexuelle)" vinse il Caesar per la migliore promessa maschile assegnato allo stesso Almaric: un premio quasi profetico alla luce degli odierni risultati.
(regia di Arnaud Desplechin)
Dopo aver fatto i conti con la Storia ed aver chiuso nella tomba qualsiasi proposito di impegno politico e sociale, Despleshin si mette dietro le spalle il lavoro precedente tuffandosi nei miasmi dolciastri e vagamente retrò di "Comment je me suis dispute'...", film che fin dal titolo cerca di disimpegnarsi dalle arzigogolate acrobazie de "La sentinelle", per abbracciare una forma di narrazione apparentemente umorale e che fa sua una sintassi cinematografica, in cui gli accostamenti tra le singole scene non sono la conseguenza di un ordine precostituito, farmaceutica esecuzione di un piano di bordo studiato al millimetro, ma altresì la manifestazione di un interiorità che vuole liberarsi dei suoi fardelli, e ci riesce utilizzando la bile al posto del compasso, le sinapsi al posto della chimica, arrivando a dimostrare come qualsiasi costruzione, filosofica, scientifica o sentimentale debba fare i conti con le incognite della vita.
Così la "malattia" di Paul Dedalus, assistente universitario alle prese con un empasse esistenziale che gli impedisce di indirizzare i propri sforzi verso un comun denominatore ( vita borghese e promozione sociale oppure bohemien e rigurgiti ancestrali), la fidanzata decennale di cui sembra vergognarsi, una girandola di amici ed amanti incapaci di soddisfarne l’adolescenziale curiosità, il lavoro accademico e l’avanzamento di carriera frenato dalla comparsa di un ex collega diventato titolare della cattedra di Epistemologia ed a lui inviso a causa della disputa riportata in cartellone, diventano lo specchio di una generazione in cerca di identità in un "Monde sans pitie2, per dirla con le parole di un altro film che, in qualche modo anticipa e non risolve tematiche e situazioni qui presenti, e che lo stesso Desplechine aveva sceneggiato insieme all’amico Eric Rochant.
Il risultato è un opera ondivaga, a tratti debordante, per l’overdose dialettica che accompagna le vicende del protagonista, continuamente sospese tra fenomenologia e psicanalisi ( la storia del film è il resoconto di una guarigione oggettivata dalla seduta/confessione di Paul sul lettino del suo analista), per le numerose divagazioni che si soffermano su episodi poco rilevanti rispetto al centro del problema ma che, nondimeno, aiutano a far montare lo smarrimento generale dei personaggi, per la densità dei rimandi letterari (P.Roth e Joyce in prima linea), cinematografici (su tutti "Mon oncle d’amerique" di Alain Resnais) ed autobiografici, e fin ultimo per la compresenza di uno tono, farsesco ed insieme tragico, che diventerà uno dei tratti più distinguibili del cinema che verrà; caratteristiche di un arte che appare ancora incapace di contenersi ma già mostra una sincerità a tratti disarmante. Attraversato come al solito da uno stuolo di attori che non tarderà ad affermarsi (da Emanuelle Devos a Chiara Mastroianni, da Denis Podalydes a Jeanne Balibar sono per dirne alcuni) il film segna il passaggio di consenge tra Emanuelle Salinger, il feticcio degli esordi e qui relegato ad una parte da comprimario, e Mathieu Almaric, futuro protagonista dei capodopera del regista, e qui alle prese con un ruolo la cui performance rischia di mangiarsi il resto della truppa. In corcorso al Festival di Cannes del 1996, "Comment je me suis dispute (ma vie sexuelle)" vinse il Caesar per la migliore promessa maschile assegnato allo stesso Almaric: un premio quasi profetico alla luce degli odierni risultati.
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lunedì, marzo 01, 2010
Cinema calibro 9.
E' disponibile nelle librerie il nuovo libro di Fabrizio Luperto, "Cinema calibro 9. Guida al poliziottesco", Manni.
dal sito dell'editore:
"Questo libro è la prima guida del poliziesco all’italiana, genere cinematografico che negli anni Settanta ha avuto incredibile successo.
Gli ingredienti: inseguimenti e sparatorie, sangue e stupri, delinquenti e commissari baffuti, giustizieri fai da te e massacri truculenti.
Liquidato dalla critica dell’epoca come reazionario e fascista, ha avuto il merito di portare sul grande schermo la cronaca nera; ha finanziato il cinema d’autore grazie agli incassi strabilianti dovuti all’equazione sale piene e produzioni a basso costo; ci ha regalato pellicole del valore di Cani arrabbiati e personaggi come Er Monnezza.
Cinema calibro 9 è un manuale dettagliato con schede di film, attori, registi, colonne sonore, curiosità e frasi celebri, arricchito da un dizionario di 200 titoli, per riscoprire uno dei filoni più interessanti del cinema italiano."
Anno 2010, 124 pagine - € 12.00 - ISBN: 978-88-6266-229-1
Note: Con inserto a colori
Si rimanda al dettaglio sul sito di MANNI EDITORI
deagostinilibri.it
dal sito dell'editore:
"Questo libro è la prima guida del poliziesco all’italiana, genere cinematografico che negli anni Settanta ha avuto incredibile successo.
Gli ingredienti: inseguimenti e sparatorie, sangue e stupri, delinquenti e commissari baffuti, giustizieri fai da te e massacri truculenti.
Liquidato dalla critica dell’epoca come reazionario e fascista, ha avuto il merito di portare sul grande schermo la cronaca nera; ha finanziato il cinema d’autore grazie agli incassi strabilianti dovuti all’equazione sale piene e produzioni a basso costo; ci ha regalato pellicole del valore di Cani arrabbiati e personaggi come Er Monnezza.
Cinema calibro 9 è un manuale dettagliato con schede di film, attori, registi, colonne sonore, curiosità e frasi celebri, arricchito da un dizionario di 200 titoli, per riscoprire uno dei filoni più interessanti del cinema italiano."
Anno 2010, 124 pagine - € 12.00 - ISBN: 978-88-6266-229-1
Note: Con inserto a colori
Si rimanda al dettaglio sul sito di MANNI EDITORI
deagostinilibri.it
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