giovedì, ottobre 27, 2011
film in sala dal 28 ottobre 2011
(Insidious)
GENERE: Horror, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: James Wan
CAST: Patrick Wilson, Rose Byrne, Ty Simpkins, Andrew Astor, Lin Shaye, Leigh Whannell
Johnny English la rinascita
(Johnny English Reborn)
GENERE: Azione, Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna
REGIA: Oliver Parker
CAST: Rowan Atkinson, Gillian Anderson, Dominic West, Rosamund Pike, Richard Schiff, Ben Miller
La peggior settimana della mia vita
(La peggior settimana della mia vita)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Alessandro Genovesi
CAST: Fabio De Luigi, Cristiana Capotondi, Monica Guerritore, Alessandro Siani, Antonio Catania, Nadir Caselli
Larry Crowne
(Larry Crowne)
GENERE: Commedia, Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Tom Hanks
CAST: Tom Hanks, Julia Roberts, Rami Malek, Jon Seda, Taraji P. Henson, Bryan Cranston
Le avventure di Tintin - Il segreto dell'Unicorno
(The Adventures of Tintin: Secret of the Unicorn)
GENERE: Animazione, Azione, Avventura
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Belgio, Nuova Zelanda, USA
REGIA: Steven Spielberg
CAST: Jamie Bell, Andy Serkis, Daniel Craig, Simon Pegg, Nick Frost, Gad Elmaleh
Missione di pace
(Missione di pace)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Francesco Lagi
CAST: Silvio Orlando, Alba Rohrwacher, Francesco Brandi, Filippo Timi, Tommaso Ragno, Antonella Attili
Quando la notte
(Quando la notte)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Cristina Comencini
CAST: Filippo Timi, Claudia Pandolfi, Thomas Trabacchi, Denis Fasolo, Michela Cescon, Manuela Mandracchia
lunedì, ottobre 24, 2011
L'amore che resta
Morire giovani. Gli anni spezzati sono ancora una volta al centro dell’indagine filmata di Gus Van Sant in L'amore che resta, ma questa volta il working progress metacinematografico ha lasciato posto ad un melting pot di diversa provenienza. Tra rimandi cinefili che pescano a piene mani dal cinema della novelle vague, presente nell’eccentrico realismo dei caratteri così come nell’intellettualismo mascherato di fatua leggerezza con cui viene interpretato il tema della morte, alla citazioni letterarie anni 80 di un romanziere come David Leavitt, ripreso nell’utilizzo della malattia come allegoria di un malessere più grande che divide e rende soli, L’amore che resta è il film di un autore che si concede delle pause.
Perché se si eccettua la forma, improntata ad un impressionismo di alta confezione ed una scelta degli attori che non lascia dubbi sulle capacità di dare volto alla scrittura, il film non si differenzia molto dalla miriade di prodotti indipendenti targati Sundance Film Festival.
Certamente l’idea di concepire una storia d’amore a termine - Enoch si innamora di Annabel, malata terminale – ribaltandone le convenzioni non era una trovata da poco: Van Sant, e chi per lui – il film è infatti un lavoro su commissione – invece di farci sorbire il lento scivolare dentro il tragico destino dei due protagonisti, trasforma le tappe della via crucis in altrettanti momenti di giocosa complicità, in cui i due giovani innamorati si dilettano con la fantasia ed i sentimenti per costruire un mondo immaginario ed incantato.
In questo modo la realtà più prosaica diventa il luogo dove inventare un nuovo principio: basterebbe vedere la scena ambientata di fronte ai loculi di un obitorio, luogo ridisegnato ad hoc per un'uscita romantica, con Annabel intenta a riportare in vita quei defunti alla maniera di Spoon Rivers, tra aneddotti e amenità capaci di cambiare le prospettive ad un fato così iniquo, oppure al funerale ed alle sue liturgie, vissuto come un'epifania del sentimento a venire ed allo stesso tempo rivoluzione nei confronti di una contingenza fatta di lutto e di cordoglio.
Insomma la voglia di andare contro la natura delle cose, sommata alla volontà di ampliare la gamma espressiva del suo cinema, erano per Van Sant il segnale di un possibile cambiamento. Il risultato è un operazione riuscita solo in parte, perché se i pedinamenti lasciano il posto a quadri di ineccepibile bellezza, a cui molto contribuisce la morbidezza fotografica di Harry Savides, è altrettanto forte la sensazione di una vita simulata, troppo perfetta nell'algida compostezza della sua messinscena. Ed alla fine anche la freschezza degli interpreti, tra cui si distingue la nervosa vivacità di Henry Hopper (Enoch) figlio del mitico Dennis, deve pagare dazio a questa voglia di piacere.
(pubblicata su Roma giorno e notte)
domenica, ottobre 23, 2011
This Must Be the Place: l'opinione della direttora
regia di P. Sorrentino
Piena di aspettative e con il cuore aperto sono andata a vedere l'ultima fatica di sorrentino che si propone come un dramma con pennellate sarcastiche ma che ha tutta l'essenza di una commediola mal riuscita e che ovviamente mi ha lasciata, purtroppo, a becco asciutto.
Di seguito la mia personale recensione di cui mi assumo il peso delle eventuali sciocchezze.
Cheyenne, l’eroe di questo improvvisato viaggio attraverso il tempo e lo spazio - che sorrentino sembra ridefinire durante la produzione ad ogni aggiunta di nuovo girato - è una rockstar di 50 anni ormai in pensione, depresso; vive a Dublino con la moglie Jane che lo accompagna da 35 anni. Conducono una vita molto agiata, grazie alle royalties, in una casa enorme e silenziosa immersa nel verde.
I primi 20 minuti di film scorrono in una lentezza di accadimenti e dialoghi esasperanti e la cosa peggiore è che sembrano assolutamente ridondanti ed inutili: sorrentino potrebbe informarci meglio sugli antefatti con minor tempo.
Cheyenne si muove come farebbe un monolite, il suo corpo risulta bloccato e soprattutto è qualcosa di esterno a lui stesso; il suo stato depresso è reso dal regista in un incedere incerto ed in un modo di parlare timoroso. Cheyenne quasi non ha stabilità sulle proprie gambe, cammina ricurvo in una fatica profonda che sorrentino amplifica nei lenti movimenti di macchina, nello sguardo vuoto del protagonista, nei fardelli che continuamente si trascina appresso: carrello della spesa, trolley.
La casa è un luogo impersonale e freddo, stupisce la totale assenza, nella casa, di musica, alla quale fa da sostituto una colonna sonora abbondante e quasi invadente (musica che il Nostro riuscirà ad ascoltare senza freni solo al concerto di byrne e durante una sosta nel viaggio americano).
Il rapporto con la moglie ci mostra il suo lento ed inesorabile decadimento.
Egli si ritrova nel bel mezzo del proprio complesso irrisolto di edipo: la paura della castrazione è stata tale da portarlo all’autocastrazione psicologica: è impotente e sposato con una donna gentile ma che ha tutta l’aria di essere una omosessuale inconsapevole. Nell’unica scena di sesso tra i due il Nostro si offre alla moglie come un piccolo servitore senza trarne alcun piacere. La moglie non pare esserne dispiaciuta ed a fronte della rivelazione del marito "forse sono un po’ depresso" lei nega tutto e lo porta a riconsiderare la noia come causa del suo stato.
Se il regista ci offre quest'unica scena per descriverci le condizioni di partenza possiamo supporre che quella sia la consuetudine, o che il Nostro sia decaduto dopo un iniziale periodo coniugale appagante, cosa che però mi sento di escludere vista la reazione della moglie, che accetta questo stato depressivo senza mostrare le proprie esigenze di donna. Inoltre non hanno figli, lei non sembra avere alcuna caratteristica della seduttività femminile.
Per quanto si possa essere legati emotivamente, solo la paura di affrontare il mondo ti può tener legato ad una vita quasi irreale ed insoddisfacente. Entrambi sono personaggi imprigionati nelle proprie angosce.
Il personaggio della figlia di bono vox può rappresentarci il vuoto di una generazione, vuoto che continua fin dai tempi dell’adolescente john smith e al quale ancora non si è saputo far fronte.
Cheyenne è circondato prevalentemente da personaggi chiusi nelle proprie nevrosi immersi in un presente statico e uguale a se stesso: la madre ossessionata dalla fuga del figlio, l’adolescente senza un senso interiore, l’amico ossessionato dal sesso. personaggi però abbozzati che il regista non ci lascia "toccare".
La partenza per gli states mi ha lasciata perplessa: cheyenne parte solo.
Viste le premesse, in cui lui sembra non poter reggere da solo la propria vita e di aver invece bisogno del sostegno continuo della moglie, mi sarei aspettata che partissero assieme.
Lo stupore dei paesaggi americani riflette lo stupore fanciullesco che c’è ancora nel Nostro, il quale vive tutto il percorso come un viaggio ai limiti dell’onirico, in cui emergerà chiaramente il suo blocco emotivo e psicologico.
E qui sorrentino si è davvero sbizzarrito.
Simboli ovunque che citerò alla rinfusa.
La vecchia insegnante che cheyenne va a salutare e che vive con un’oca e alla quale ruba un disegno di bambini (barchetta..).
La poliziotta nana che fa tanto citazione Lynchana come a dire che tutto questo ha l’aspetto assurdo dei sogni, ma come i sogni ha un sottolinguaggio da interpretare.
Cheyenne vive immerso (e intrappolato) in una stanchezza gigante, causata dalla inconscia repressione di rabbia, rabbia che solo in alcuni rari momente esterna sbottando come una pentola a pressione ma senza tracimare in una sfuriata che tanto avrebbe giovato alla storia ed alla credibilità del protagonsta.
Il Nostro ha un ineluttabile bisogno di elaborare il rapporto coi genitori e di far fuoriuscire la rabbia ed è proprio in questo che sorrentino lo abbandona, accollandogli invece un altro tipo di elaborazione, translata, ereditata dal padre in cui il regista ha voluto comunque inserire la catarsi del protagonista.
L’incontro con david byrne: la scena in cui si parlano a fine concerto è un po’ il climax dell’evoluzione del personaggio: cheyenne rivela tra le lacrime la propria rabbia e il proprio senso di colpa ad un david byrne angelico, tutto vestito di bianco e coi capelli bianchi.
E capirai che rivelazione fa cheyenne.. anche quello un debole pretesto di sceneggiatura per dare alla storia uno spessore ed un motivo di catarsi.
Ma il vero senso di colpa del Nostro è legato al padre: sorrentino non ci aiuta a comprendere bene il loro rapporto (nè si ricorda la madre..) ma si limita ad informarci che il piccolo john smith era convinto che suo padre non lo amasse.
L’incontro con la cameriera, madre del bimbo grasso, è portatore di altri simboli. Cheyenne trova in ella una confidente, una madre che lo abbraccia e lo ascolta: entrambi aprono il proprio cuore e mentre lei ad un certo punto prova una forte pulsione sessuale per lui, lui resta assolutamente "spento".
Cheyenne è morto da tempo, il suo corpo non ha nulla di vitale e proprio in questa scena capiamo che la sua insensibilità sessuale non è selettiva ma permanente.
Di fronte alla "madre figurata" rispondente ai segnali sessuali, John Smith è costretto, inconsciamente e cronicamente, a spegnere i propri sensi, pena la cacciata dal paradiso. sta qui tutta la disperata incapacità di far fronte alle figure genitoriali.
Il figlio grasso è l’incarnazione di ciò che potrebbe essere stato lui da piccolo: un bimbo incapace di imporsi in famiglia, inacettato, e che per l’assenza del padre (lo vediamo nella foto presa dal bambino, è un militare) fa da supporto alla madre (la scena del bagno in piscina in cui l’esile madre si aggrappa al figlio..). Il suo piccolo corpo gonfio di energia e di rabbia repressa si nutre di cibi che non lo sazieranno mai.
E nella scena clou, di quella che sorrentino ci vuole passare per elaborazione del "bubbone paterno" e quindi della rabbia, Cheyenne osserva silenziosamente attraverso i vetri di una finestra un gigante bufalo sbuffante e immobile, come a dirci che la furia interiore non può comunque essere vissuta nel proprio corpo, in prima persona ma che per essere accettata può soltanto essere trasposta.
Anche qui ci ho visto molto Lynch ma solo per il pretesto simbolico.
Ma torniamo al viaggio e a Cheyenne in cui incontra di tutto; come ha scritto anche nickoftime, incontra un circo di personaggi che ci rimandano ad un sacco di altri film e di cose già dette e viste (cito parsec). I dialoghi hanno il gusto di un tarantino stagionato, di un bergman "de no’ attri", la silenziosa pesantezza di un antonioni americanizzato.
L’indiano che scrocca il passaggio non lascia messaggi comprensibili, l’america sembra essere un coacervo di matti ed illuminati, di santi ed impostori ai quale cheyenne guarda con simpatia e passività.
L’incontro finale col nazista scopre le carte di una sceneggiatura debole e abbozzata. L’umiliazione da vendicare è un banale pretesto per dare la possibilità al nazista di sciorinare tutte le proprie prese di coscienza e di far passare il padre di cheyenne come un solido uomo d’onore.
Gli interrogativi sulla scelta di parlare dell'Olocausto sono tanti e forse davvero, come dice Fabrizio, può essere stata un pretesto per aprirsi le porte al pubblico americano.
La foto scattata da cheyenne è lo sparo che sigla la giustizia fatta, così come la passeggiata del nazista in mezzo alla neve. Ma cheyenne spara al padre del passato oppure vendica davvero l’onta subita dal padre?
a ciascuno la propria verità finale..
La scena finale a mio avviso non ci sta per niente.
Sean penn interpreta se stesso e non un cheyenne liberato dal passato, perché non ne ha avuto la possibilità.
Tutto è affrettato e pasticciato, sorrentino ci sazia con panoramiche, voli d’angelo della mdp, e tanta tanta tanta stupenda ed abbondante musica nella colonna sonora, la parte migliore del film che comunque non ha supportato affatto la narrazione.
Dunque quale è la vera urgenza di questo film?
Mi sento di affermare che non ci sia, che il film sia nato come una prova generale di capacità, in cui sorrentino si è divertito e sbizzarrito su di un canovaccio di poche e gracili idee.
Ancora una volta la produzione è salvata dalla capacità degli attori (sean penn si è accollato una bella gatta da pelare con questo personaggio sgangherato e poco credibile e lode anche a frances mcdormand che ha fatto il mestiere suo sempre ai massimi livelli).
Di sicuro agli americani sarà piaciuto molto. Quello che ancora riesce a stupirmi, e dovrei invece smetterla, è quanta piaggeria ci sia in italia, dove non si riesce a fare una critica davvero costruttiva e da "il re è nudo" quando si parla dei nostro più rappresentativi registi.
giovedì, ottobre 20, 2011
film in sala dal 21 ottobre 2011
(30 Minutes or Less)
GENERE: Commedia, Avventura
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Ruben Fleischer
CAST: Jesse Eisenberg, Danny McBride, Nick Swardson, Bianca Kajlich, Aziz Ansari, Dilshad Vadsaria
Another Earth
(Another Earth)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Mike Cahill
CAST: William Mapother, Brit Marling, Jordan Baker, Flint Beverage, Robin Taylor
Bar Sport
(Bar Sport)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Massimo Martelli
CAST: Claudio Bisio, Giuseppe Battiston, Angela Finocchiaro, Antonio Catania, Bob Messini, Antonio Cornacchione
Cavalli
(Cavalli)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Michele Rho
CAST: Vinicio Marchioni, Michele Alhaique, Giulia Michelini, Duccio Camerini, Cesare Apolito, Fausto Maria Sciarappa
Maga Martina 2
(Hexe Lilli: Die Reise nach Mandolan)
GENERE: Commedia, Fantasy, Family, Mystery
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Australia, Germania, Spagna
REGIA: Harald Sicheritz
CAST: Cosma Shiva Hagen, Pilar Bardem, Tanay Chheda, Anja Kling, Michael Mendl, Pegah Ferydoni
Matrimonio a Parigi
(Matrimonio a Parigi)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Claudio Risi
CAST: Massimo Boldi, Anna Maria Barbera, Enzo Salvi, Massimo Ceccherini, Loredana De Nardis, Emanuele Bosi
Melancholia
(Melancholia)
GENERE: Drammatico, Fantascienza
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Danimarca, Francia
REGIA: Lars von Trier
CAST: Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Kirsten Dunst, Charlotte Rampling, Udo Kier, Stellan Skarsgård
Paranormal Activity 3
(Paranormal Activity 3)
GENERE: Horror
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Henry Joost, Ariel Schulman
CAST: Katie Featherston
Super
(Super)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: James Gunn
CAST: Rainn Wilson, Liv Tyler, Ellen Page, Kevin Bacon, Gregg Henry, Michael Rooker
Un poliziotto da Happy Hour
(The Guard)
GENERE: Commedia, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Irlanda
REGIA: John Michael McDonagh
CAST: Brendan Gleeson, Don Cheadle, Liam Cunningham, David Wilmot, Rory Keenan, Mark Strong
Una separazione
(Jodaeiye Nader az Simin)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Iran
REGIA: Asghar Farhadi
CAST: Peyman Moadi, Leila Hatami, Sareh Bayat, Sarina Farhadi, Babak Karimi, Ali-Asghar Shahbazi
mercoledì, ottobre 19, 2011
Melancholia
Mantenendo in parte lo stile che aveva caratterizzato l’esperienza dogmatica (uso del digitale ed mobilità documentaristica della macchina da presa), ed integrandolo con una composizione visiva, pittorica e musicale (la musica di Wagner ad accentuare gli aspetti melò e le citazioni di Bruegel e Millet) von Trier si mantiene a galla agitando gli spettri di una personalità sicuramente complessa e contraddittoria. Ma al di là di qualche scena ad effetto (l'ouverture iniziale simile a quella di "Antichrist" in termini di effettistica e straniamento) e di una chiusura, quella sì degna di nota, con il film ed il suo significato affidato al volto di una Charlotte Gainsbourg (Claire), ancora una volta vittima sacrificale del regista danese, e dilaniata da un pianto che ci riporta ad un umanità finalmente genuina, priva di qualsiasi intellettualismo, "Melancholia" sembra ribadire una crisi ispirativa ed autoriale, condivisa con altri illustri colleghi.
Per il ruolo di Justine, Kirsten Dunst è stata premiata come migliore attrice all'ultimo festival di Cannes.
(pubblicata su Roma giorno e notte)
martedì, ottobre 18, 2011
I cinemaniaci al Festival Internazionale del Film di Roma [dal 27-ott al 4-nov 2011]
I cinemaniaci saranno presenti :-)
Il menù è davvero ghiotto, con larga presenza di nomi altisonanti.
Il nuovo film di Wim Wenders, "Pina", sarà proiettato fuori concorso nella sezione "Eventi Speciali", in presenza dell'autore, dopo l'incontro col pubblico.
Tra i prtagonisti la stessa Pina Bausch a cui il film è dedicato.
La sezione ufficiale "Alice nelle città" vede tra i protagonisti Scorsese e Spielberg.
Martin Scorsese ritorna con un insolito (nel suo panorama) film in 3D, "Hugo Cabret".
Il regista pare essere rimasto contagiato dalla mania del 3D. "Hugo Cabaret" è l'adattamento cinematografico del romanzo scritto da Brian Selznick: The Invention of Hugo Cabret.
Al festival sarà presente l'autore.
Steven Spielberg ritorna nelle sale con "Le avventure di Tintin: il segreto dell’Unicorno", tratto dall'omonimo fumetto belga di Georges Remi, in arte Hergé.
Nella stessa sezione Bill Condon si cimenta nel nuovo episodio tratto dalla saga Twilight, "The Twilight Saga: Breaking Dawn - Parte 1".
Nella selezione ufficiale "Fuori concorso" segnalo la presenza di una pellicola di Giuliano Montaldo, "L'industriale", interpretata da Pierfrancesco Favino e Carolina Crescentini e "The Lady" di Luc Besson dedicato alla straordinaria figura di Aung San Suu Kyi.
L’attivista birmana sarà interpretata da Michelle Yeoh, affiancata da David ThewlisDavid Thewlis nel ruolo del marito.
Nella medesima sezione è annovarato "Someday This Pain Will Be Useful to You" lungometraggio di respiro internazionale diretto da Roberto Faenza
In concorso "La kryptonite nella borsa" di Ivan Cotroneo, con nel cast Valeria Golino, Cristiana Capotondi, Luca Zingaretti e Fabrizio Gifuni, e "Il cuore grande delle ragazze" di Pupi Avati, interpretato da Cesare Cremonini e Micaela Ramazzotti con la partecipazione di Gianni Cavina e del "revival" Andrea Roncato.
Seganlo anche "La Femme du cinquième" di di Pawel Pawlikowski ("My Summer of Love") con Ethan Hawke e Kristin Scott Thomas, e gli italiani Marina Spada con "Il mio domani" (Claudia Gerini, Raffaele Pisu) e Pippo Mezzapesa con "Il paese delle spose infelici".
Ma anche il resto merita una visione.
Sulla carta un festival dai numeri importanti e forse dalle buone pre(o)messe.
Tutti i film del festival li trovate a questo link: Festival Internazionale del Film di Roma: i film in concorso e fuori concorso: 133 pellicole provienienti da 27 Paesi.
domenica, ottobre 16, 2011
This must be the place
di P. Sorrentino
L’occasione della vita. E’ questa l’urgenza più evidente che muove il nuovo film di Paolo Sorrentino. Un lasciapassare guadagnato sul campo, tra una platea di intenditori per nulla condizionati dalle faccende di casa nostra. “Il divo” era riuscito a parlare la lingua dei Santi e si era imposto con la forza delle idee. Questa volta invece sono proprio quelle che vengono a mancare. Rivestite dei soliti abiti luccicanti, le evoluzioni del maestro napoletano, rimangono nell’aria per mancanza di peso specifico.
Un ex rock star, abulica ed un po’ rimbambita si mette in viaggio per scovare il criminale nazista, colpevole di aver perseguitato il padre passato a miglior vita in apertura di racconto. A Sorrentino basterà questo spunto per allestire un circo di personaggi altamente stravaganti, ed in sintonia con il mood del protagonista impegnato in una ricerca a forte valenza personale ed introspettiva.
Una formula risaputa, quella del paesaggio americano associato ad una struttura “on the road”, e qui funzionale alla sovrapposizione tra regista e personaggio, entrambi alla scoperta di un mondo sconosciuto. Una sinergia di parole e soprattutto di sguardi, da cui ci si aspetterebbe qualcosa di più della riproduzione di un immaginario che non diventa mai personale, ma riproduce paesaggi e silenzi appartenenti ad altri.
Ed è proprio questo scollamento tra lo stupore di Cheyenne/Sorrentino e una resa visuale soprattutto mediatica, a rendere le immagini pur belle del regista napoletano delle bolle vuote, prossime a scoppiare senza aver lasciato il segno.
E mentre questo accade il film si lascia passare attraverso un corollario di incontri caratterizzati quasi esclusivamente dalla grottesca stravaganza della situazioni – pensiamo al tipo tatuato del bar, o all’indiano che senza dire una parola si ficca nel pick up di Cheyenne per un passaggio verso il nulla, o ancora al bambino sovrappeso che offre al cantante l’opportunità di riappropriarsi dell’antico mestiere – ma privi di qualsiasi specificità psicologica o narrativa.
Ed anche la conclusione, fredda come il paesaggio innevato in cui si svolge, con il nazista costretto ad un inesorabile contrappasso dopo aver elencato con precisione enciclopedica i motivi delle sue azioni, conferma una vaghezza tenuta insieme dalla maschera clownesca dell’attore oscarizzato e da uno swing musicale, quello si davvero degno di tale allestimento.
Paradossalmente però "This must be the place" si avvia ad essere il miglior risultato commerciale del regista, mentre all'orizzonte già si affaccia la promozione per un avventura da Oscar.
A conferma di un film più spendibile sul piano commerciale che artistico, ed anche una risposta indiretta alla frase pronunciata da Cheyenne a proposito di un artisticità perseguita a tutti costi.
Questa volta Sorrentino ha deciso di lavorare.
giovedì, ottobre 13, 2011
Abduction
Con "Boyz'n The Hood" aveva fatto gridare al miracolo. Era il 1991, l'anno di "New Jack City" un altro fenomeno di quel periodo, ed il film era stato accolto con sorprendente successo alla Quinzaine des réalizateurs del festival di Cannes. Raccontando le tensioni della comunità afroamericana in chiave realistica e politica, John Singleton diventava uno degli esponenti di punta di un cinema capace di conquistare una fetta importante del mercato americano, e di imporre una leva di attori che per carisma e mestiere, parliamo di nomi come Wesley Snipes, Cuba Gooding jr., Ice Cube, Chris Rock, non avevano nulla da invidiare ai più famosi colleghi Wasp.
Chiamato a confermare quel successo, Singleton si è gradatamente tolto di scena, abbandonando le strade dell'impegno per trasformarsi in un onesto mestierante, capace di confezionare film in cui la violenza era solo un altro modo per stordire le platee. Fino ad "Abduction", prodotto costruito per assecondare le richieste di un seguito ancora stregato da Jacob Black, il tormentato personaggio interpretato da Taylor Lautner nella saga di "Twilight". Questa volta però si cambia scena ed il nostro, pur mantenendo intatta l'espressione da bel tenebroso, viene riciclato in una vicenda a base di intrighi e colpi bassi, relativi ad una fuga di informazioni di vitale importanza per la sicurezza nazionale. A complicare le cose, la scoperta di una famiglia che non è tale, perché i genitori di Nathan Harper, il personaggio interpretato da Lautner, altro non sono che agenti della Cia incaricati di proteggerlo dopo l'uccisione di quelli veri. Il passato che ritorna sotto le vesti di un implacabile killer costringerà il giovane ad una fuga eroica e disperata.
Alle prese con un icona in continua oscillazione tra la prestanza fisica e la fragilità umana, Singleton ne agevola le caratteristiche da un lato, infarcendo la componente action con una serie di combattimenti corpo a corpo che, nel valorizzare il realismo della vicenda, finiscono per esaltare le doti naturali della star, dall'altro, spingendo l'acceleratore sul fattore emotivo, stimolato non solo dalla drammatica rivelazione di una famiglia che non è mai esistita, ma anche dalla love story tra Nathan e la compagna di scuola, accidentalmente coinvolta nella vicenda. Evitando inutili disquisizioni sulle doti di un attore chiamato a raccolta per motivi esclusivamente funzionali, è opportuno evidenziare la pochezza del contorno, popolato da tipi umani così scialbi, soprattutto dalla parte dei cattivi, da non riuscire mai a far trepidare il pubblico sulle sorti dell'eroe. A poco serve la presenza cameo di Sigourney Weaver, nei panni di una psicologa molto particolare, e quella di Alfred Molina nella vesti dell'agente incaricato di recuperare il fuggitivo. La sua presunta ambiguità ridotta a qualche posa è l'emblema di un film che non soddisfa nessuno.
(pubblicata su ondacinema.it)
film in sala dal 14 ottobre
(Friends with benefits)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Will Gluck
CAST: Mila Kunis, Justin Timberlake, Emma Stone, Patricia Clarkson, Woody Harrelson, Richard Jenkins
Arrietty
(Kari-gurashi no Arietti)
GENERE: Animazione, Fantasy
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Giappone
REGIA: Hiromasa Yonebayashi
Cowboys & Aliens
(Cowboys & Aliens)
GENERE: Animazione, Azione, Fantascienza, Western, Fantasy
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Jon Favreau
CAST: Daniel Craig, Olivia Wilde, Jon Favreau, Harrison Ford, Sam Rockwell, Paul Dano
I tre moschettieri
(The Three Musketeers)
GENERE: Azione, Storico, Avventura
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Germania, Francia, Gran Bretagna, USA
REGIA: Paul W.S. Anderson
CAST: Logan Lerman, Matthew Macfadyen, Ray Stevenson, Luke Evans, Milla Jovovich, Orlando Bloom
Super
(Super)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: James Gunn
CAST: Rainn Wilson, Liv Tyler, Ellen Page, Kevin Bacon, Gregg Henry, Michael Rooker
This must be the place
(This Must Be the Place)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Francia, Italia, Irlanda
REGIA: Paolo Sorrentino
CAST: Sean Penn, Frances McDormand, Tom Archdeacon, Shea Whigham, Harry Dean Stanton, Joyce Van Patten
mercoledì, ottobre 12, 2011
L'amore fa male
regia di Mirca Viola
Siamo convinti che gli esordienti vadano incoraggiati: faremo così anche con Mirca Viola, alla quale non si può rimproverare di certo la professionalità dell'allestimento, vista la caratura del casting, attoriale ed anche tecnico, che ha coinvolto nel film.
In più si può apprezzare il coraggio di una scelta, quella del mal d'amore, talmente rappresentata da rischiare l'ovvietà, e la capacità di saper dar vita ai personaggi del film, tirando fuori il meglio dalle sue star.
C'è però una qualità che in un esordio non può mancare, ed è quella della personalità. Si può sbagliare per la voglia di far bene, rischiare di andare fuori tema per eccesso di entusiasmo, ma di sicuro la condizione intrinseca alla prima volta prevede la creazione di un marchio di fabbrica nel quale riconoscere il demiurgo e la sua arte.
Nel raccontare le storie incrociate di personaggi in preda alla sindrome amorosa, soprattutto nella sua valenza meno epicurea, la regista si rifugia nelle atmosfere di quel melò italiano riportato in auge da Ferzan Ozpetek.
Non un male se la presenza di questi stilemi fosse reinterpretata in chiave personale. In questo caso invece succede il contrario, con la matrice originale riproposta senza alcuna variazione.
Personaggi smarriti e confusi, convivenza di tradizione e rinnovamento, la condivisione del dolore come unico placebo, ancora una volta resa attraverso l'immancabile convivio di famiglie allargate, sono i topos di una lezione imparata a memoria.
A farne le spese sono soprattutto i personaggi, intenti a ripetere cose viste altrove - Nicole Grimaudo seppur convincente ripete le temperature e gli sguardi di quello da lei interpretato in “Mine vaganti” – oppure ad enfatizzare una diversità, quella di Germana, il personaggio di Stefania Rocca, ribadita in ogni momento dai campi lunghi sulle mise improbabili e su una camminata resa impacciata dalla presenza di tacchi chilometrici.
Un film in chiaro scuro dal quale però si può ripartire, a patto di cominciare a camminare con le proprie gambe.
(pubblicata su Roma giorno e notte)
lunedì, ottobre 10, 2011
TOMBOY
regia di Céline Sciamma
Tomboy (termine inglese che significa "maschiaccio") è il ritratto di Laure, dieci anni (Zoé Heran) che si trasferisce, all'inizio dell'estate, con i genitori (Mathieu Demy e Sophie Cattani) e la sorellina Jeanne (Malonn Lévana), in una nuova casa dove presto arriverà un fratellino visto che la mamma è in dolce attesa. Laure è alta e molto magra, ha capelli biondi portati corti, occhi azzurri e un faccino pulito. E' una bambina timida e dietro ai lunghi silenzi della propria timidezza cela tumulti interiori di cui non comprende ancora il senso ma dai quali si lascerà condurre come in un gioco.
Al primo incontro con la coetanea Lisa viene scambiata per maschio e Laurie coglie come un fiore questo equivoco presentandosi come Mikael.
Nel nuovo quartiere Laure non conosce nessuno e presentarsi come un maschio ai nuovi amici, all'insaputa dei propri genitori, sembra facilitarle le cose. Vivrà un legame speciale con Lisa e scoprirà un nuovo modo di vedersi e percepirsi in mezzo agli altri, trovando altri modi di esprimersi, sospesa in bilico tra la realtà ed il gioco, fino a quando la sua nuova identità non verrà inevitabilmente smascherata.
Céline Sciamma mette in scena un tema controverso quale è l'identità sessuale e sceglie di farlo con protagonisti molto giovani, in una fase della vita assai delicata in cui la spontaneità ed il contatto con la propria interiorità non sono ancora stati compromessi dalle difficoltà dalle vita.
Laure porta in sè un tumulto interiore prodromico all'adolescenza, ormai alle porte, e che avverte come un morbido incedere tra la pelle ed i pensieri e dal quale si fa coinvolgere in un'esperienza sensoriale e giocosa che l'aiuterà a capire qualcosa in più di sè.
Può essere inteso come un film di formazione, poichè la protagonista cambierà durante l'estate e guadagnerà un tassello di sè e del mondo in termini di consapevolezza.
L'osservazione del proprio corpo che contraddice il proprio essere, la ricerca di un modo di essere che la rassicuri e che la faccia sentire accettata dagli altri, l'esigenza di un modo unico di essere e col quale farsi riconoscere, la spingono ad osare sempre più perigliosamente lungo il sentiero della finzione, rischiando in prima persona, al solo scopo di sentirsi davvero se stessa, in una identità che la rappresenti dal profondo e alla quale riferirsi.
Quanto ci sia di giocoso e quanto invece di più serio non ci è dato di sapere con precisione, ma possiamo solo intuire il peso di quanto grava in Laure lasciandoci attraversare dai suoi lunghi sguardi silenziosi eppure così carichi di parole.
La regista mantiene lo sguardo dei fanciulli per tutta la pellicola, senza giudizio nè prese di posizione, lasciando allo spettatore la libertà di trarre o meno delle conclusioni.
La macchina da presa resta all'altezza dei bambini, gli adulti entrano nella storia molto marginalmente e senza mai prenderne le redini: sono personaggi necessari all'economia della storia ma comunque relegati ai bordi e dai cui comportamenti possiamo cogliere importanti indizi per meglio conoscere Laurie e la sorella.
La famiglia di Laure è unita, le bambine sono molto amate e accudite dai genitori, le due sorelle giocano insieme serenamente e presto diventeranno complici nel segreto di Laure, il fratellino in arrivo è atteso con gioia e curiosità da tutti e quattro.
Tutto sembra procedere al meglio, eppure Laure inizia ad avvertire stonature. I contunui traslochi le impediscono di ancorarsi a certezze e a luoghi, a crearsi una identità precisa di crescita e con riferimenti stabili al di fuori della famiglia; Laurie cerca confusamente risposte su altri piani: una socialità inseguita e da ricostruire ogni volta, un sentirsi indefinita, il tentativo di decodificare i propri messaggi interiori.
La scarna colonna sonora lascia ampio spazio ai tanti primi piani e alle lunghe sequenze girate negli interni.
La spumeggiante naturalezza del divertimento e del sogno che Laure vive durante i giochi con gli amici è descritta con colori saturi e generosità di panorami in esterno e si contrappone all'ovattata tranquillità di casa da cui la giovane protagonista si lascia accarezzare e dalla quale tuttavia anela allontanarsi, in cerca di una libertà espressiva che nell'abbraccio genitoriale sembra non trovare.
La scoperta dell'inganno sconvolgerà maggiormente la madre rispetto al padre e sarà comunque vissuta con moderata tensione, permettendo a Laurie di elaborare l'accaduto senza venir schiacciata dal senso di vergogna, di colpa o di inadeguatezza.
Il vestitino abbandonato nel bosco, i sorrisi innocenti e giocosi scambiati alla amica Lisa, il suo modo impacciato di scoprirsi femmina e quel suo dichiarare il prorpio vero nome "Laurie", promuovono la Nostra ad una nuova fase di vita in cui poter essere ciò che percepisce senza per questo ferire i propri affetti più importanti.
La lentezza di alcune parti è controbilanciata dalla leggerezza di fondo che sorregge la storia e che tenta di darci una lettura dei fatti il meno seriosa e soprattutto il meno adulta possibile, lasciando ancora spazio alla saggezza cristallina dell'animo umano che abita i bambini.
Non so se il tentativo della regista fosse quello da me percepito nè se questo prodotto possa definirsi coerente e soddisfacente, ma a me ha lasciato una leggerezza d'animo di fondo che mi ha ridonato fiducia nelle risorse interiori umane.
La sceneggiatura è stata scritta da Céline Sciamma in tre settimane, circa lo stesso tempo che ci è voluto per portare a termine le riprese.
Il film ha ricevuto il Premio della giuria ai Teddy Awards 2011 a Berlino 61, il Premio Ottavio Mai e il Premio del pubblico al 26° Torino GLBT Film Festival, il Premio della giuria al Philadelphia International Gay & Lesbian Film Festival e Premio alla miglior attrice (Zoé Héran) al NewFest – New York’s LGBT Film Festival.
venerdì, ottobre 07, 2011
Oltre il mare
regia di Cesare Fragnelli
Nel panorama cinematografico italiano la condizione giovanile ha trovato due canali preferenziali: sintetizzando si potrebbe dire che il primo, prendendo in considerazione gli aspetti più leggeri e divertenti di quell'età, risponde al modello di commedia romantica sul tipo di "Santa Maradona", divertissement di amore e disoccupazione, appena macchiato dalle inquietudini del tempo presente; il secondo invece, soffermandosi sulla difficoltà di crescere e sul disagio provocato dalle prime delusioni della vita, ha trovato nel dramma esistenziale esemplarmente riassunto in un film seminale come "Che ne sarà di noi", la sua valvola di sfogo. Non necessariamente separate, le tue tendenze sempre più spesso provano a convivere nello stesso spazio filmico, in un'osmosi a cui non è indifferente la volontà di aumentare il bacino delle utenze.
Così succede a Cesare Fragnelli ed alla sua opera seconda, un resoconto filmato sull'amore tradito e poi riconquistato da parte di un gruppo di ragazzi pugliesi durante una vacanza estiva. Partendo da un registro che privilegia il cinema verità, con luci naturali e telecamera a mano, ad enfatizzare la spontaneità dei gesti e l'energia dell'ambiente, il film si sviluppa affidando all'eterogeneità dei caratteri il compito di mantenere l'assunto iniziale.
Una varietà che non lascia fuori niente, e che comprende la spavalderia e la sicurezza di Sergio, pronto a non lasciarsi scappare alcuna occasione, il tormento e l'inquietudine di Francesco, amante non corrisposto da una fidanzata che non vuole più vederlo, la falsità di Guglielmo, facile a promesse che non può mantenere, la simpatia di Giordano, coscienza del gruppo ed occhio privato sulle disfunzioni della società.
Così, nella convinzione che il tradimento sia il passaggio obbligatorio per qualsiasi riconciliazione, la sceneggiatura costruisce una partitura di dolore e di catarsi, finalizzata ad una serie di scene madri che, invece di posizionarsi a conclusione di un percorso emozionale e psicologico, si succedono sistematicamente durante tutto il corso del film, costringendo lo spettatore ad adattarsi a cambi di umore troppo meccanici per essere credibili.
Un saliscendi capace di presentare sullo stesso piano drammaturgico, ed a breve distanza di tempo, lo sgomento per una morte improvvisa e la gioia per la vittoria in un concorso culinario, oppure di risolvere la volontà suicida di uno dei protagonisti con poche battute, appena il tempo di sventarne il tentativo, per poi riconsegnarlo agli amici, come se nulla fosse successo.
A tutto questo si aggiunga il mancato approfondimento di un background sociale capace di spiegare le azioni dei personaggi -la famiglia condensata nei genitori di Francesco è così naif da non sembrare vera- e troppo scontato nell'assegnare le colpe allo sballo da discoteca.
Non tutto è da buttare, a cominciare dalla proposizione di una serie di nuovi volti, soprattutto quelli di Alberto Galetti ed Alessandro Intini, a riproporre un aggiornamento più ruspante del conterraneo Scamarcio, proseguendo con il decentramento geografico di un genere finalmente strappato allo strapotere produttivo ed anche iconografico delle città campione, e per finire ad uno stile grezzo e vitaminico, simile a quello che distinse un altro campione del cinema pugliese come l'Alessandro Piva de "Lacapagira".
Speriamo sia di buon auspicio.
(pubblicata su ondacinema.it)
giovedì, ottobre 06, 2011
film in sala dal 7 ottobre 2011
(Abduction)
GENERE: Azione, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: John Singleton
CAST: Taylor Lautner, Lily Collins, Alfred Molina, Sigourney Weaver, Elisabeth Rohm, Jason Isaacs
EX - amici come prima
(EX - amici come prima)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Carlo Vanzina
CAST: Alessandro Gassman, Enrico Brignano, Anna Foglietta, Vincenzo Salemme
Final Destination 5
(Final Destination 5)
GENERE: Horror, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: USA
REGIA: Steven Quale
CAST: Emma Bell, Miles Fisher, Nicholas D'Agosto, Tony Todd, David Koechner, Courtney B. Vance
Il villaggio di cartone
(Il villaggio di cartone)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Ermanno Olmi
CAST: Michael Londsdale, Rutger Hauer, Massimo De Francovich, Alessandro Haber
Jane Eyre
(Jane Eyre)
GENERE: Drammatico, Sentimentale
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Gran Bretagna
REGIA: Cary Fukunaga
CAST: Mia Wasikowska, Michael Fassbender, Jamie Bell, Imogen Poots, Judi Dench, Sally Hawkins
L'amore fa male
(L'amore fa male)
GENERE: Commedia
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Italia
REGIA: Mirca Viola
CAST: Stefania Rocca, Paolo Briguglia, Claudio Bigagli, Nicole Grimaudo, Stefano Dionisi, Diane Fleri
Tomboy
(Tomboy)
GENERE: Drammatico
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Francia
REGIA: Céline Sciamma
CAST: Zoé Héran, Malonn Lévana, Jeanne Disson, Sophie Cattani, Mathieu Demy, Ryan Boubekri
Un poliziotto da Happy Hour
(The Guard)
GENERE: Commedia, Thriller
ANNO: 2011
NAZIONALITÀ: Irlanda
REGIA: John Michael McDonagh
CAST: Brendan Gleeson, Don Cheadle, Liam Cunningham, David Wilmot, Rory Keenan, Mark Strong
lunedì, ottobre 03, 2011
A dangerous method
regia di David Cronemberg
Se il cinema fosse come il vino, e si potesse degustarlo come fanno i sommelier, cercando di riconoscerne la qualità senza alcun riferimento, eccezion fatta per la consistenza organolettica della bevanda, allora si farebbe fatica a riconoscere nella trasposizione cinematografica della piecè di Christopher Hampton, “The talking cure”, il tocco di David Cronemberg.
Eppure la liaison tra Sabina Spielrein e Carl Jung, ed in sottordine anche il confronto tra due menti complesse come quella dello psichiatra svizzero e del suo mentore, il famoso Sigmund Freud, aveva più di uno spunto capace di conquistare l’immaginario del regista canadese: primo fra tutti il contrasto tra le pulsioni della carne, ancestrali ed irrefrenabili, quella di Sabina, minate alla base da un educazione repressiva e dominante, così come quelle di Jung, inibito per convenienza (la ricchissima moglie ne sovvenzionò gli studi e le ricerche) e cultura, con la razionalità di un metodo, la psicanalisi, che vorrebbe controllarle. Una dicotomia che sotto diverse forme è da sempre uno dei fattori generativi del suo cinema ed insieme l’utopia destinata a schiacciare i personaggi delle sue storie.
E poi l’attrazione verso una sessualità fisicamente difficile (Crash, M Butterfly solo per citare alcuni esempi) qui rappresentata dal piacere masochista di Sabina, ed espressa in maniera anticonvenzionale.
er non parlare della costante presenza di un umanità al limite, sempre sull’orlo della follia per le conseguenze di una diversità che emargina perché non se ne può parlare, come accade a Jung allontanato da Freud per divergenze ideologiche e costretto ad un esilio dorato, ed a Sabina, quando nel pieno della nevrosi di cui si sente in colpa, invoca per sé la reclusione dal mondo.
Sul piano pratico queste tematiche si traducono in una trasposizione che non concede nulla sul piano dell’eversione visiva e concettuale: nella perfezione della ricostruzione d’epoca, nell’attenzione degli ambienti e dei costumi, il nodo psicanalitico si scioglie in conversazioni tra gentiluomini irrigiditi dentro abiti troppo stretti, e nei gesti scomposti di una donna che sembra posseduta dal demonio. Segni esteriori che rimangono tali.
Non riescono a penetrare il muro della convenzione, reale, quella vigente all’epoca dei fatti raccontati (siamo nell'Europa dei primi del 900) e cinematografica, quella del melò, genere a cui appartiene il film.
Sullo schermo rimane più che altro il ritratto di due uomini distanti dalle loro teorie, incapaci di dargli seguito sul piano pratico, con Freud interessato a salvaguardare l’istituzionalità della sua idea idea ed invidioso dell’agiatezza economica del suo delfino, e Jung, borghese per sua stessa ammissione, prima capace di sconfessare il suo credo cedendo alla passione, e poi spettatore passivo di scelte che non riesce a fare per mancanza di coerenza.
La sovrastruttura, presente persino nel paesaggio naturale, così composto da risultare astratto, non riesce ad entrare in alchimia con le contorsioni dell’animo; a creare il cortocircuito necessario. Se fosse un vino "A dangerous method" avrebbe il gusto di un film di James Ivory, essendo un film, è l’opera di transizione di un artista che sta cercando di capire da che parte andare.
DRIVE
regia di N. Refn
Driver (Ryan Gosling) lavora come meccanico nell'officina di Shannon (Bryan Cranston) e fa lo stuntman come pilota di auto per scene pericolose che prevedono inseguimenti e scontri.
Per arrotondare, Driver, accompagna rapinatori sul luogo del delitto garantendo loro una fuga veloce e sicura.
Il taciturno meccanico si innamora di Irene (Carey Mulligan), sua vicina di casa, una giovane madre con marito in carcere.
Quando Standard (Oscar Isaac), il marito di Irene, esce dal carcere, la situazione si fa complicata.
Standard ha dei debiti con dei criminali i quali minacciano la sua famiglia. Driver decide allora di fargli da autista per la rapina che dovrebbe mettere a posto la situazione.
Le cose però non vanno come previsto, la rapina è in realtà una trappola.
Nonostante la perenne sensazione del "già visto", quando si ha a che fare con questo tipo di pellicole, Drive è un film intenso che riesce a coinvolgere lo spettatore, anche a dispetto (o per merito) di un Ryan Gosling quasi inespressivo che riesce a dare spessore al suo personaggio, che ricorda vagamente il Clint Eastwood monoespressivo dei tempi di Sergio Leone.
Nicolas Winding Refn (Bronson - 2009) rallenta il ritmo (anche durante le scene riguardanti le fughe in auto) e trascina lo spettatore in una spirale di violenza che esplode improvvisa e rumorosa nell'apparente calma con la quale il regista danese confeziona il suo film.
Refn realizza un film di genere asciutto, pulito e senza fronzoli, proprio quello che ci si aspetta (ma spesso le attese vanno deluse) da un produzione americana che commissiona una pellicola ad un regista europeo dalle chiare doti.
Drive è certamente un buon film; bella regia (premiata a cannes 2011) , ottima colonna sonora e un grande Albert Brooks boss elegante, imprevedibile, freddo e spietato.