"Panic in the Needle Park"
(Panico a Needle Park)
di: Jerry Schatzberg
con: A. Pacino, K. Winn, A. Vint, R. Bright, R. Julia
- USA 1971 -
110'
La forza immane e segreta, materiale e psicologica, nel cuore di quello strano universo che conosciamo col nome di America, risiede in gran parte nell'indifferente disinvoltura con cui amalgama e sbriciola i desideri, le illusioni ma pure le debolezze e le viltà di coloro che la abitano.
La disadorna parabola narrata da Jerry Schatzberg in "Panico a Needle Park", tratto dal libro omonimo di James Mills e sceneggiato da Joan Didion insieme a John Gregory Dunne, e' una delle migliori testimonianze e conferma del precedente assunto, nonché emblema e riferimento di quelle scelte stilistico- espressive che ridefinendo buona parte dei contorni della cinematografia made in USA del periodo hanno dato vita alla cosiddetta "New Hollywood".
All'inizio degli anni '70, la società americana prendeva già a scontare i postumi della sbornia immaginifica e libertaria della "fantasia al potere" che dal culmine della sua spinta in avanti - la "summer of love" del '67 - aveva via via smarrito la leggerezza, l'ingenuità colorata di misticismo e afflato di
pacificazione universale ma soprattutto la convinzione di modificare lo spirito dei tempi e il calco interiore degli uomini, per ripiegare verso esperienze sempre più estreme e autolesionistiche, da un lato, o tentando di moderare il disincanto e la delusione attraverso forme più o meno spinte di autoemarginazione e ammutolito distacco, dall'altro: tutto malamente intruppato nel clima mortifero alimentato dal conflitto vietnamita (che continuava a trascinarsi senza apparenti sbocchi in uno stillicidio di "spiragli risolutivi" e repentini rovesci, questi e quelli punteggiati di cadaveri), e nell'opaco quadro politico affermatosi con la seconda amministrazione Nixon che, inauguratasi col celebre appello elettorale alla "maggioranza silenziosa", ostile alla controcultura come alle proposte progressiste più radicali, sarebbe sprofondata qualche anno dopo nella tragicommedia del Watergate.
Il sovrapporsi e l'incrociarsi spesso rabbioso di queste istanze (pensiamo a
tutto il sotterraneo mondo del movimentismo americano in più di un caso terreno
di coltura per derive di tipo terroristico) produceva confitti sociali aspri di
cui le giovani generazioni erano al tempo protagonisti, sostenitori/denigratori
e vittime. Ad esempio, la trappola della tossicodipendenza più miserabile -
quella metropolitana di strada - nucleo narrativo del film, non aveva vissuto,
nemmeno di riflesso, la stagione "maudit" che aveva caratterizzato per un certo
lasso il microcosmo privilegiato che teorizzava riguardo una "cultura della
droga". Spaccio, abuso e i loro addentellati più ovvi, furto e prostituzione,
erano ne' più ne' meno che stazioni di un calvario penoso inesorabilmente
uguale a se stesso, fondato sulla reiterazione coatta, nella stragrande
maggioranza dei casi destinato alla tragedia.
Il film di Schatzberg che, e' bene ricordarlo, si colloca già al suo apparire
come "oggetto singolare" su una scena che proponeva altri sguardi critici,
feroci, violenti, da "Il braccio violento della legge"/"French connection" di
Friedkin, passando per "Ispettore Callaghan..."/"Dirty Harry" di Siegel, sino a
"Cane di paglia"/"Straw dogs" di Peckinpah, tutti e tre del '71, non esita a
muoversi entro i limiti severi di una messinscena impietosa, scevra di
indulgenze melodrammatiche come di sospetti di adesione consolatoria al destino
dei caratteri, ricca com'e' di piani ad altezza-uomo e inquadrature "intime"
(grazie all'uso della macchina a mano), di tagli bruschi e stacchi improvvisi a
stroncare il rischio dell'immedesimazione ruffiana e del patetico. Anzi, la
desolazione di ambienti e situazioni; la mancanza di un commento sonoro
sostituito dalle voci e dai rumori della strada; la povertà dei dialoghi
sovente poco più che sottolineature indifferenti, neutre o risentite, secondo
la cantilena del bisogno tipiche del milieu degli schiavi della "roba"; le
sembianze sinistre e respingenti di una New York mai così ostile e distante
dallo stereotipo delle sue eterne "mille luci", splendidamente resa dai colori
logori e atrofizzati di Adam Holender (già collaboratore di Schatzberg per il
suo esordio del '70, "Mannequin"/"Puzzle of a downfall child", nonché operatore
per Schlesinger in "Un uomo da marciapiede"/"Midnight cowboy", 1969),
concorrono ad asciugare vieppiù il corpo del film, conducendolo in una
dimensione quasi astratta, dove fedeltà semi-documentaristica allo "sbattersi"
quotidiano in cerca della tregua chimica e impostazione molto vicina al sentire
teatrale si fondono in una rappresentazione fredda ma essenziale, scostante ma
lucidissima, ravvivata unicamente dalla flebile quanto tenace fiamma del
sentimento che lega, nonostante ogni vicissitudine, i due protagonisti.
Da un lato c'è Bobby, piccolo spacciatore attivo nei dintorni dell'"ago" di
verde (Needle Park) tra Broadway, Amsterdam Avenue e Manhattan: di tanto in
tanto cliente di se stesso con la droga che vende; rotto al taccheggio e in
generale al furto per restare a galla ed evitare la prigione di cui e' altresì
ospite abituale. Un personaggio, come si vede, fin troppo tipico di certe
storie, se ad interpretarlo non fosse stato chiamato un Al Pacino pressoché
agli inizi che, letteralmente, irrompe nella storia del cinema con questa
parte, mettendo in mostra da subito la febbrile frenesia di uomo animato da una
energia e da una presenza di spirito fuori dal comune. Corpo minuto ma
mobilissimo; occhi in continua perlustrazione. Mimica trattenuta ma come pronta
in ogni istante a palesarsi. Quell'istrionismo naturale, insomma, che tutti
abbiamo imparato a riconoscergli, era già li'. Ora misurato, ora come indifeso
ma sempre percorso da improvvisi accessi d'iperattivismo e nevrosi. Di rimpetto
abbiamo Helen (l'esile Kitty Winn, palma d'oro a Cannes per l'interpretazione),
ragazza timida e gentile con generiche aspirazioni artistiche che il cuore di
pietra della Grande Mela impiegherà poco ad ingoiare ed evacuare. Intorno, la
varia umanità dolente di ogni abiezione: mezze tacche, poveri cristi,
sconfitti, tutti attaccati alla vita coi denti e pronti a tradire per niente o
per il "panico" che si diffonde sulla piazza temporaneamente orfana della roba.
Tante solitudini, alla fin fine, e due vite a perdere, Bobby e Helen, destinate
ad incontrarsi e ad appoggiarsi l'una all'altra per drenare la disperazione,
senza che nulla gli venga risparmiato (e a noi non mostrato): l'iniziazione
all'eroina (Helen); lo sprofondare nella dipendenza (Bobby); il vendersi per
una dose (Helen); tentare/illudersi di entrare nel giro grosso (Bobby). Giù
giù, fino alla collaborazione delatoria con la polizia per Helen (polizia che,
sotto la maschera ingannevole dell'autorita' e della giustizia, non ha la
minima intenzione di "recuperarla" ma di nuovo e daccapo, come tutto e tutti,
si limita ad usarla nella contabilità cieca di "un mezzo per uno scopo") e
l'ennesimo soggiorno in galera per Bobby.
Coerentemente e in perfetta sintonia coi tempi, Schatzberg si distacca - e qui risiede uno dei lasciti più duraturi della Nuova Hollywood - dalla drammaturgia tradizionale per porre al centro dell'indagine e della Storia le vite di persone estromesse a vario titolo dalla tenaglia produzione/consumo perché
anelli deboli della catena del profitto, sottoprodotti difettosi quanto ingombranti di un meccanismo che non ammette intoppi o esitazioni, entità spendibili unicamente nella prospettiva residuale di una progressiva dissipazione di se'. Analisi, questa, che verra' portata alle estreme conseguenze un paio di anni più tardi, nel '73, con "Lo spaventapasseri"/"The scarecrow", di nuovo insieme a Pacino e con l'apporto di un'altra figura- feticcio di quel cinema - Gene Hackman - riflettendo con taglio intimista sul senso dell'amicizia virile e sul disagio di vivere in un mondo che sembra aver smarrito tutti i suoi riferimenti.
"Panico a Needle Park" si chiude, allora, come si era aperto: senza enfasi e senza liberatorie vie d'uscita. Poche frasi in un'alba livida, appena fuori dal
carcere, ribadiscono l'ostinazione di restare insieme, comunque. Nessuna
certezza, nemmeno quella estrema per cui l'ulteriore chance di libertà implichi
di per se' l'impossibilità di giocarsela per un "buco": un buco magari troppo
ricco, stavolta. Magari tagliato male. Negli occhi e nel cuore solo quella
testardaggine. Forse basterà per cominciare un altro tipo di viaggio.
TheFisherKing
(Panico a Needle Park)
di: Jerry Schatzberg
con: A. Pacino, K. Winn, A. Vint, R. Bright, R. Julia
- USA 1971 -
110'
La forza immane e segreta, materiale e psicologica, nel cuore di quello strano universo che conosciamo col nome di America, risiede in gran parte nell'indifferente disinvoltura con cui amalgama e sbriciola i desideri, le illusioni ma pure le debolezze e le viltà di coloro che la abitano.
La disadorna parabola narrata da Jerry Schatzberg in "Panico a Needle Park", tratto dal libro omonimo di James Mills e sceneggiato da Joan Didion insieme a John Gregory Dunne, e' una delle migliori testimonianze e conferma del precedente assunto, nonché emblema e riferimento di quelle scelte stilistico- espressive che ridefinendo buona parte dei contorni della cinematografia made in USA del periodo hanno dato vita alla cosiddetta "New Hollywood".
All'inizio degli anni '70, la società americana prendeva già a scontare i postumi della sbornia immaginifica e libertaria della "fantasia al potere" che dal culmine della sua spinta in avanti - la "summer of love" del '67 - aveva via via smarrito la leggerezza, l'ingenuità colorata di misticismo e afflato di
pacificazione universale ma soprattutto la convinzione di modificare lo spirito dei tempi e il calco interiore degli uomini, per ripiegare verso esperienze sempre più estreme e autolesionistiche, da un lato, o tentando di moderare il disincanto e la delusione attraverso forme più o meno spinte di autoemarginazione e ammutolito distacco, dall'altro: tutto malamente intruppato nel clima mortifero alimentato dal conflitto vietnamita (che continuava a trascinarsi senza apparenti sbocchi in uno stillicidio di "spiragli risolutivi" e repentini rovesci, questi e quelli punteggiati di cadaveri), e nell'opaco quadro politico affermatosi con la seconda amministrazione Nixon che, inauguratasi col celebre appello elettorale alla "maggioranza silenziosa", ostile alla controcultura come alle proposte progressiste più radicali, sarebbe sprofondata qualche anno dopo nella tragicommedia del Watergate.
Il sovrapporsi e l'incrociarsi spesso rabbioso di queste istanze (pensiamo a
tutto il sotterraneo mondo del movimentismo americano in più di un caso terreno
di coltura per derive di tipo terroristico) produceva confitti sociali aspri di
cui le giovani generazioni erano al tempo protagonisti, sostenitori/denigratori
e vittime. Ad esempio, la trappola della tossicodipendenza più miserabile -
quella metropolitana di strada - nucleo narrativo del film, non aveva vissuto,
nemmeno di riflesso, la stagione "maudit" che aveva caratterizzato per un certo
lasso il microcosmo privilegiato che teorizzava riguardo una "cultura della
droga". Spaccio, abuso e i loro addentellati più ovvi, furto e prostituzione,
erano ne' più ne' meno che stazioni di un calvario penoso inesorabilmente
uguale a se stesso, fondato sulla reiterazione coatta, nella stragrande
maggioranza dei casi destinato alla tragedia.
Il film di Schatzberg che, e' bene ricordarlo, si colloca già al suo apparire
come "oggetto singolare" su una scena che proponeva altri sguardi critici,
feroci, violenti, da "Il braccio violento della legge"/"French connection" di
Friedkin, passando per "Ispettore Callaghan..."/"Dirty Harry" di Siegel, sino a
"Cane di paglia"/"Straw dogs" di Peckinpah, tutti e tre del '71, non esita a
muoversi entro i limiti severi di una messinscena impietosa, scevra di
indulgenze melodrammatiche come di sospetti di adesione consolatoria al destino
dei caratteri, ricca com'e' di piani ad altezza-uomo e inquadrature "intime"
(grazie all'uso della macchina a mano), di tagli bruschi e stacchi improvvisi a
stroncare il rischio dell'immedesimazione ruffiana e del patetico. Anzi, la
desolazione di ambienti e situazioni; la mancanza di un commento sonoro
sostituito dalle voci e dai rumori della strada; la povertà dei dialoghi
sovente poco più che sottolineature indifferenti, neutre o risentite, secondo
la cantilena del bisogno tipiche del milieu degli schiavi della "roba"; le
sembianze sinistre e respingenti di una New York mai così ostile e distante
dallo stereotipo delle sue eterne "mille luci", splendidamente resa dai colori
logori e atrofizzati di Adam Holender (già collaboratore di Schatzberg per il
suo esordio del '70, "Mannequin"/"Puzzle of a downfall child", nonché operatore
per Schlesinger in "Un uomo da marciapiede"/"Midnight cowboy", 1969),
concorrono ad asciugare vieppiù il corpo del film, conducendolo in una
dimensione quasi astratta, dove fedeltà semi-documentaristica allo "sbattersi"
quotidiano in cerca della tregua chimica e impostazione molto vicina al sentire
teatrale si fondono in una rappresentazione fredda ma essenziale, scostante ma
lucidissima, ravvivata unicamente dalla flebile quanto tenace fiamma del
sentimento che lega, nonostante ogni vicissitudine, i due protagonisti.
Da un lato c'è Bobby, piccolo spacciatore attivo nei dintorni dell'"ago" di
verde (Needle Park) tra Broadway, Amsterdam Avenue e Manhattan: di tanto in
tanto cliente di se stesso con la droga che vende; rotto al taccheggio e in
generale al furto per restare a galla ed evitare la prigione di cui e' altresì
ospite abituale. Un personaggio, come si vede, fin troppo tipico di certe
storie, se ad interpretarlo non fosse stato chiamato un Al Pacino pressoché
agli inizi che, letteralmente, irrompe nella storia del cinema con questa
parte, mettendo in mostra da subito la febbrile frenesia di uomo animato da una
energia e da una presenza di spirito fuori dal comune. Corpo minuto ma
mobilissimo; occhi in continua perlustrazione. Mimica trattenuta ma come pronta
in ogni istante a palesarsi. Quell'istrionismo naturale, insomma, che tutti
abbiamo imparato a riconoscergli, era già li'. Ora misurato, ora come indifeso
ma sempre percorso da improvvisi accessi d'iperattivismo e nevrosi. Di rimpetto
abbiamo Helen (l'esile Kitty Winn, palma d'oro a Cannes per l'interpretazione),
ragazza timida e gentile con generiche aspirazioni artistiche che il cuore di
pietra della Grande Mela impiegherà poco ad ingoiare ed evacuare. Intorno, la
varia umanità dolente di ogni abiezione: mezze tacche, poveri cristi,
sconfitti, tutti attaccati alla vita coi denti e pronti a tradire per niente o
per il "panico" che si diffonde sulla piazza temporaneamente orfana della roba.
Tante solitudini, alla fin fine, e due vite a perdere, Bobby e Helen, destinate
ad incontrarsi e ad appoggiarsi l'una all'altra per drenare la disperazione,
senza che nulla gli venga risparmiato (e a noi non mostrato): l'iniziazione
all'eroina (Helen); lo sprofondare nella dipendenza (Bobby); il vendersi per
una dose (Helen); tentare/illudersi di entrare nel giro grosso (Bobby). Giù
giù, fino alla collaborazione delatoria con la polizia per Helen (polizia che,
sotto la maschera ingannevole dell'autorita' e della giustizia, non ha la
minima intenzione di "recuperarla" ma di nuovo e daccapo, come tutto e tutti,
si limita ad usarla nella contabilità cieca di "un mezzo per uno scopo") e
l'ennesimo soggiorno in galera per Bobby.
Coerentemente e in perfetta sintonia coi tempi, Schatzberg si distacca - e qui risiede uno dei lasciti più duraturi della Nuova Hollywood - dalla drammaturgia tradizionale per porre al centro dell'indagine e della Storia le vite di persone estromesse a vario titolo dalla tenaglia produzione/consumo perché
anelli deboli della catena del profitto, sottoprodotti difettosi quanto ingombranti di un meccanismo che non ammette intoppi o esitazioni, entità spendibili unicamente nella prospettiva residuale di una progressiva dissipazione di se'. Analisi, questa, che verra' portata alle estreme conseguenze un paio di anni più tardi, nel '73, con "Lo spaventapasseri"/"The scarecrow", di nuovo insieme a Pacino e con l'apporto di un'altra figura- feticcio di quel cinema - Gene Hackman - riflettendo con taglio intimista sul senso dell'amicizia virile e sul disagio di vivere in un mondo che sembra aver smarrito tutti i suoi riferimenti.
"Panico a Needle Park" si chiude, allora, come si era aperto: senza enfasi e senza liberatorie vie d'uscita. Poche frasi in un'alba livida, appena fuori dal
carcere, ribadiscono l'ostinazione di restare insieme, comunque. Nessuna
certezza, nemmeno quella estrema per cui l'ulteriore chance di libertà implichi
di per se' l'impossibilità di giocarsela per un "buco": un buco magari troppo
ricco, stavolta. Magari tagliato male. Negli occhi e nel cuore solo quella
testardaggine. Forse basterà per cominciare un altro tipo di viaggio.
TheFisherKing
1 commento:
un film da riscoprire, non fosse solo per vedere la prima di Al Pacino..ho apprezzato molto la storicizzazione del film che lo restituisce ad un'epoca ricchissima di fermenti, e quindi di pumti di vista..
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