Pasolini
di Abel Ferrara
con Willem Dafoe, Maria de Medeiros, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande
Belgio, Italia, Francia 2014
genere, biografico, drammatico
durata, 86'
Il cinema non è solo un'esperienza linguistica,
ma,proprio in quanto ricerca linguistica,
è un'esperienza filosofica.
(Pier Paolo Pasolini)
Come avere un asso nella manica ma riuscire comunque a perdere — e perdersi— in poche facili mosse lo ha mostrato Abel Ferrara con Pasolini, presentato al Festival di Toronto e alla settantunesima edizione della mostra d'arte cinematografica di Venezia, dove ha diviso pubblico e critica sulle note d'un grave fischio continuo e qualche audace applauso.
Il regista italo-americano non è certo alieno alle tinte fosche e ai sapori noir che fan da sfondo alla sagoma di Pier Paolo Pasolini e in particolar modo alla sua fine — vicenda attorno a cui si dispiega tutta la pellicola —, non a caso questi ebbe a dire la morte di una persona rispecchia la vita che ha avuto.
Nonostante la rottura del sodalizio artistico con St. John, qui sostituito da Maurizio Braucci — sceneggiatore peraltro anche del fortunato Anime Nere —, le carte per rendere onore all'ultimo spirito totale dei nostri tempi c'erano tutte. Se il viso scalfito di Dafoe è quasi indistinguibile da quello del personaggio che interpreta, la presenza nel cast di attori che conobbero e lavorarono con Pasolini non avrebbe dovuto che favorire una minuziosa ricostruzione di eventi e caratteri. Peccato che i personaggi ruotino attorno al protagonista privi di alcuno spessore psicologico o definizione tipologica.
Non solo Dafoe, sotto consiglio di Scorsese con cui stava allora girando L'ultima tentazione di Cristo, conobbe quel Pasolini che ora interpreta grazie a Il vangelo secondo Matteo ma Adriana Asti fu da lui diretta in Accattone, per non parlare poi di Ninetto Davoli che ebbe col poeta e regista una lunga relazione umana. Fu proprio Davoli ad effettuare il riconoscimento del corpo dell'amico, quella maledetta mattina del 2 Novembre 1975.
Incontri fortunati che rendono la pellicola un prodotto ibrido, di natura quasi metacinematografica, liberando il regista dal gravoso compito di dover spiegare chi era Pasolini: una regia — pare a tratti mettere alla berlina il suo stesso prodotto— che avrebbe potuto fare affidamento sui molti grazie a cui Pasolini vive ancora, favorendo così una riuscita meno asettica, fredda e distaccata.
Grande punto di forza è una narrazione laica, scevra da ideologie o versioni prestabilite con cui viene normalmente declinata la poetica pasoliniana. Il Pasolini di Ferrara, riccamente privo di qualsiasi facile tinta nostalgica per i "bei" tempi andati, non fa l'occhiolino ad un un nuovo capitolo giudiziario sulla succulenta vicenda della mattanza del protagonista, sicuramente attraente per quel pubblico italiano seguace di inchieste spesso ai limiti del grottesco.
L'opera vuole "semplicemente" meditare e invitare ad essere seguita, carattere questo che allontana Pasolini da una certa spiazzante sregolatezza che caratterizza la produzione di Ferrara, inaugurando forse una sua nuova e più matura era stilistica. Vero oggetto di riflessione è la tensione, entro cui la vicenda dello scrittore si agita, del rapporto vita-arte emblematizzato nella paradossale condizione di chi usa la seconda come pungolo rivoluzionario per raddrizzare la prima.
Un certo senso di fine imminente permea tutti gli 86 minuti della pellicola: da una soluzione coloristica per lo più fredda a musiche claustrofobiche, passando per ricorrenti scene di interni e abitacoli tutti i sensi contribuiscono a creare nello spettatore un crescente disagio che resta però insoddisfatto e senza spiegazione.
Secondo il topos greco del doppio filo eros-thanatos, la morte si intreccia con l'amore — e con una sessualità gratuita— sullo sfondo di una ricostruzione onirico-immaginaria quasi ridicola che Abel Ferrara propone di quel progetto cinematografico mai compiuto che fu Porno-Teo-Kolossal.
Miracolosamente neppure l'improbabile freddezza di un'opera che è cinema tanto davanti quanto dietro la macchina da presa, riesce a non evidenziare quel portento umano culturale e politico —giacché la politica, come Pasolini-Dafoe ricorda all'inizio del film è tutto ciò che riguarda l'uomo, persino il sesso— che fu Pier Paolo Pasolini.
Brillante la battuta che Ferrara immagina essere parte di una sceneggiatura pasoliniana, e che racchiude buona parte delle speranze che Pasolini ha sempre regalato
" e adesso? La fine non esiste. Aspettiamo, aspettiamo, qualcosa succederà".
Erica Belluzzi
di Abel Ferrara
con Willem Dafoe, Maria de Medeiros, Riccardo Scamarcio, Giada Colagrande
Belgio, Italia, Francia 2014
genere, biografico, drammatico
durata, 86'
Il cinema non è solo un'esperienza linguistica,
ma,proprio in quanto ricerca linguistica,
è un'esperienza filosofica.
(Pier Paolo Pasolini)
Come avere un asso nella manica ma riuscire comunque a perdere — e perdersi— in poche facili mosse lo ha mostrato Abel Ferrara con Pasolini, presentato al Festival di Toronto e alla settantunesima edizione della mostra d'arte cinematografica di Venezia, dove ha diviso pubblico e critica sulle note d'un grave fischio continuo e qualche audace applauso.
Il regista italo-americano non è certo alieno alle tinte fosche e ai sapori noir che fan da sfondo alla sagoma di Pier Paolo Pasolini e in particolar modo alla sua fine — vicenda attorno a cui si dispiega tutta la pellicola —, non a caso questi ebbe a dire la morte di una persona rispecchia la vita che ha avuto.
Nonostante la rottura del sodalizio artistico con St. John, qui sostituito da Maurizio Braucci — sceneggiatore peraltro anche del fortunato Anime Nere —, le carte per rendere onore all'ultimo spirito totale dei nostri tempi c'erano tutte. Se il viso scalfito di Dafoe è quasi indistinguibile da quello del personaggio che interpreta, la presenza nel cast di attori che conobbero e lavorarono con Pasolini non avrebbe dovuto che favorire una minuziosa ricostruzione di eventi e caratteri. Peccato che i personaggi ruotino attorno al protagonista privi di alcuno spessore psicologico o definizione tipologica.
Non solo Dafoe, sotto consiglio di Scorsese con cui stava allora girando L'ultima tentazione di Cristo, conobbe quel Pasolini che ora interpreta grazie a Il vangelo secondo Matteo ma Adriana Asti fu da lui diretta in Accattone, per non parlare poi di Ninetto Davoli che ebbe col poeta e regista una lunga relazione umana. Fu proprio Davoli ad effettuare il riconoscimento del corpo dell'amico, quella maledetta mattina del 2 Novembre 1975.
Incontri fortunati che rendono la pellicola un prodotto ibrido, di natura quasi metacinematografica, liberando il regista dal gravoso compito di dover spiegare chi era Pasolini: una regia — pare a tratti mettere alla berlina il suo stesso prodotto— che avrebbe potuto fare affidamento sui molti grazie a cui Pasolini vive ancora, favorendo così una riuscita meno asettica, fredda e distaccata.
Grande punto di forza è una narrazione laica, scevra da ideologie o versioni prestabilite con cui viene normalmente declinata la poetica pasoliniana. Il Pasolini di Ferrara, riccamente privo di qualsiasi facile tinta nostalgica per i "bei" tempi andati, non fa l'occhiolino ad un un nuovo capitolo giudiziario sulla succulenta vicenda della mattanza del protagonista, sicuramente attraente per quel pubblico italiano seguace di inchieste spesso ai limiti del grottesco.
L'opera vuole "semplicemente" meditare e invitare ad essere seguita, carattere questo che allontana Pasolini da una certa spiazzante sregolatezza che caratterizza la produzione di Ferrara, inaugurando forse una sua nuova e più matura era stilistica. Vero oggetto di riflessione è la tensione, entro cui la vicenda dello scrittore si agita, del rapporto vita-arte emblematizzato nella paradossale condizione di chi usa la seconda come pungolo rivoluzionario per raddrizzare la prima.
Un certo senso di fine imminente permea tutti gli 86 minuti della pellicola: da una soluzione coloristica per lo più fredda a musiche claustrofobiche, passando per ricorrenti scene di interni e abitacoli tutti i sensi contribuiscono a creare nello spettatore un crescente disagio che resta però insoddisfatto e senza spiegazione.
Secondo il topos greco del doppio filo eros-thanatos, la morte si intreccia con l'amore — e con una sessualità gratuita— sullo sfondo di una ricostruzione onirico-immaginaria quasi ridicola che Abel Ferrara propone di quel progetto cinematografico mai compiuto che fu Porno-Teo-Kolossal.
Miracolosamente neppure l'improbabile freddezza di un'opera che è cinema tanto davanti quanto dietro la macchina da presa, riesce a non evidenziare quel portento umano culturale e politico —giacché la politica, come Pasolini-Dafoe ricorda all'inizio del film è tutto ciò che riguarda l'uomo, persino il sesso— che fu Pier Paolo Pasolini.
Brillante la battuta che Ferrara immagina essere parte di una sceneggiatura pasoliniana, e che racchiude buona parte delle speranze che Pasolini ha sempre regalato
" e adesso? La fine non esiste. Aspettiamo, aspettiamo, qualcosa succederà".
Erica Belluzzi