Se la strada potesse parlare
di Barry Jenkins
con KyKy Lane, Stephane James, Regina King, Dave Franco
USA, 2018
genere, drammatico
durata, 117'
Anche se uno non è americano e non frequenta l'industria hollywoodiana può comunque immaginare cosa voglia dire per un regista di quelle parti sbucare dal nulla e aggiudicarsi l'Oscar di miglior film dell'anno, tra le varie categorie forse la più prestigiosa, di certo la più ambita dai Mogul delle grandi case di produzione. Come in molti ricorderanno tale scenario si è concretizzato nel 2016 quando Barry Jenkins, si è visto consegnare la statuetta in questione al termine di una premiazione a dir poco rocambolesca in cui per un errore degli organizzatori il premio in un primo momento era andato al favoritissimo "La La Land". A parte l'aneddoto, certamente singolare, tutto questo è importante per non dimenticare la particolarità del contesto in cui nasce "Se le strade potessero parlare", come sempre capita in questi casi, chiamato a onorare il prestigioso riconoscimento con un'opera all'altezza del nuovo lignaggio e d'altro canto responsabile di riportare con i piedi a terra ma senza grossi traumi il sorprendente vincitore.
Per nulla intimidito Jenkins in un certo senso alza il tiro delle proprie ambizioni portando per la prima volta sul grande schermo un romanzo di James Baldwin, figura di riferimento della letteratura americana celebrata da Raoul Peck nel doc "I'm not Your Negro" e distintasi, a partire dagli anni settanta, per l'impegno speso nel denunciare i soprusi e l'intolleranza di cui furono oggetto i membri della comunità afro americana. A partire da questa scelta "Se le strada potesse parlare" si costruisce un'identità autonoma rispetto al lavoro precedente, pur presentando soluzioni formali abbastanza simili. Anche in questo caso infatti l'universalità della storia non è solo un fatto di contenuto: la predilezione per un numero limitato di figure umane presenti all'interno dell'inquadratura, la volontà di circoscrivere gli avvenimenti in una spazio fisico ristretto e le mancate aperture della mdp sul paesaggio circostante danno corso a una rappresentazione più ideale che reale dell'esistenza,. In tale direzione, va letta ad esempio la presenza di un personaggio archetipo qual è il poliziotto che incastra Fonny per un delitto mai commesso, manifestazione del male del tutto svincolata da riferimenti tangibili che non sia l'urgenza di rappresentare il mood di un'epoca di ingiustizie e persecuzioni.
Ma come si diceva qualche riga fa le peculiarità di "Se la strada potesse parlare" stanno altrove e per esempio nell'autoreferenzialità alla storia della comunità afro-americana delle cui sorti Tish e Fonny (protagonisti della vicenda insieme a Sharon e Joseph, genitori di lei,) giovani e innamorati costituiscono per la drammatica svolta della loro relazione il campione sul quale misurare la negazione di un riscatto che diventa metafora di quello negato al consesso a cui i due appartengono. Così, se in "Moonlight" la lotta per la "causa" e la militanza dei "fratelli" erano assenti mentre le iniquità del sistema e la segregazione sociale incrociavano i destini dei personaggi in maniera indiretta, più che altro nel degrado materiale e spirituale del paesaggio e degli uomini, alla stessa maniera la Harlem degli anni settanta nulla ha a che fare con la Miami dei nostri giorni così come il senso di famiglia e l'amore per l'arte che si respira nel quartiere nero dove vivono Tish e Fonny dista anni luce dal senso di alienazione e dalla cultura gangsta rap del ghetto in cui si barcamenano Kevin e Chiron. D'altronde, mentre questi ultimi sono figli dell'America proletaria e diseredata, Tish e Fanny insieme alle loro famiglie sono parte integrante di un universo proto borghese che nonostante tutto gli permette di coltivare (fino al momento della drammatica svolta) progetti e amore senza la rabbia e la violenza che invece faceva da sottofondo alle esistenze dei primi due.
Ed è forse questo punto più di altri a determinare la continuità poetica del cinema di Jenkins che pone al centro della questione il superamento delle barriere morali, fisiche, sociali che separano gli individui dal raggiungimento dell'amore e della felicità, qui sintetizzate dalle sbarre della cella dove Fonny aspetta il giorno in cui tornerà libero. Jenkins la rappresenta con una messinscena sofisticata e complessa che utilizza il tempo sia come elemento narrativo, nel tentativo di creare una drammaturgia del ricordi attraverso i continui scarti tra passato e presente, sia come flusso interiore, capace di dare conto delle emozioni dei personaggi visualizzandole nel ricorso a sistematiche dilatazioni temporali che hanno il compito di sottolineare stati d'animo e sentimenti. In questa dimensione tutta interna della storia vanno letti i contrasti di luce impiegati per dare conto del tormento e della precarietà affettiva dei due innamorati, frutto della fotografia di James Laxton, così come i colori caldi e materici utilizzati dal regista per esaltare le passione che attraversa il film. Ma non basta perché "Se le strada potesse parlare" è soprattutto un film di attori e di corpi, tutti bravi (ma con una menzione speciale per l'esordiente Kim Layne nella parte di Tish e della "madre" Regina King) e fotogenici a cui Jenkins si rivolge con una devozione forse eccessiva che lo porta a soffermarsi oltre il dovuto sulla bellezza dei volti e sulla levigatezza delle figure. Girato sul crinale che divide l'attenzione maniacale da un esteriorità che in qualche passaggio rischia di prendere il sopravvento sull'urgenza dei temi, "Se le strada potesse parlare" è meno riuscito del suo predecessore ma ancora più coraggioso per la fiducia che assegna al cinema di fare breccia nei cuori delle persone.
Carlo Cerofolini
(pubblicato su ondacinema.it)
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