domenica, dicembre 16, 2018

INVISIBILI: DER SAMURAI

Der Samurai
di, Till Kleinert
con, Pit Bukowski, Michel Dierchs, Uwe Preuss, Kaja Blachnik
Germania, 2014
genere, drammaticodurata, 79’


C’è così tanto da distruggere. Innanzitutto le gabbie (“Gabbie che ostacolano. Gabbie vuote”, si sottolinea nel film). Quelle personali: presunzioni, diffidenze, pigrizie mentali. Quelle sociali: le consuetudini, l’efficienza come distillato della docilità, la rinuncia alla memoria. Infine, l’atroce ibrido cui dà origine l’amplesso, spesso assai più che consenziente, tra i succitati e di per sé poco attraenti generi: paure, manie, perversioni. Ciò non solo suggerisce ma esplicita, abbinando l’urgenza metaforica alla brutalità con cui si cerca il modo di travasarne la dirompenza nella materia soddisfatta e opaca di certo quotidiano, il nostro in particolare (occidentale, moderno, et), questo “Der Samurai” di Kleinert, leggero - ottanta minuti scarsi - ma convinto schiaffo su facce altrimenti avvezze a lisciatine tanto frequenti quanto untuose.

Jakob Wolski/Dierchs mena la sua giovane esistenza di anonimo pubblico ufficiale nel corpo di Polizia di un paesino del Brandeburgo dedicandosi in primis all’accudimento della nonna (con cui condivide l’appartamento, nonché meste serate trascorse in surreali partite a carte), poi, in solitaria, al completamento di un plastico che riproduce il paese in scala, indi al controllo routinario d’una popolazione locale composta per lo più da invisibili come lui e dedita, a riparo di scuri tetti spioventi, ordinati giardini con staccionata e basamenti in pietra per villette tutte uguali immerse in un rigoglioso verde, all’esigente e annosa cura di un rapporto col mondo che nella solitudine - cercata o subita, non importa - amalgama chissà quanti tra i suoi derivati diretti: frustrazioni, apatie, odi. Così i giorni se ne vanno monotoni nella fittizia persuasione di sicurezza assicurata dalla marginalità e dal relativo benessere. Il quadro, più affine a una natura morta che a un paesaggio con figure, si completa e si movimenta grazie alla distrazione offerta dalla squadretta di calcio del posto e dall’incognita potenzialmente criminale rappresentata da un gruppo di stanziali motociclisti. L’idillio agreste in salsa teutonica prende a mostrare qualche crepa all’indomani della segnalazione nei dintorni delle scorribande di un lupo, le tracce del quale proprio Jakob rinviene risolvendosi per una strategia che preveda la sistemazione di esche alimentari in un punto specifico del bosco. In perfetto e fin troppo singolare tempismo, Jakob riceve alla Stazione di Polizia un plico indirizzato a un fantomatico lupo solitario che non tarderà a palesarsi con una telefonata utile a guidarlo verso un recapito isolato e malmesso all’interno del quale, seduto reclino e avvolto in un lungo abito bianco di taglio femminile, sembra attenderlo la figura longilinea ma prestante di un ragazzo biondo (Bukowski), il cui volto beffardo e lascivo ricorda un Joker ancora pienamente padrone della propria lucida follia. La torbida meraviglia di Jakob troverà infine ragione e senso allorché, liberata dal suo ingombro postale, apparirà nella stanza la silhouette elegante e minacciosa di una spada katana, strumento ideale per scatenare il sulfureo candore di un già più che determinato angelo sterminatore…

Ciò che intriga in un lavoro tanto programmaticamente allusivo - e in spregiudicato equilibrio su generi diversi, dal thriller, all’horror, lambendo il fantasy - quanto formalmente diretto, dalla struttura serrata e concetrazionaria in quel guado ove convergono apologo morale e favola nera in cui il soprannaturale o, meglio, l’insano fa capolino qua e là tra le pieghe d’una consuetudine di fondo torva eppure inscalfibile (l’opprimente vita di provincia), tra i silenzi carichi di sottintesi di una natura indecifrabile perché colta in una sorta di sospeso fulgore primigenio, è il rapporto altrettanto ambiguo epperò vitale che il protagonista instaura con questo proto sé stesso en travesti, paradigma di un übermensch che ha sublimato pure i generi e le specie (oltre la morale) e che, infilzando e decapitando, sgombra una volta per tutte il campo dalle ipocrisie, dalle connivenze e dalle omertà indicibili di un’intera comunità: storture, le predette, su cui il mite ma irrisolto sbirro s’era limitato solo a mugugnare. Del resto, ciò che qui l’ordine costituito vuole ricomporre (o, se vogliamo: esorcizzare), nel biasimare, da un lato, il nuovo atteggiamento di Jakob (dopo l’apparizione del vendicatore in gonnella, persino drastico) e nel tentare, dall’altro, di eliminare la componente perturbatrice al termine di una lunga notte di sangue (“Le persone perbene dormono, a quest’ora”, dice il trans-samurai a Jakob), non è tanto il rispetto delle gerarchie sociali, quanto la certezza di poter mettere a tacere qualunque forma assuma il dissenso, vuoi riportando a più miti consigli il trasgressore della norma (mesmerizzato e atterrito insieme da un comportamento davvero libero, nel senso di sciolto da tutti i vincoli), vuoi disfandosi del diverso propriamente detto (i motociclisti, per esempio, intendono linciare l’inusuale personaggio, non consegnarlo alle autorità), a ulteriore e beffarda testimonianza dell’antinomia irriducibile che separa il Potere dall’Individuo e che quest’ultimo riesce talvolta a insidiare dando sfogo all’interiorità e all’istinto, elementi che si nutrono dell’unica tensione in potenza rivoluzionaria, quella immaginativa e sessuale.
TFK

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