Tre volti
di Jafar Panahi
con Jafar Panahi, Benaz Jafari
Iran, 2018
genere, drammatico
durata, 102'
Occhio e croce “Tre volti” inizia alla stessa maniera dell’ultimo film di Michael Haneke. In entrambi i casi i registi affidano alle immagini di una video chiamata il compito di innescare la trama delle loro storie e questo la dice lunga sulla considerazione dei maestri sulle possibilità offerte loro dall’utilizzo delle nuove tecnologie. Lungi dal demonizzarle, entrambi hanno da tempo capito che queste ultime consentono un potere decisionale altrimenti limitato e ancora meglio che regalano un’ispirazione sempre meno dipendente dalla disponibilità degli strumenti produttivi. Nel caso di Jafar Panahi, che di “Tre volti” è regista, la questione diventa vitale per le note vicende che da anni impediscono al nostro di esercitare la professione, costringendolo a una clandestinità lavorativa che in termini di risultati è a dir poco aiutata dalla diminuita invasività dei mezzi di ripresa, la cui invisibilità è determinante nel permettere a Panahi di filmare senza essere notato da chi sarebbe pronto a impedirglielo. Partendo da queste considerazioni “Tre volti” acquista per forza di cose significati che oltrepassano la vicenda raccontata nel film: la richiesta d’aiuto della ragazza che minaccia di uccidersi se non riuscirà a fuggire dal genitore che le impedisce di recitare, il viaggio del regista e dell’attrice Benaz Jafari nell’entroterra del paese (siamo nel nord ovest dell’Iran) e gli incontri con alcuni abitanti della comunità locale sembrano infatti ragionare su ciò che rimane fuori campo.
Considerando che le protagoniste femminili sono attrici che hanno già lavorato con Panahi e che alla pari della sua compagna di viaggio anche il regista appare davanti alle cinepresa nella parte di se stesso “Tre volti” diventa il dietro le quinte delle riprese di un film in corso d’opera nel quale ad andare in scena è il gioco delle parti tra singoli convitati e i rapporti tra il regista e attori. Quando - durante il viaggio che li sta portando alla meta - Panahi e la Jafari discutono sul da farsi, le loro considerazioni danno l’impressione di parlare d’altro, evocando il ruolo che l’arte e in particolare il cinema ha sulla vita di coloro che lo fanno. Anche lo schema che si instaura tra i due, con l’autore che rimane in disparte, lasciando alla donna il compito di mettere in pratica ciò che si sono detti, sembra evocare l’essenza della materia in questione. Un corto circuito, quello tra finzione e realtà, tra arte e vita, destinato a raggiungere l’apice nei riferimenti alla condizione di subordinazione della donna nella società iraniana, pronta a emergere in un misto di dramma e ironia nello sguardo che il regista rivolge a se stesso e ai suoi interlocutori (maschili) e che, soprattutto quando si riferisce alla censura della libertà d’espressione artistica, non può non ricordare le limitazioni imposte a Panahi dal regime iraniano.
“Tre volti” però è anche cinema allo stato puro: Panahi c’è lo ricorda con due sequenze da brivido, collocate all’inizio e alla fine del film. Di diverso tenore, per il stato d’animo e la condizione dei protagonisti, parliamo in entrambi i casi di due lunghi piani sequenza in cui (soprattutto nel primo) il protagonismo assoluto del personaggio femminile e l’apertura allo spazio esterno rispetto quello limitato e claustrofobico fin li riservato alla donna dalle inquadrature del regista diventano l’epifania di un desiderio di libertà che almeno per una volta mette sullo stesso piano uomini e donne. Distribuito da Cinema, “Tre volti” si aggiunge ai titoli da non perdere usciti in questa settimana.
Carlo Cerofolini
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