Vivere, che rischio racconta la vicenda esemplare di Cesare Maltoni, eroe del nostro tempo per aver rivoluzionato l'approccio terapeutico alla malattia, collegandolo all'inquinamento ambientale. Michele Mellara e Alessandro Rossi ne fanno un personaggio epico, come quelli del cinema classico ma scevro dalla retorica che spesso accompagna tali personalità. Di seguito la conversazione con gli autori del film
Volevo partire dalla scelta di affidare alla parole del protagonista il compito di raccontare la sua stessa esistenza. Un espediente simile a quello adottato da Billy Wilder per Viale del tramonto, considerato che, alla pari di William Holden, anche quella di Cesare Maltoni è la voce di un uomo già “morto.
Abbiamo scelto di raccontare l’esistenza di Cesare Maltoni attraverso la voce fuori campo del bravissimo attore di origine romagnola Luigi Dadina, perché da un lato volevamo creare un rapporto empatico con lo spettatore; dall’altro esplicitare che sarebbe stata un viaggio nella memoria che lo avrebbe portato indietro negli anni. Tanto è vero che all’inizio del film si dice in maniera chiara che l’io narrante interpretato da Dadina è morto. Volevamo che questo attore fosse in grado di restituire la figura di Maltoni anche nell’accento. Lui era faentino, parlava bene l’inglese ma con un timbro italiano molto marcato, direi quasi con la sua cadenza.
In questo senso è efficacissimo l’espediente di Viale del tramonto, cioè del protagonista che racconta se stesso, il punto di vista della sua vita quando già è morto. Tale espediente vi permette di realizzare quello che avete detto e cioè di rendere il film un documento e di delineare un personaggio cinematografico classico che, distaccandosi dalla realtà fattuale, diventa archetipo di un modo di pensare, di un’intera società, della lotta dell’uomo contro forze più grandi di lui, e poi di acquistare l’epica che la vita di Maltoni ha avuto.
Infatti, nelle note del film abbiamo scritto che raccontiamo la storia di un eroe inteso in termini molto classici. La figura dell’uomo come modello per gli altri uomini, come archetipo della lotta contro il potere che in questo caso ha la forma delle grandi multinazionali e dei potentati economici. Poi c’è l’espediente narrativo che serviva a costruire l’empatia con lo spettatore.
All’inizio lo sentiamo parlare soprattutto in inglese ma il suo timbro è il più romagnolo che ci possa essere.
Sì. Lo presentiamo subito in questo modo per dare l’idea del carattere del personaggio, della forza e anche della sua dinamicità. Tornando alla voce, volevamo un attore che non imitasse Maltoni ma che potesse riportare lo spettatore nello stesso alveo linguistico utilizzato dal protagonista. Come avrai notato è un film documentario molto scritto. Dunque, avevamo bisogno di orchestrare la narrazione e, come diceva Edgar Allan Poe, lavorare sulla parabola delle emozioni, evitando di andare sempre solo in alto o in basso. Ci serviva, in altre parole, una narrazione nella quale ci fossero vuoti e pieni capaci di fornire elementi di contenuto per compenetrare il lavoro di Maltoni. Alle cifre, ai dati e ai numeri doveva fare da contraltare una narrazione calda e appassionata.
La scelta di una drammaturgia capace di trattare una materia seria con una sorta di simpatica leggerezza da una parte corrisponde alla personalità del protagonista, dall’altra permette di accostare il documentario, inteso come testimonianza scientifica dei fatti, al cinema come capacità di far coesistere la figura reale con quella archetipica dell’uomo che lotta contro un nemico più grande di lui. Senza questo stratagemma l’epica del personaggio Maltoni non sarebbe risultata altrettanto efficace da riportare sullo schermo.
Assolutamente. Perché noi lo ritraiamo come un grande personaggio cinematografico, un eroe come quelli di tanti film americani, un loser che combatte la realtà, con alterna fortuna. Come i personaggi dei film risentiamo una parte della sua vita privata senza pruderie e solo per far vedere in che modo essa incide in quella pubblica. Al modo dei grandi personaggi, ci sono momenti di estrema solitudine che noi abbiamo cercato di rendere con un pathos vicino al cinema di finzione.
Ho trovato straordinario il fatto di avere reso un documentario come La vita che rischio con il passo e la drammaturgia da cinema classico.
Sì. Adesso non voglio parlarne troppo, ma lo abbiamo affrontato in questi termini. Come un film a tutti gli effetti, capace di far pensare lo spettatore coinvolgendolo direttamente all’interno della storia. Tornando alla tua domanda: effettivamente il tema trattato molto spesso è pesante e anche drammatico.
In effetti, trattando la vita di un medico che lotta per sconfiggere patologie spesso incurabili, c’era il rischio di allontanare lo spettatore e invece guardando il film si ha l’effetto opposto.
Secondo me, abbiamo usato quella che nella pittura a cavallo tra seicento e ottocento si chiamava tecnica mista, nel senso che abbiamo usato un codice filmico che contemplasse al suo interno vari elementi, tanto è vero che esistono gli archivi, c’è un lavoro sulla grafica, c’è un lavoro di ricostruzione visiva e anche questa nota, che per noi è importantissima, della leggerezza calviniana, intesa come possibilità di dire cose molto profonde, complicate e complesse però con un tono leggero.
In questo senso, il tono della voce narrante unita alla presenza di un Io che riflette sui fatti della storia è la sintesi di quello che hai appena detto. Vi permette di essere profondi ma con un tono di voce e un modo di fare che in realtà sono leggeri e spesso ironici.
Sì. Penso che sia questa combinazione di codici ma anche di come sono montate le scene e di come si utilizzano i materiali. A questi fattori, a mio avviso, è poi il il tono della voce a produrre l’effetto che tu stai molto chiaramente esplicitando.
Sempre restando sulla forma del dispositivo, il film è composto da immagini d’archivio, da interviste ma anche da composizioni che sono il risultato di un accurato lavoro grafico e di fotografia. Ci sono sequenze in cui il colore rosso interviene per tratteggiare contorni e figure; altre in cui è il tipo di montaggio a rendere il senso della vicenda. Volevo chiederti qualcosa su queste due caratteristiche.
Sono due punti sostanziali in questo film, come nei precedenti. Perché, da un lato, richiedono moltissimo tempo affinché vengano sviluppati con cognizione di causa e con professionalità; dall’altro, riuscire a interpretare una sequenza in profondità e poi dargli forma – per esempio con un particolare elemento grafico – equivale a restituire allo spettatore più elementi di godimento per compenetrare quel determinato momento del film. Avendo inoltre spesso a che fare con una materia ostica e anti cinematografica, fatta di numeri, dati, cifre et., in alcuni momenti e senza esagerare, la grafica ci ha dato la possibilità di essere creativi e di stemperare un po’, come dire, anche con leggerezza, la materia del racconto.
Secondo me, fate anche un’opera che ha un forte segno cinematografico, perché gli espedienti appena menzionati non vanno a discapito dell’oggettività documentaria. Così facendo, il film diventa un’estensione dello stato d’animo e della personalità del protagonista, la cui polivalenza scientifica e umana è testimoniata dalla straordinaria idea su cui si conclude: quella della clinica di cure palliative, che trasforma il momento tragico della vita umana in un luogo confortevole e amoroso. A mio parere, il corpo del film finisce per coincidere con quello di Maltoni.
Mi fa piacere che tu lo abbia sottolineato, perché quello era il nostro intento. Rendere vivo un personaggio vuol dire reinterpretarlo in profondità attraverso il linguaggio che stai usando. Noi utilizziamo il cinema e il documentario declinandoli a varie latitudini, a seconda della materia che raccontiamo. Come hai notato, qui ci sono delle riprese dal vero che abbiamo ricostruito e ci sono delle interviste, ma insieme a queste c’è tutta una parte che invece è più legata al montaggio creativo dell’archivio, alla realizzazione di grafiche e poi, soprattutto, un finale poetico in cui, prima di abbandonarci, il personaggio ci lascia comunque con una poesia di Tagore che a nostro giudizio è interpretata con grande afflato emotivo da Luigi Dadina.
Mi pare di capire che gli strumenti del cinema documentario siano preferibili a quelli del cinema di finzione, anche se Vivere, che rischio è una sintesi di entrambi. Forse perché la realtà è così complessa che la finzione, da sola, non riesce a soddisfare la conoscenza è la verità.
Forse c’è questo. In realtà, noi scriviamo molto nei nostri documentari, nel senso che in essi c’è un percorso di conoscenza che parte nel momento in cui cerchiamo di approfondire un tema di cui non siamo a conoscenza: che si tratti di medicina o della storia di Bologna. C’è quindi un percorso di studio sia delle fonti che dei testi di qualsiasi materiale ci possa essere utile. C’è poi un grosso lavoro di scrittura in quasi tutti i nostri documentari da cui discende l’elaborazione di una sceneggiatura.
Dicevamo di come Vivere, che rischio, sia un film molto scritto. A questo proposito, volevo chiederti qual è stato il processo di scrittura e le fonti utili a dare voce al personaggio di Cesare Maltoni ?
Ma guarda, noi abbiamo fatto una ricerca molto lunga negli archivi di Maltoni, ancora oggi conservati nella villa in cui lui visse e nella quale sono raccolte tutte le pubblicazioni scientifiche, sue e di quelle più significative di altri colleghi, ma anche documenti privati. Stiamo parlando di fotografie, di rapporti epistolari, di lettere scambiate con altri scienziati, con amici. Parte dell’avventura è iniziata da lì. Il resto come sempre è il risultato delle nostre ricerche, in cui andiamo a leggere e ci informiamo come se dovessimo fare una tesi. Questa è la prima fase. Dopodiché abbiamo costruito la drammaturgia, cioè il racconto scritto a partire da fonti documentali che però abbiamo ricucito insieme e nelle quali abbiamo anche inserito dei connettivi di tipo narrativo, cioè dei passaggi che aiutano a portare lo spettatore da un momento all’altro nel film. Questo è il tipo di lavoro che abbiamo fatto.
Oltre a questo espediente c’è la scelta di una voce rassicurante e simpatica e l’uso del dialetto da parte del protagonista e degli altri personaggi. Questo vi permette di costruire una drammaturgia capace di affrontare la serietà del tema con quella leggerezza che apparteneva al personaggio di Maltoni, uomo impegnato, ma anche capace di guardare alla vita con ironia.
Sono strategie legate tanto al personaggio di Maltoni, quanto alle necessità di scrittura. Il fatto di passare da uno stato emotivo all’altro, di portare lo spettatore verso dei picchi e poi spostare l’attenzione da un’altra parte è un modo di raccontare drammaturgico e teatrale che fa parte un po’ anche di un nostro modo di affrontare le cose. Nei nostri documentari abbiamo sempre un piglio se vogliamo ironico, anche in quelli più seri. C’è sempre uno sguardo esterno che ci permette una prospettiva a noi confacente. In Maltoni questo lo abbiamo trovato nelle lettere, negli scritti ma anche in lui, come persona e non solo come personaggio.
Dopo il grande successo di Fortezza Bastiani smettete di fare cinema di finzione per dedicarvi al documentario. Qual è il motivo di questa scelta?
La risposta più semplice e banale a questa domanda è che a un certo punto abbiamo deciso di viaggiare, trasformando il desiderio di cercare uno sguardo sul mondo nella possibilità di raccontarlo dentro le nostre immagini e nei loro contenuti. Questo ha occupato tutto il nostro tempo, sia creativo che produttivo, tant’è che abbiamo creato una società di produzione insieme a Ilaria Malagutti, che poi è la produttrice di tutti i nostri documentari, e a Francesco Menghini che è un altro filmmaker. Come sai, è abbastanza complicato realizzare documentari, richiede molto tempo e necessità un’esplorazione del mondo che ti porta via da casa. Nei nostri lavori abbiamo sempre cercato storie che avessero un taglio internazionale e universale e legami forti con la nostra realtà nazionale, anche locale. In alcune circostanze e anche in maniera inconsapevole siamo tornati a soffermarci su comunità di persone. È una cosa che abbiamo fatto in Fortezza Bastiani in cui raccontiamo una comunità di studenti. Da lì in poi noi abbiamo sempre cercato di parlare di un insieme di persone. Forse quella su Maltoni è l’unica vera biografia di un personaggio, anche se in realtà dietro di lui c’è la storia di una città, c’è la storia di un modello sociale, di un modello politico. L’altra cosa che ci ha spinto ad ampliare i nostri orizzonti è l’interesse verso le questioni anche drammatiche e scottanti dei nostri tempi. I temi della globalizzazione, l’impatto delle multinazionali, l’impatto dello sviluppo fuori controllo sulle vite delle persone.
Facendo un paragone con Fortezza Bastiani, anch’esso ambientato a Bologna, volevo chiederti se ai giovani protagonisti di quel film sarebbe piaciuta la figura di Maltoni. Io penso di sì.
Sì. Ai protagonisti di Fortezza Bastiani, di certo. Erano un gruppo molto attento al sociale, a quanto accadeva intorno a loro, lettori onnivori, dunque credo proprio di sì. Poi lui era un comunista, un omosessuale, un ribelle, quindi aveva tutte le caratteristiche in grado di renderglielo interessante.
Dopodiché da spettatore e da cittadino, mi chiedo come sia possibile che un personaggio di tale caratura sia ai più sconosciuto e così poco ricordato dalle istituzioni italiane. Io, per esempio, non sapevo della sua esistenza.
Io penso che le ragioni siano figlie dei tempi in cui viviamo, come pure del nostro paese, nel senso che spesso l’Italia ha la memoria di un pesce rosso. Non eri solo tu a non saperne nulla. Cesare Maltoni è stato lasciato nel dimenticatoio. Abbiamo avuto molto chiara questa impressione nel corso delle prime proiezioni, in cui moltissima gente vedendo il film si rendeva conto di quanto fosse strepitosa e straordinaria la figura del protagonista. Il New York Times gli ha dedicato delle pagine intere. Stiamo parlando di un personaggio che probabilmente in altri paesi avrebbe avuto dei monumenti.
Avrebbe vinto il premio Nobel!
Ha fatto delle cose straordinarie, di portata unica a livello internazionale. Nel documentario viene detto molto chiaramente che gli operai di un’importante industria petrolchimica americana conoscevano due italiani: uno era Cristoforo Colombo, l’altro Cesare Maltoni. Ha cambiato radicalmente i diritti sulla tutela ambientale dei posti di lavoro, quindi stiamo parlando di un gigante. Il fatto che da noi sia sconosciuto è dovuto al fatto che essendo esterofili tendiamo a riconoscere poco le nostre eccellenze. Poi c’è un rimosso, rispetto alla cultura, alle cose comuni, al senso degli altri che ritroviamo declinato in molte situazioni della nostra quotidianità.
L’azione di Maltoni fu visionaria e anche scomoda, perché le sue scoperte andavano a ledere gli interessi dei potentati economici e finanziari artefici dell’inquinamento ambientale e, quindi, della conseguente pandemia tumorale. L’isolamento e gli attacchi, la sorta di damnatio memoriae di cui è stato vittima, sono un po’ lo specchio della società non solo di allora ma anche di oggi.
Guarda, la storia è sempre contemporanea, quindi sono pienamente d’accordo. La storia che raccontiamo è proprio lo specchio del nostro presente.
Maltoni parte dall’ospedale Sant’Orsola, in cui viene confinato dopo aver lasciato la carriera universitaria, e da lì compie la sua rivoluzione. Inizia a fare delle cose che in Italia e anche nel mondo non si facevano e di cui diventa l’avanguardia. Cambia una mentalità. Con lui la cura della malattia diventa prevenzione prima dell’insorgenza della stessa.
L’istituto Ramazzini da lui fondato si rifà al famoso motto dello scienziato seicentesco di Bernardino Ramazzini “Prevenire è meglio di curare”, e questa è stata, come dire, la leva ideale che ha sempre animato lo spirito di Maltoni. In estrema sintesi, sono tre le cose straordinarie che lui ha fatto. La prima è che all’inizio degli anni Sessanta riesce a impostare una campagna di screening per il Pap test relativo al tumore della mammella e di quello della radice dell’utero per migliaia e migliaia di donne, con la complicità e il supporto dei rappresentanti politici dell’Emilia Romagna. La seconda è appunto la fondazione dell’Istituto Ramazzini, che sotto la sua guida ha fatto ricerche su sostanze tossiche cancerogene dimostrandone la gravità. Parliamo di un istituto di ricerca scientifico indipendente ancora oggi tra i più autorevoli a livello internazionale, diretto da Fiorella Belpoggi, già allieva di Maltoni e presente nel documentario. La terza e ultima cosa è, alla fine degli anni Novanta, il primo Hospice italiano per le cure palliative di Bentivoglio, vicino Bologna, realizzato attraverso il supporto della mecenate bolognese, Isabella Feragnoli.
A emergere in maniera sostanziale e non dogmatica è il fatto che dietro all’azione di Maltoni c’è l’idea di dedicare il suo lavoro a favore delle persone più povere che, nei fatti, erano le prime vittime dell’incontrollato sviluppo tecnologico. In questo senso lui incarna in maniera fattiva il suo essere comunista.
È vero. Lui ha militato nel Comunismo, è stato eletto in Consiglio Comunale a Bologna nelle liste del PCI e, attraverso il partito di quegli anni, soprattutto nella figura del senatore comunista Luigi Orlandi, Maltoni trovò l’appoggio politico per mettere in campo e realizzare le proprie idee in ambito scientifico. Un pensiero, il suo, sempre animato da un grande senso del bene comune, dal fatto di lavorare per tutti e non per una certa Italia, quindi anche per i meno abbienti, per un diritto alla salute trasversale che arrivasse a tutti i cittadini. Ad aiutarlo fu anche la sua abilità di comunicazione. Maltoni era capace di parlare nei convegni più esclusivi e raffinati così come alla casalinga semianalfabeta di Voghera.
Rimanete sempre sul personaggio ma attraverso di lui raccontate indirettamente la storia di una comunità, di una città come Bologna. In questo senso l’evoluzione esistenziale di Maltoni diventa quella della a società in cui vive.
Lo sguardo sulla società del suo tempo – destinato ad arrivare ai nostri giorni – era importante e noi lo rendiamo sia nelle immagini di repertorio ma anche con l’utilizzo di grafiche che aiutano a sottolineare il passaggio degli anni, come pure il cambiamento dello sguardo sulla sua persona, dapprima accolta nella comunità dei rivoluzionari bolognesi come un innovatore e poi, piano piano, sempre più messo da parte con un malcelato bigottismo e un po’ di fastidio per i suoi conseguimenti, per il fatto che aveva pestato i piedi un po’ a tutti. Forse per la prima volta ci siamo concentrati su un personaggio solo ma abbiamo sempre mantenuto l’attenzione sulla collettività. In tutto quello che abbiamo scritto e raccontato c’è sempre un interesse a vedere quelli che sono attorno, non solo al centro della scena. Accanto a Maltoni c’è tutta la città, c’è l’ospedale di Bologna, c’è il movimento delle donne colte nella presa di consapevolezza del proprio corpo e nella necessità di liberarsi da imposizioni maschili secolari, c’è un’idea di salute sul lavoro, ci sono tanti movimenti che lui intercetta e che riesce a portare avanti con le sue idee scientifiche.
A proposito dell’importanza di Maltoni, volevo che mi parlaste della sua rivoluzione scientifica, quella che gli permise di dimostrare la dannosità dell’ambiente sulla fisiologia del corpo umano. Lui fa degli esperimenti che sono lunghissimi e costosi, talvolta noiosi ma tali da renderne inattaccabili i risultati. Le sue imprese appaiono titaniche.
È una cosa eroica, una lotta contro i titani. Dieci, quindici anni e migliaia di topi, centinaia di migliaia di vetrini, l’ossessione per i numeri, le statistiche. A un certo punto qualcuno dice che non faceva delle tabelle di statistiche e dati ma dava proprio i numeri, un tumore alla volta. C’era quindi una meticolosità che probabilmente non è neanche più praticabile con i modelli scientifici attuali ma che all’epoca aveva una forza dirompente. È sì, è vero, lui porta avanti una rivoluzione sociale nei modi in cui ti dicevo ma anche scientifica. L’idea, che oggi è stata sepolta, è che la scienza dovesse aiutare a prevenire i danni da essa stessa prodotti.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it/Coversation)