di Kelly Reichardt
con John Magaro, Orion Lee, Toby Jones, Ewan Bremmer
USA, 2020
genere, drammatico
durata, 121
Chiamato a legittimare la propria investitura, era chiaro prima di altri a Carlo Chatrian che la partita si sarebbe giocata soprattutto sulle scelte dei film selezionati per il concorso ufficiale, quello dal quale uscirà il vincitore della 70 edizione del Festival di Berlino.
In questo senso, la scelta di Kelly Reichardt e del suo First Cow è di quelle destinate a fare letteratura, tanta è la distanza da quelle fatte a suo tempo da Cannes e Venezia per quanto riguarda le produzioni americane. Rispetto a Del Toro e Todd Philipps, solo per fare i nomi di due degli esponenti più rappresentativi del nuovo corso imposto da Barbera, la Reichardt è autrice di segno opposto, a cominciare dalla determinazione con cui rinuncia alla spettacolarizzazione del proprio lavoro.
Abituata a lavorare con budget microscopici e in maniera indipendente, l’autrice di Meek’s Cutoff e Night Moves fa di necessità virtù, allestendo un cinema povero di mezzi ma ricco di contenuti.
Dunque, è sbagliato pensare al lavoro della Reichardt in termini riduttivi, perché quelli della regista americana a suo modo possono essere considerati dei veri e propri kolossal, se è vero che ad andare in scena è l’anima degli esseri umani riprodotta all’ennesima potenza dall’attenzione fenomenologica e dal minimalismo narrativo con cui la cineasta statunitense si rivolge alla vite dei suoi personaggi.
Pertanto, è il fatto di fare “pietra d’angolo” di ciò che di solito rimane fuori campo a fare la differenza: in First Cow, infatti, più che la storia, come sempre minimale e qui incentrata sulle avventure di due picari decisi a costruire la propria fortuna (e non solo quella) rubando il latte (dalla mucca del titolo) necessario a produrre gustosi dolcetti, a essere peculiare è la meticolosità dell’indagine volta a catturare i gesti e le espressioni, così come i corpi e i volti dei personaggi; soprattutto quelli del taciturno ma solidale pasticcere Cookie Figowitz, che attraversa il west in cerca di fortuna insieme a King Lu, immigrato cinese a cui si offre prima come benefattore e poi come amico.
Ed è proprio sul personaggio del vagabondo puro e sincero che First Cow costruisce la sua fortuna, consegnandoci il ritratto indimenticabile di un loser che la Reinhardt sembra ricalcare sull’immaginario del coevo (visto che la storia del film si svolge nell’Oregon dei primi del ‘900) Charlie Chaplin, al quale Cookie (un grande John Magaro) “ruba” non solo il romitaggio e un’esistenza fatta di espedienti necessari a sopravvivere, ma anche una compassione capace di imporsi sulla crudeltà del mondo.
Una rimembranza, questa, sufficiente a ripagare il prezzo del biglietto, se non fosse che First Cow approfitta della sua collocazione temporale per realizzare un western anomalo, i cui stilemi e archetipi, propri del genere in questione, diventano lo specchio della società contemporanea, con indiani, afroamericani e cinesi pronti a replicare il melting pot culturale e le dinamiche del capitalismo in corso nella nostra società.
Se il paragone non è nuovo, a contare è il modo in cui la Reichardt riesce a formularlo, procedendo con entomologa precisione a isolare i personaggi all’interno del proprio ambiente per poi osservarli con una macchina da presa che funziona come una lente di ingrandimento, grazie anche alla scelta di girare in pellicola e con il formato 4:3, preferito a quello normale.
Riducendo i movimenti di macchina al minimo indispensabile e mettendosi in ascolto dei protagonisti senza perdere niente della loro vita minuta, l’autrice riempie il film di stasi e di silenzi altresì rivelatori del trascendentale rappresentato dal pensiero del film (e della regista), pronto a riflettere sul destino delle cose e degli uomini.
Con il suo film Kelly Richardt entra di diritto tra le candidate alla vittoria finale.
Carlo Cerofolini
(pubblicata su taxidrivers.it)
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