martedì, agosto 10, 2021

'Rehana Maryam Noor'

'Rehana Maryam Noor' 

Abdullah Mohammad Saad

con Kazi Sami Hassan, Afia Jahin Jaima, Azmeri Haque Badhon

genere, drammatico

Bangladesh, Singapore, Qatar 

durata, 107’



Presentato fuori concorso a Cannes 74 nella sezione Un Certain Regard. Capita sempre così, ovvero che nei grandi festival internazionali le sorprese non riguardano il concorso principale, di solito riservato ai nomi appartenenti al gotha internazionale (in quello di quest’anno i pronostici sono a favore di Nanni Moretti e di altre vecchie conoscenze), bensì le cosiddette sezioni collaterali, quelle che costituiscono il trampolino di lancio per giovani virgulti. E’  il caso di Abdullah Mohammad Saad, autore del Bangladesh, issatosi fin qui grazie a un primo film, "Live from Dhaka", carico di premi e di stima ottenuti in festival rigorosi come Rotterdam e Locarno. "Rehana" sembra essere figlio di quelle esperienze, non facendo nulla per apparire diverso da quello che è, ovvero un film in cerca di fortuna presso spettatori cinefili  aperti a storie provenienti da altre culture, di cui il film del regista si fa portavoce in maniera critica e conflittuale.


Prendendo il nome dalla determinata protagonista, "Rehana" racconta la vertigine emotiva di una giovane assistente universitaria, coinvolta in un vortice di avvenimenti che a un certo punto la mettono nella condizione di dover decidere del futuro delle persone che le sono più vicine, nel lavoro e nella propria famiglia. Convinta a non arrendersi alla posizione minoritaria occupata dalla donna nella società del suo paese, Rehana si ribella allo status quo trovandosi però davanti a questioni etiche che ne mettono in forse i principi della sua azione.



Come si capisce dalla trama "Rehana" ha tutto per figurare come un film di denuncia, di quelli che a queste latitudini sono destinati a conquistare la critica desiderosa - non a torto - di spendersi per una giusta causa come quella raccontata dal film. Sola contro tutti e in una condizione come quella femminile che ne mette in discussione per principio la giustezza del suo fare, Rehana appare fin da subito una figura eroica, disposta com’è a battersi contro una realtà più grande di lei. Personaggio fuori dal comune che il regista pedina all’interno nel suo ambiente, alimentando una tensione scatenata dalla contrapposizione tra le certezze della protagonista e la reticenza dei suoi interlocutori; quest'ultima presente anche tra le fila di coloro (la studentessa concupita dal professore, la figlioletta accusata di aver picchiato un compagno di scuola) di cui la donna prende le difese.


Ed è proprio il clima di incertezza in cui si muove la storia a fare la differenza, con i fatti non supportati da una visione oggettiva, ma presentati allo spettatore in maniera indiretta, attraverso il racconto dei presunti testimoni. Senza venire meno alla realtà dei fatti e ai motivi della sua istanza, "Rehana" con il passare dei minuti si scrolla di dosso l’etichetta del film politicamente corretto, arrivando a cambiare pelle in una maniera che dal punto di vista cinematografico ricorda il cinema di Asgard Farhadi (peraltro presente a Cannes nel concorso principale con "Un Heros"). Come quello, infatti, "Rehanna" ha la capacità di operare scarti psicologici impercettibili che nella loro totalità sono però in grado di diminuire la distanza tra le parti, avvicinandosi alla vita vera perché come in quella è difficile essere sempre al di sopra delle parti. Come capita a Rehana, di cui a un certo punto è difficile capire dove finisce il senso di giustizia e dove invece incomincia lo sfogo delle proprie ossessioni personali. In quest’ottica "Rehana" mette in secondo piano le sollecitazioni progressiste per diventare il lucido referto della condizione umana e delle sue contraddizioni. Così facendo il regista imprigiona i caratteri in una sorta di laboratorio comportamentale, simile a un limbo esistenziale in cui il confronto tra forze opposte e il pathos che ne deriva sono raggelati dalla geometrica linearità delle inquadrature, oggettivate dalla presenza di una fotografia monocromatica la cui patina sembra voler materializzare il velo di ipocrisia che impedisce a chi guarda di conoscere fino in fondo le persone e il loro animo. Ad Abdullah Mohammad Saad il plauso di essere riuscito a raccontare una figura femminile capace di dialogare con il cinema del dopo #METOO con una complessità che è il contrario della retorica insita in molta narrativa contemporanea. 

Carlo Cerofolini

(pubblicato su ondacinema.it)


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