Panty & Stocking with Garterbelt
di: Imaishi Hiroyuki
animazione
Stag I, ep. I/XIII
durata media: 23' ca./ep
- Giappone 2010 -
Ci sono quelli che comprendono
e quelli che non comprendono
-- Guy Debord --
Magari - per una volta la statistica mostrandosi clemente - a conti fatti risulterà non così campata in aria l’eventualità per cui qualcuno di noi, grattando bene gli angoli incrostati della memoria, finisca per scoprire di avere conosciuto o, quanto meno, di avere frequentato, un geniaccio abbastanza svitato da non voler rinunciare a determinati estri personali (in specie quelli sgangherati e inclini a generare capricci iperbolici e cortocircuiti sorprendenti) partoriti da una immaginazione gioiosamente bislacca, per barattarli, mettiamo, con la (santa) stabilità e il (sempre sia lodato) quieto vivere. Ebbene, in quel caso - fortunato caso - si potrebbe affermare di essersi trovati di fronte a un tipo come Imaishi Hiroyuki, uno pronto a squadernarti sotto il naso le tavole/estremizzazioni animate di una fulminante serie costituita da tredici episodi della durata media di circa ventitré minuti, al loro interno divisi in due segmenti di più o meno dodici minuti ciascuno, ossia “Panty & Stocking with Garterbelt”.
Su un pianeta Terra agglutinato attorno a una sua stramba sineddoche a nome Daten City - non per nulla, “città piena di amore e desideri”, come recita a mo’ di esergo quasi ogni incipit - sorta di avamposto in eterno bilico tra gli Inferi e il Paradiso, vengono inviati due Angeli in forma di effervescenti sorelle ragazzine - Panty (detta Anarchy Panty), bionda, occhicerula, scansafatiche, intercalare da carrettiere, perennemente infoiata, i cui slip all’occorrenza si trasformano in una pistola celeste chiamata Backless, e Stocking (detta Anarchy Stocking), gothic lolita, una campana di capelli nero-fucsia a bardarle la testa, occhi verdi, leziosa, precisina, divoratrice compulsiva di dolci, le di lei parigine, una volta smesse, capaci di diventare due spade magiche, Stripes I e II - con la missione, sempre più a stento mediata, controllata, indirizzata dal nerboruto parroco afro Garterbelt - in tunica bianca con grosse croci rosse di ordinanza alle estremità sotto la quale occhieggiano infine calze a rete e giarrettiere a dissimulare sfiziose allusioni cripto-sodomite con nuance sadomaso, acconciatura globulare simil anni ’70 e fare quasi sempre aggressivo-intimidatorio vista la sufficienza sarcastica con cui le due pesti se lo rimpallano (“afro di merda”, lo rimbrottano a ripetizione) - di liberare la cittadinanza - e, quindi, per estensione, l’Umanità intera - dalla presenza molesta di Fantasmi/Ghosts, esseri ributtanti di ogni foggia e dimensione (nonché odore…) scatenati dalle forze del Male capitanate dal perfido Sindaco Corset con la collaborazione di due demoniache servitrici - antagoniste speculari di Panty e Stocking - ovvero Scanty e Kneesocks, e così riguadagnare, grazie a crediti monetari via via accumulati dopo ogni eliminazione portata a termine, l’accesso ai Cieli, tra inseguimenti (le Nostre hanno in dotazione una sorta di humvee rosa ribattezzato See Through), scazzottate, duelli all’ultimo sangue, monumentali devastazioni, parentesi sexy, abbondanti mangiate, rampogne ammonitrici, scampoli di fanatismo idol e languidi rifiati di puro tedio adolescenziale durante i quali massacrare a piacimento, indulgendo nelle pratiche più perverse e brutali - da reiterare almeno un paio di volte a episodio - il curioso animaletto di casa (la chiesetta del burbero Garterbelt), Chuck, mezzo quattro zampe, mezzo volatile, in realtà chissà che, comunque poi e ogni volta in grado di risorgere dai propri stessi poveri resti.
Messa così la faccenda, parrebbe di aggirarsi dalle parti di un’ennesima presa per i fondelli di calco nerd. Il che non implicherebbe nulla di male, beninteso e, a guardar bene, nel caso non sarebbe nemmeno per forza da escludere. Anzi, tale intento viene persino dichiarato per esteso all’interno dello svolgersi delle vicende (intro ep. II), ribadito dalla presenza di Brief, ragazzino imbranato e gentile, il cuore in pena per la sempre volubile Panty che, dapprincipio e per lo più, lo sfotte e lo vessa (l’epiteto più ammodo che gli affibbia è “nerd senza palle”), e certificato dall’autoironica casa di produzione - il celebre Studio Gainax (Nadia, Il mistero della pietra azzurra; Neon Genesis Evangelion, et.) - che in calce a ogni avventura non esita a far accompagnare la propria ragione sociale dal termine geek. E’ pure vero, però, cercando in ogni caso di arginare la pigrizia mentale che assedia oramai da eoni l’uomo-medio-occidentale-contemporaneo vezzeggiandone l’illusione di vivere sul serio a riparo tra le quattro mura dei suoi vizi e dei suoi pregiudizi, che un aspetto che salta agli occhi e su cui è il caso di mettere da subito l’accento è lo sforzo comune che anima tanto il tono di questo “Panty & Stocking…” - aperto, ingenuamente dissacratorio, ribaldo e a suo modo irrequieto - quanto le implicazioni contenutistiche - bassoventrali, anarcoidi, a volte confuse eppure come di slancio insofferenti alla resa alla nostra attuale condizione di ospedalizzati mentali permanenti - che lo percorrono in una scapestrata e divertita rincorsa al ribasso (ossia alla desertificazione voluta di qualunque istanza che tenti di frapporsi tra la monotonia del mondo organizzato e il desiderio puerile di farne strame in ossequio alle spinte che una volta avrebbero chiamato in causa la fase anale di freudiana memoria. Traslando: feci e peti per l’appunto punteggiano spesso di marrone scene e dialoghi; nel primo episodio Daten City viene né più né meno che ricoperta di letame), pronta a maneggiare archetipi primi - il Bene e il Male su tutti - senza ipocrisia reverenziale o, peggio, sottintesi edificanti o moralistici (Panty e Stocking assolvono al compito di salvatori ultraterreni più perché tale circostanza assicura loro vantaggi immediati, cioè concreti - Panty, in particolare, ciò che persegue con sincero trasporto è l’idea “gloriosa” di scoparsi mille uomini prima di fare ritorno in Paradiso - lusingandone di concerto la vanità, che per una deliberata convinzione escatologica; lo stesso Garterbelt si rivolge a Dio avvertendolo che non intende essere “preso per il culo” da Lui nell’esecuzione del proprio ufficio), ossia senza concedere ai suddetti archetipi il credito illimitato che si riconosce ai princìpi ridotti a stereotipi. E tacendo - solo per non sprecarci troppe parole - sul Sesso, vissuto sia dalla insaziabile Panty, sia dalla più morigerata Stocking, per quello che dovrebbe davvero essere (e quindi essere messo-in-scena): un gioco delle parti che ha come scopo il piacere (Garterbelt: “Sembra proprio che il Paradiso sia molto contrariato dal tuo comportamento da puttana”. Panty: “Sono incazzatissima. Fanculo. Che c’è di male a essere una troia ?!”). O, ancora, sul Linguaggio, come visto, spiccio e fieramente scurrile: non si contano, invero, le manciate di turpiloquio che le due adorabili guastatrici riversano sui propri malcapitati interlocutori o si scambiano l’una con l’altra. Si va dal “coglione” al “deficiente” alla “testa di cazzo”; e così dalla “vacca” alla “troia”, dalla “succhiacazzi” alla “ritardata”.
Tutto questo armamentario teorico, d’altro canto, potrebbe risultare ozioso o non rappresentare un autentico scarto se non fosse altresì e con audacia posto in stretta comunicazione con una progressione drammaturgica e un apparato visuale allo stesso tempo ricorrenti e centripeti, nel senso di uno schema narrativo di base orizzontale - stasi preliminare/individuazione del nemico/strategia di combattimento/eliminazione - che si ripete con costanza legando gli episodi alla stregua degli anelli di una catena ma scongiura (o, se vogliamo, maschera) la propria esilità/prevedibilità per il tramite di una accelerazione forsennata impressa al moto di pressoché ogni elemento appartenente all’inquadratura: figure umane, animali, palazzi, mezzi di locomozione, unità del paesaggio, semplici oggetti, i rumori stessi, infatti, partecipano contemporaneamente della medesima incontenibile schizofrenia (dinamica e di tratto: spezzettata/continuo; impalpabile/ingrossato; sottotraccia/vivido, et.), di una sorta di eclettismo epilettico che senza sosta e alla lettera rimette istante per istante il singolo aspetto in gioco, in una sarabanda che si alimenta, sul basso intermittente di una qual sfuggente voluttà annientatrice, di un irrefrenabile cupio dissolvi le cui sparute tregue altro non sono che intervalli di rifiato utili a innescare un nuovo abbrivio e al cui interno però si agitano, liberi e impertinenti, i segni di una imprevedibile istanza di rigenerazione. In altre parole: la centrifuga/frullatore messa in moto da Imaishi con “Panty & Stocking…”, non molto dissimile, come ingranaggio, da quella all’opera in un altro suo spassosissimo delirio, “Dead leaves”, del 2004, non fermandosi mai distrugge man mano che avanza il terreno su cui si sposta ma è su questa stessa distruzione che poggia le basi per protrarre la propria oltranza. Risulta evidente di conseguenza che, quantomeno, una logica del genere abbisogni di un sistematico avvicendarsi di frizioni e di trovate per rendere sostenibile questo che è l’azzardo più rischioso perché fondato essenzialmente sul rilancio. E in “Panty & Stocking…” invenzioni e colpi di mano non mancano; addirittura se ne contano fin troppi col rischio, nello scapicollo inesausto di un bulimico carnevale cromatico-sensoriale, di smarrirne qualcuno, sminuzzato e travolto con allegro sprezzo da un parossismo che non intende conoscere misura. Del resto e a rifletterci, l’assunto stesso, di per sé abbastanza cretino - Panty, Stocking e Garterbelt, approssimando, Mutande, Calze e Reggicalze - ben si presta a una manipolazione potenzialmente infinita, a una, con ogni probabilità, inesauribile copia di allusioni e sberleffi, come pure a una suggestione che evoca uno specifico gusto tutto nipponico per il demenzial-feticistico, qualcosa, cioè, che alligna storicamente negli anfratti più riposti dell’inconscio di un paese che ha fatto del rispetto delle tradizioni, della ritualizzazione degli atteggiamenti e delle abitudini, nonché della compartimentazione sociale, tre dei pilastri su cui ha edificato gran parte della consapevolezza della propria singolarità, e che arriva a incrociare, in ragione di una corrispondenza estetica nemmeno così spuria, taluni andanti tipici della pornografia nazionale - feticismo, come detto, ma pure voyeurismo, umiliazione, pratiche sado-maso, et. - qui ovviamente restituiti attraverso una rilettura filtrata di ispirazione ludico-grottesca ma non ipocrita nello scimmiottarne situazioni e ammiccamenti, del resto già a fondo codificati nel lessico e nella mentalità condivisa a quelle latitudini (vd., per dire, l’editoria e la cinematografia che ruotano intorno a concetti e a generi come l’ecchi, il pantsu, il pinku eiga). Non meno significativo a riguardo, dal momento che sessualità e pornografia, a maggior ragione in un contesto, quello capitalistico, come si sa progettato e tarato su direttrici di esclusivo stampo materialista, vengono sempre declinate assecondando un’ottica che privilegia la mercificazione del corpo femminile (la pornografia semplicemente non esisterebbe senza il corpo femminile), ossia e tra l’altro la subordinazione delle scelte e dei desideri di coloro che di quei corpi sono titolari, si prospetta inoltre il taglio psicologico e quindi attitudinale imposto da Imaishi alle sue due incontenibili eroine, latrici di una femminilità schietta, magari ruspante ma ben conscia di sé, della propria unicità, di quella trappola dei ruoli a suo tempo circoscritta da una personalità del calibro di Anaïs Nin (“Il più grande errore per una donna è aspettarsi che l’uomo costruisca il mondo che essa desidera, invece di crearselo da sola” che, calato nel nostro microuniverso alternativo, si tramuta nel molto più tranchant: “Una donna deve essere libera come un usignolo… Schiaccerò chiunque mi si pari davanti. Io sono l’angelo troia Panty e faccio quello che cazzo mi pare !”), quindi in grado di fare a meno tanto di vessilli rivendicativi quanto di lagne vittimistiche dal momento che, all’occorrenza, il maschio di turno, qualunque esso sia e senza tenere conto della auctoritas che ricopre o presume di detenere, viene messo in riga o, molto più sbrigativamente, preso a calci e a sganassoni, smarmellato sulle pareti o sull’asfalto o, ancora, spremuto come blando succedaneo sessuale.
A riprova di una libertà espressiva che non teme l’inciampo buffonesco, il panico formalistico dell’abbozzo o del non-finito, come pure la sopraccigliosità degli ortodossi del buon gusto, e che trascina con sé senza troppe ubbie temi e volti di una buona fetta del Cinema e della cultura pop recente - da Star Wars ai Transformers, dagli zombi di Romero al Tom Cruise di “Magnolia” passando per “Ritorno al futuro”, “Pulp Fiction”, “Fight Club”, “L.A. confidential” “Sex and the City”, le copertine di album dei Pink Floyd, dei Nirvana, dei King Crimson, fino a caricaturare anche “C’era una volta in America” - Imaishi affronta l’oceano di detriti a cui si è ridotta un’intera Civiltà, ovvero ciò che Daniele Luttazzi con un occhio a Debord chiama il “Blocco politico-militare-finanziario-giornalistico-spettacolare impegnato quotidianamente a produrre consenso ai rapporti sociali e di potere dominanti” come se, aggiunge Debord stesso, “la dissoluzione di questo sistema fosse questione di opinioni”, convogliandone, per mezzo di matite irriverenti dissimulate sotto le soavi fattezze acerbe di due angeli sfacciati, i lacerti ancora, nonostante tutto, più vistosi - Dio e Satana, la vita e la morte, il denaro e il sesso, la società e l’individuo, la produzione e il consumo - verso un ugual destino, vale a dire il gorgo di un colossale scarico contemplato con gli occhi maramaldi di un adolescente beffardo ma un tanto scoglionato. Esito che non avrebbe implicato lo stesso contraccolpo visivo se non si fosse sostanziato a partire da un disegno di preferenza sì infantile - taglie piccole o, per contro, abnormi; proporzioni sfalsate; colori squillanti; agire che sfida la gravità, et. - ma non ad alto tasso glicemico - lineamenti iper-aggraziati per incarnati efebici; prevalenza delle sfumature pastello; movenze di norma eleganti o stilizzate, et. - quindi incline alla deformazione stravagante (le complessioni, gli abiti, gli edifici, gli arredamenti, le strade, et.) rese indimenticabili già da Avery, al dettaglio eccentrico o fuori posto, marcato di nero compatto nei contorni e nei profili squadrati e appuntiti e dalle tinte accese nelle campiture degli sfondi, quanto vieppiù esaltato al momento di coagularsi in pose e gesti scoordinati o ginnico-futuristi, in acrobazie spericolate durante le quali il tratteggio si allunga e si flette in un elastico grafico a cui concorrono i caratteri cubitali associati agli urti o agli schianti degli oggetti come ai più disparati borborigmi corporali, seminando a ogni fotogramma il dubbio per cui la grande mobilitazione della modernità calerà suo malgrado il proprio sipario su uno sghignazzo ebete, un abbiocco improvviso e una scoréggia, con buona pace, ad esempio, del povero Eliot che, pur tra tante disillusioni, aveva tentato di restituirle un po’ di quel senso del tragico (“E’ questo il modo in cui il mondo finisce/Non già con uno schianto ma con un piagnisteo” - The hollow men, 1925 -) che, al contrario, abbiamo, pian piano e senza opporre soverchia resistenza, dissipato, come, più o meno, tutto il resto. Amen.
TFK