venerdì, settembre 09, 2022

VENEZIA 79: WHITE NOISE

White Noise

di Noah Baumbach

con Adam Driver, Greta Gerwig, Don Cheadle

USA, UK 2022

genere: commedia

durata: 136'

Nella scena iniziale di "White Noise", ovvero nel prologo che introduce la narrazione vera e propria, un docente (in realtà professore di icone viventi, così scrive Don DeLillo nel libro da cui il film è tratto) spiega agli studenti che la natura del cinema americano è intrisa di progresso e civiltà anche laddove, per esempio nelle ricorrenti e spettacolari riprese di collisioni e incidenti stradali, sembrerebbe esprimere il contrario. Basta questo a Noah Baumbach per far capire allo spettatore più scaltro quale sia la chiave scelta per affrontare l’impresa di portare sullo schermo DeLillo, uno di quei romanzieri all’apparenza intraducibili al di fuori del suo territorio d’elezione.

Se David Cronenberg era riuscito a impossessarsi di “Cosmopolis”, approcciandolo in maniera frontale, sovrapponendo il suo occhio a quello dello scrittore, Baumbach affronta il testo scritto con un punto di vista decentrato e personale, mettendo in scena un’opera multistrato in cui sono le  forme del cinema e in particolare quello di genere a (re)interpretare temi e ossessioni del romanziere americano.

A legittimare l’ipotesi è la sequenza che fa svoltare il film, quella chiamata a innescare l’avventura: parliamo del sinistro ferroviario da cui scaturisce la minaccia della nube tossica che mette a rischio il (piccolo) mondo del protagonista e quello della sua eccentrica e quanto mai “allargata” famiglia. Se, come si vede, il contesto è quello tipico del disaster movie - mentre in altre parti il racconto assumerà di volta in volta la fisionomia della commedia, dell’action, dell’horror e persino del musical - a spiccare qui è la similitudine del soggetto in questione con gli esempi proposti dal cattedratico (interpretato dal redivivo Don Cheadle) nel segmento introduttivo. Nella versione di Baumbach, “White Noise" muove infatti dalla volontà di dimostrare l’assunto iniziale andando a ritrovare nelle disavventure di Jack Gladney (Adam Driver) e della sua numerosa progenie i prodromi di un cinema che non rinuncia a dare una versione della realtà se non ottimista, almeno meritoria di essere vissuta. Con quello che ne consegue in termini di capacità di risorgere dalle proprie ceneri come più volte capita ai protagonisti del film.

Da una parte c’è DeLillo a ragionare sulla paura della morte e sul modo in cui l’economia di consumo ci viene incontro per farcela ignorare/dimenticare: in termini di significato il balletto finale all’interno del supermercato fa suo il messaggio della scena conclusiva di "Eyes Wide Shut", non a caso ambientato all’interno dello stesso contesto in cui comprare cose è la medicina necessaria per evitare di guardare in faccia agli abissi personali.  Dall’altra parte c'è il regista di “Storia di un matrimonio”, consapevole che l’unica possibilità di rievocare i fantasmi della pandemia senza perdere il supporto e i capitali di un colosso come Netflix (e quindi la possibilità di ben figurare tra i possibili candidati ai prossimi premi Oscar, cui di certo punta la “casa madre”) è quella di stemperare il dramma con una vena comica e grottesca, trovando il positivo anche nelle situazioni peggiori. Baumbach ci riesce grazie a un rapporto con la disfunzionalità dei suoi personaggi, da sempre empatico e partecipato: implacabile nel coglierne difetti e contraddizioni ma anche pronto a prenderne le parti nelle vicende più complesse. Come succede con Adam Driver, nel ruolo del professore di studi hitleriani chiamato a interpretare una versione moderna dell’Idiota dostoevskijano, il cui successo lavorativo è esemplare di quanto si diceva a proposito del rimedio pratico per  esorcizzare la paura del diavolo, essendo per Jack il corso di studi sul gerarca nazista non solo una fonte di prestigio e di potere anche economico derivante dall’esclusività del suo copyright, ma anche il modo per rievocare il Führer avendone in qualche modo il controllo.

Baumbach è bravo a prendere il singolo concetto (per esempio quello della felicità indotta dal possesso di beni di consumo) e a tradurlo in immagini. Basti pensare al contrasto tra le scene dedicate alla vita prosaica, quelle ambientate all’interno del supermercato e nella cucina di casa, in cui montaggio serrato, luce espansa e movimenti della macchina da presa concorrono al vitalismo di cui si diceva, con il buio e la stasi delle inquadrature impiegati là dove la riflessione predomina sull’azione. Egli è meno bravo quando si tratta di rendere omogenea una struttura che non riesce mai ad essere organica, dominata com’è da un postmoderno - il continuo accavallarsi dei generi - che trasmette alla narrazione un'andatura episodica e uno schematismo tipico dei film a tesi. Siamo di fronte a una sintesi del pensiero di DeLillo che fa simpatia ma non riesce a entusiasmare.


Carlo Cerofolini

(Recensione pubblicata su Ondacinema.it)

Nessun commento: