Il ritorno di Casanova
di Gabriele Salvatores
con Sara Serraiocco,
Fabrizio Bentivoglio, Toni Servillo
Italia, Francia, 2023
genere: drammatico
durata: 90’
In un film costruito su
riferimenti e metafore esplicite, l'introduzione de "Il ritorno di
Casanova" costituisce un'eccezione, laddove il collegamento iniziale tra i
diversi spazi in cui sono collocati i due filoni narrativi - quello del regista
Leo Benvenuti (Toni Servillo) in crisi d'ispirazione e l'altro, dedicato alla
senilità avventurosa di Giacomo Casanova, - appare al primo colpo difficile da
identificare. Da una parte le segrete del carcere dalle quali vediamo emergere
la sagoma (irriconoscibile) del nobiluomo veneziano, dall'altra l'appartamento
high-tech del regista, attraversato in lungo e in largo da una sorta di robot
aspirapolvere che relega ai margini la componente umana. Più che raccontare una
storia "Il ritorno di Casanova" esordisce con la rappresentazione di
prigioni reali e figurate, rimandando alla condizione dei due protagonisti,
reclusi all'interno della propria fama e per questo costretti a farvi i conti
di fronte al nuovo che avanza, scontrandosi con chi, nei rispettivi campi (un
seduttore più giovane, il nuovo regista, beniamino della critica), rischia di
offuscarne il successo.
D'altronde, a fronte di
un impianto narrativo che trova la sua coerenza all'interno di una struttura da
making movies, in cui realtà (il regista alle prese con il suo film) e finzione
(il film alla prese con la sua storia) si danno man forte nel costruire un
insieme di fatti e situazioni capaci, nel loro complesso, di dare vita a un
resoconto organico e dunque comprensivo (nonostante i continui sbalzi spazio
temporali), ciò che interessa a Gabriele Salvatores è quello che vi si nasconde
dietro. Se il parallelismo tra le vicende di Casanova (Fabrizio Bentivoglio) e
quelle di Leo ci interessano più nelle divergenze che nelle assonanze, e dunque
di più nel tentativo dello stralunato regista di emanciparsi dal suo edonismo
(di cui Casanova è alter ego) che in quello di assecondarlo, "Il ritorno
di Casanova" trova motivo di interesse nella doppia riflessione,
esistenziale e artistica, scaturita dal confronto con il "proprio"
tempo e con quello degli altri. Quest'ultimo sintetizzato dal rapporto tra Leo
e Silvia (Sara Serraiocco), destinato ad entrare in crisi per una paternità
vissuta dall'uomo (non dalla ragazza) come qualcosa da non prendere in
considerazione perché fuori tempo massimo.
Al ritratto impietoso
della virilità maschile, depotenziata e messa alla berlina nel duello tra
"corpi nudi", in cui al giovane sfidante non basta l'esuberanza
fisica per sopravvivere alla tenzone, così come a Casanova non è sufficiente la
vittoria per scongiurare il senso della fine, si unisce un'idea del mondo del
cinema altrettanto inerte e ripiegata su se stessa. In tale ottica appare
interessante l'utilizzo di Toni Servillo, chiamato a recitare senza maschere in
un universo di travestimenti, e scelto per un ruolo, quello del regista, che
mettendolo nella posizione opposta a quella abitualmente occupata, lo pone
nella condizione di guardare a sé stesso e al proprio lavoro, con occhio
critico, aiutando il processo di svelamento proprio del film e del suo personaggio.
Ancora prima de "Il
sol dell'avvenire", "Il ritorno di Casanova" mette dunque in
scena un percorso di crisi che finisce per coincidere con una visione personale
dell'esistenza e della Settima arte in cui anche Salvatores, alla pari di
Moretti, sembra essere d'accordo sull'impossibilità di separare una dall'altra,
in un incontro scontro che, nonostante il passare del tempo, alimenta sempre
nuovi inizi.
Detto questo "Il
ritorno di Casanova" è il frutto di una mentalità, quella di Salvatores,
incapace di restare sui propri passi, bisognosa com'è di reinventare ogni volta
le coordinate del suo cinema anche quando la scoperta della miniera d'oro
(l'Oscar di "Mediterraneo") poteva indurre al pensiero di continuare
a sfruttarne il "filone". L’ennesimo cambio di rotta di Salvatores è
accompagnato da alcune costanti artistiche del suo autore, quali, per esempio,
l'amore per la letteratura (in questo caso l'omonimo romanzo di Arthur
Schnitzler, a cui il film è liberamente ispirato), per il metalinguaggio
("Happy Family"), per l'utilizzo del grottesco ("Denti"),
come pure per la ricorrenza a collaborare con attori bravi e popolari,
affidandogli il compito di rendere credibili, con il loro carisma, ma anche con
il loro immaginario, i passaggi meno consueti della vicenda. Non è un caso che
la parte migliore del film coincida con la capacità di Servillo e Bentivoglio
di saper rendere lo smarrimento dei loro alter ego, rimanendo in bilico tra
serio e ridicolo. Quando invece si tratta di tramutare lo stato d'animo dei
protagonisti in una coerenza di contesti e accadimenti e di mischiare cultura
alta e bassa (nel tentativo di rendere popolare una materia che tale non è)
l'operazione risulta più meccanica e forse un po' troppo cerebrale nel dare
seguito sul piano narrativo alla sua poetica sentimentale. La fotografia algida
e levigata unita all'eleganza delle composizioni intercettano una modernità
démodé, in qualche modo allacciata al tema del film ma scollata per difetto
dalla temperatura emotiva della storia.
Carlo Cerofolini
(recensione pubblicata su ondacinema.it)
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