Salutata con la solita sobrieta’ da un popolo festivaliero numeroso e trepidante Alina Marrazzi torna al Torino Film Festival dopo lo strepitoso successo ottenuto da "Un ora sola ti vorrei" il documentario che l’ha imposta come una delle realta’ piu’ interessanti del nostro panorama cinematografico, non solo tra gli addetti ai lavori, a volte propensi ad inventare il caso per sfruttarne l’inevitabile ritorno di visibilita’, ma anche dal pubblico piu’ giovane che aveva apprezzato l’originalita’ dell’opera e la delicatezza nella rappresentazione di un dramma personale. E non c’e’ dubbio che anche questa volta il tema dell’emancipazione femminile e piu’ in generale quello della condizione della donna a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘70 non sia semplicemente l’oggetto dell’indagine ma appartenga al vissuto dell’autrice non solo come categoria ma anche come esperienza vissuta.
Lo dimostra la volonta’ di privilegiare la dimensione privata ed emozionale delle sue protagoniste all’elemento sociale e politico: nel corso del documentario, costruito come un patchwork di immagini e parole tratte dalle fonti piu’ disparate (materiale di repertorio, super 8, filmato d’animazione e testimonianza diaristica), al di la’ della cronaca di una battaglia che non e’ ancora finita , emerge il tormento di una presa di coscienza lunga e dolorosa, popolata da fantasmi personali e sovrastrutture opprimenti ed in cui solitudine e sensi di colpa sono le uniche certezze. La fluidita’ dello stile insieme ai simpatici siparietti d’epoca concorrono ad abbassare i toni, ma i nervi sono scoperti ed il pericolo di farsi male e’ inevitabile. Nel corso della presentazione del film, rispondendo ad una domanda di Nanni Moretti su un suo eventuale passaggio al cinema di finzione, l’autrice dapprima titubante poi decisa, ha detto di considerare come tale il suo documentario per la capacita’ di far vivere le protagoniste al di sopra del vissuto che raccontano.
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