(ONE FROM THE HEART)
Se i film assomigliano alla vita, quello che Francis Ford Coppola realizzò nell’ormai lontano 1982 rappresenta forse, uno dei più graditi omaggi per tutti gli appassioniati che vivono le storie del grande schermo immedesimandosi o, meglio ancora, identificandosi nei personaggi e nel mondo che essi portano avanti. Un popolo di sciagurati che finisce per vivere la vita come una finzione ed il cinema come un fatto reale, e così facendo, finisce in un dialettica esistenziale fatta di voli pindalici e rovinose cadute nella prosaicità della realtà quotidiana. Coppola acuisce la dipendenza con una storia d’amore che assomiglia ad una favola per adulti, in cui il sentimento di una relazione che finisce si trasforma in una risacca di colori e musica capace di invertire la natura delle cose.
Dopo essersi avvelenato con le metifiche fatiche di Apocalyps Now, per le incertezze relative alla sua realizzazione, continuamente interrotta da una serie di sventure davvero apocalittiche, ed anche per una relazione matrimoniale messa a rischio da un egotismo peraltro necessario alla grandezza della visione, Coppola decide di realizzare un film che sublimi il recente passato attraverso una dichiarazione d’amore definitiva al cinema ed alla (sua) vita. E, proprio perché il nostro non riesce a non pensare in grande, decide di voltare pagina cimentandosi in un opera da realizzarsi con tecniche avanguardistiche: alta definizione e camere digitali innanzitutto, quelle che oggi permettono a chiunque lo voglia di inventarsi regista ed allora rischiavano un effetto destabilizzante, per la carica innovativa e per lo spirito di democratizzazione implicito nel mezzo, capace di sottrarre il suo utilizzatore al controllo dei grandi studi hollywoodiani. Girato interamente in studio e con la sfarzosa artigianalità tipica dell’età d’oro del cinema americano, Coppola sceglie di ambientare la sua storia a Las Vegas, perfetta nell’incarnare l’estetica di un film che si muove all’interno del binomio finzione/verità, e che il regista fa rivivere riproducendo a grandezza naturale la location principale, quello Strip che rappresenta, con le sue luci e gli sfavillanti Casinò, il “bigger than life” che l’ha resa famosa, e poi, a bilanciare un scenario che si diverte a giocare con le proprie contraddizioni, la strada periferica, quella lontana dalle luci e dal clamore, in cui i due protagonisti hanno vissuto gli alti ed i bassi della loro relazione e dove si ritroveranno al termine di una giornata che assomiglia, per la dilatazione temporale che Coppola ci fa percepire, ed anche per il fatto che si svolge durante un importante festa nazionale, a quella vissuta dal personaggio dell’Ulisse di James Joyce. A completare un simile allestimento il regista utilizza le luci di Vittorio Storaro, un uomo dalla mentalità rinascimentale, per la capacità di andare oltre le convenzioni (basta guardare l’alternarsi della cromatura monocolore che fa da barometro alla meteorologia dell’anima) e come Coppola altrettanto incapace di mettere a tacere la grandiosità dello slancio, e poi, la voce e soprattutto la musica di Tom Waits, malinconico cantore di un umanità marginale e lontana dai riflettori a cui spetta il compito di accompagnare la storia sottolineandone gli stati d’animo ed evidenziandone gli sviluppi. Un ensemble di fuoriclasse che Coppola, artigiano narcisista ed idealista sopraffino, amalgama attraverso il movimento avvolgente della macchina da presa; un magnifico affresco che gioca con la modernità della tecnica trasformando la telecamera in un oggetto onniscente che taglia lo spazio filmico, allargandolo nelle scene del sogno (Las Vegas e la sua vita notturna), quando Hank e Frannie ( dopo la scelta del nome della sua casa di produzione ancora un omaggio al celebre racconto di Salinger) si abbandonano alla possibilità di immaginarsi diversamente felici, o contenendolo, fino a sezionarlo, in quelle in cui la realtà prende il sopravvento, come succede nella scena dell’albergo, quella in cui Jack chiede all’amica di Frannie di aiutarlo a ritrovarla, e noi vediamo la prospettiva tagliata del muro che lo divide dalla sua interlocutrice, oppure nell’abilità con cui il regista sottolinea la profondità di un legame che rimane profondo nonostante la separazione, e mescola all’interno della stesso quadro momenti di un esistenza che li vede fisicamente lontani. Film d’autore dove il desiderio di sperimentare si unisce ad uno sguardo che riconosce le proprie radici: così è difficile non vedere nel personaggio di Nastassia kinski, sensuale circense, echi del mondo felliniano, peraltro richiamati continuamente nella dimensione sognante che avvolge i protagonisti (e se quello che abbiamo visto fosse solamente una loro proiezione?), così come in quello di Frederik Foster il richiamo al Kowalsky Brandiano (seppure in una versione che trasforma la virilità incontenibile di quello nella dolcezza di uno sguardo a cui non si può dire di no), e che dire di Terri Garr, bellezza tutta da scoprire (e che l’occhio di Coppola riesce a valorizzare), una specie di Giulietta degli spiriti, dietro quegli occhiali che la nascondono dalla sua voglia di fuggire verso una vita che fin allora ha solo immaginato ed in posti che ricostruisce attraverso l’allestimento della vetrina del negozio di viaggi che gestisce insieme all’amica. Il film la immortala in un immagine di sapore Chapliniano, quando dopo l’ennesimo litigio raccoglie i suoi vestiti e si avvia, da sola e con una valigia in mano, verso un incerto futuro, e noi la vediamo di spalle, che si allontana lungo la strada illuminata dal riverbero dei neon. Un omaggio ad un cinema ormai scomparso che Coppola fa rivivere in chiave dichiaratamente antinaturalista, enfatizzata dall’uso di sfondi disegnati ed ambienti fortemente stilizzati, quasi sempre risultato di una realtà filtrata attraverso l’emotività della situazione contingente. Ed anche nel romantico sottofinale (ascoltate la canzone “one from the heart” che accompagna quei momenti perché potrebbe cambiarvi la vita) che riprende i fotogrammi conclusivi di Casablanca, con Frannie che sale sull’aereo mentre Hank assiste impotente alla sua partenza, Coppola ribadisce un idea di cinema in cui la modernità dello strumento è messa al servizio della storia e dei personaggi.
Costato circa 25 millioni di dollari (un enormità per quei tempi), “One from the heart” fece incetta di recensioni negative e fu smontato dopo circa una settimana dalla sua uscita; da quel momento Coppola, per far fronte ai debiti della sua realizzazione fu costretto a realizzare opere su commissione in cui non mancò di mostrare lampi del suo talento (Dracula, Rumbe fish) e ritagliate su argomenti di interesse personale (Peggy Sue si è sposata ed i Giardini di pietra riflettono il dramma della morte del figlio maggiore). Terri Garr ebbe modo di lavorare con altri registi della nuova Hollywood ma in generale la sua carriera non mantenne l’eccellenza delle sue premesse anche a causa di una malattia che la costrinse ad abbandonare le scene. Frederik Forrest tornerà a lavorare ancora con Coppola, in questo caso produttore, nel cult “Hammet-indagine a Chinatown” di Wim Wenders, altro film dalla genesi tormentata e dagli esiti disastrosi, per poi defilarsi in comparsate che non hanno reso giustizia alle potenzialità che lo scrivente gli riconosce.
3 commenti:
Un film che mi è rimasto nel cuore e che dimostra (se ce ne fosse stato bisogno) quanto contasse per Coppola sperimentare nuove tecniche. E' vero: un atto d'amore verso il cinema. E una recensione bellissima che mi ha riportato nella visione del film.
filmone ingiustamente trattato male, cosa che gli dà un'aura ulteriormente drammatica. la sceneggiatura forse non è all'altezza dello sforzo produttivo, altrimenti sarebbe stato davvero un capolavoro, ma rimane uno dei migliori coppola. la versione in dvd ha anche un bel documentario con waits durante la lavorazione della colonna sonora, il che rende l'edizione doppiamente preziosa. la kinski qui è meravigliosa come non mai.
Ovviamente ho lo splendido Dvd.
La bellezza della Kinski è all'altezza di quella suggellata da Polanski in Tess.
Sull'accoglienza della critica bisogna dire che erano in molti, anche all'interno di Hollywood, ad aspettare al varco il regista: ridimensionare la sua figura voleva dire riportare il business in mano ai produttori, dopo che il fenomeno New Hollywood, per necessità che non starò qui a dire, ne aveva ridotto i margini di controllo.
Successe la stessa cosa,ma con esiti ancora più drammatici a Michael Cimino, all'indomani de "The deer hunter", solamente che le avversità continuarono anche dopo il flop de I cancelli del cielo:The sunchaser fu boicottato dagli stessi produttori che fecero di tutto perchè non venisse premiato con la palma d'oro al festival di cannes; un alloro del genere avrebbe restituito a Cimino una credibilità che non faceva piacere a chi ne voleva la sottomissione artistica.
In ogni caso "Un sogno lungo un giorno" è per molti motivi un film da ricordare.
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