lunedì, settembre 26, 2011

La pelle che abito

LA PELLE CHE ABITO
regia diP. Almodovar


In un percorso artistico, l’elemento autobiografico è parte imprescindibile dell’esito creativo. La sua presenza è una luce riflessa che si mostra soprattutto nel risultato finale, nell’evidenza dell’opera finita. Nel cinema la rilevazione è in continuo divenire, e va di pari passo con lo scorrere del tempo. E’ una linea che attraversa la storia del film, disseminandola di situazioni e di rimandi, variamente articolati, ma sempre riferiti all’essenza dell'autore.

Nella filmografia di Almodovar questa identificazione è così esplicita da rendere impossibile qualsiasi altra considerazione che esuli dal vissuto del suo artefice. Tutto appartiene e si riallaccia ad un esperienza personale durante la quale il regista ha attraversato, con sfolgorante esuberanza, le vicissitudine di un paese in cerca di cambiamenti.

La donna come misura del mondo, il colore come motivo estetico ed esistenziale ed ancora il panteismo sessuale, usato come segnale di crisi e del suo superamento, hanno caratterizzato tanto l’uomo quanto l'artista per buona parte della carriera. “La Pelle che abito” invece, pur nel proseguimento di un cinema personale, appare diverso.
In esso Almodovar sembra nascondersi dietro la perfezione di una cornice tanto levigata quanto trattenuta, nella perfezione dei corpi e della loro plasticità, in una storia che, proponendo una versione moderna del Frankenstein, con un ricercatore scientifico, Robert Ledgard, deciso a trasformare il carnefice della figlia in una donna, Vera, identica alla moglie denunta, esalta diverse facce del cinema di genere, dal noir, all’horror, passando per il melò.
E poi, non contento, dissemina quà e là, tracce di una presenza che ha perso leggerezza, ed a cui non basta qualche pillola di stravaganza, come l'apparizione di un personaggio travestito da leopardo, e disinvoltamente intento nel compimento delle sue malefatte. La voglia di ridere si è trasformata in uno sguardo da entomologo, non più compagno ma spettatore dei personaggi.

Con l’io, frantumato in tanti piccoli pezzetti, rintracciabili nelle pulsioni sessuali, irrefrenabili e grottesche dell’uomo leopardo, drammaticamente legato alle sorti della defunta moglie dello scienziato, oppure nella capacità di saper costruire bellezza laddove non c’era, proposta nel percorso di Vera, nata dalle ceneri di un orribile delitto, e dopo quello assunta a ruolo di Angelo sterminatore, ma anche nella capacità di plasmare gli attori, inventandoli, Bianca Suarez, o reinventandoli, Antonio Banderas, a proprio piacimento.

Ed ancora nella riflessione sui limiti di un cinema che non riesce ad andare oltre il fascino delle sue costruzioni estetiche: le scene in cui il dottore guarda la sua creatura immacolata e pura, con il vetro che li separa, simile allo schermo della sala, e poi, con lo scarto dovuto alla vita, il suo contraltare, quando la convivenza reale con l’oggetto desiderato, e finalmente distinto dalla sua idea, diventa fonte di inaspettata sventura.

Una rarefazione in contrasto con un impianto molto costruito, privo della proverbiale fluidità del regista catalano, e persino tortuoso, come dimostra la messa in scena del racconto dell'oscuro passato dei personaggi, inizialmente sottratto allo spettatore, e successivamente somministrato con una scansione dei fatti, inizialmente in mano al regista, per mezzo delle opportune didascalie, e poi assegnato al doppio sogno dei due protagonisti, ognuno dei quali rispondente ad una diversa versione dei fatti e dello stupro, e con un particolare, questo sì molto riuscito, che lascia un indizio sulla reale identità di Vera.

Imperfezioni d’autore che scontentano gli amanti della prima ora, ma che sono la logica conseguenza di chi è costretto a cambiare pelle mantenendo la memoria. Come abbiamo visto ne "La pelle che abito".

5 commenti:

Fabrizio ha detto...

Da sempre la grandezza del cinema di Pedro Almodovar risiede nel paradosso e nell'improbabilità delle storie che il regista spagnolo utilizza per mettere in risalto la purezza dei sentimenti, ma in questa occasione pur trovandoci di fronte ad un buon film, si ha come l'impressione che ne La pelle che abito, estetica, ironia, eleganza, classe, tecnica e pulizia dello stile abbiano esonerato l'anima della storia

Anonimo ha detto...

Almodovar sta cercando di adeguarsi al tempo che passa. Stanze buie, personaggi isolati e reclusi dal mondo sono il segno di questp cambiamento. La vita ha fatto un passo indietro rispetto all'arte. Il metacinema è il segno di un cinema che preferisce riflettere più che agire. Prendere tempo per decidere la strada intraprendendere. Almodovar è un regista che sta cambiando pelle.

nickoftime

Anonimo ha detto...

..comunque se fossi in te inserirei la tua recensione del film...

nickoftime

parsec ha detto...

Com'è difficile esprimere un giudizio su questo film... Ho pensato: se non fosse Almodovar... Però è impossibile fare finta che sia di un autore qualunque o sconosciuto... Vedendo il film, come si fa a non considerare gli indizi della poetica passata che non è più, come si fa a non scorgere le ombre lunghe di ciò che era e non è più... Mi piacerebbe comunque rivederlo - a differenza degli Abbracci che era tutta fuffa - la Pelle l'ho trovato comunque un bel film, a tratti mi ha riportato alle suggestioni di Vincent Price ne L'Abominevole dottor Phibes.
Rimane nel cuore la sensazione di cambiamento epocale, di una stagione conclusa, dell'ultima bella estate volta al termine e gli amici cambiano scuola, casa, lavoro e non li vedremo più. Ora i cattivi sono anche antipatici (letteralmente, non c'è vicinanza emotiva) e il dramma - che leggero come una piuma non lo è più - ha anche perso di quell'ironia che lo rendeva sopportabile. Qualcosa è cambiato che ha fatto cambiare tutto. Va bene così, vi invito a sentire il discorso di Bellocchio a Venezia, quando ha ricevuto il premio alla carriera, da intendere come apologia del cambiamento. Non si può rimanere uguali a se stessi, ma speriamo che crescendo e cambiando e invecchiando il cinema continui ad essere un bel cinema.

Anonimo ha detto...

.."l'unica costante è il cambiamento" sono le parole di Buddha che mi sembra fotografano alla perfezione la tua chiusa..non c'è altro da aggiungere se non che per me i film di Almodovar, almeno gli ultimi sono difficili da analizzare,sono sfuggenti, in continua mutazione..

un saluto

nickoftime