venerdì, gennaio 31, 2014
SCENES DE CRIMES
di: F.Schoendoerffer.
con: C.Berling, A.Dussolier, L.Schoendoerffer, P.Mottet, E.Navarre, E.Darlan.
Drammatico - FRA 2000 - 100 min
Il percorso di avvicinamento al Cinema di Frederic Schoendoerffer e' stato graduale, eppure "inevitabile". E ciò soprattutto per via della presenza del padre Pierre - corrispondente di guerra in Indocina, scrittore e autore di un film come "317eme section"/"317mo battaglione d'assalto" (1965), con J.Perrin e B.Cremer, solida e non agiografica opera bellica sui fatti di Dien Bien Phu - Frederic, dopo aver preso parte ad alcuni lavori del genitore ed aver filmato diversi cortometraggi, esordisce nel 2000 con questo "Scenes de crimes", "polar" con derive esistenziali, candidato ai Cesar come migliore opera prima. Quindi inanella una serie di titoli della cui eco dalle nostre parti non giunge che la pallida risonanza di "Agents secrets" (2004) interpretato dall'ex duo "glam" Bellucci/Cassel ma pure, per chi ha assecondato a dovere la propria curiosità, i quattro episodi co-diretti assieme a Olivier Marchal della serie transalpina "Braquo" con J-H Anglade.
Il primo dato che colpisce di "Scenes de crimes" e' la puntigliosità esercitata sulla messinscena: le attività investigative svolte dai due "flic" protagonisti Fabian/Berling e Gomez/Dussolier assimilano, infatti, in un insolito e perlopiu' riuscito connubio, la "detection" precisa, tecnica, densa di dettagli (anche aspri) della migliore tradizione americana e il substrato psicologico tipicamente europeo, caratterizzato in questo squarcio di contemporaneità e come vuole il più attuale racconto poliziesco, dallo slittamento progressivo del classico "mal de vivre" verso vere e proprie forme di disperazione introflessa, sovente con risvolti aggressivi e/o autodistruttivi (sono uomini questi che, tra l'altro, usano poco le pistole "in azione". Più facile, appunto, che siano tentati di rivolgerle contro se stessi). La ricognizione di Schoendoerffer nel genere tra i più amati d'oltralpe, dal passo a volte quasi documentaristico, si apre sulla misteriosa scomparsa di una ragazza nei dintorni agresti di Parigi, alla quale fanno seguito ritrovamenti di cadaveri mutilati che pian piano persuadono la Brigata Criminale che si occupa del caso ad indirizzarsi sul sentiero assai scivoloso dell'omicida seriale. Le indagini - difficili e dalle epifanie sempre più efferate - vanno ad innestarsi con altrettanta inesorabilità e traumaticamente sul vissuto privato dei poliziotti titolari dell'inchiesta, facendo emergere e confliggere tra loro problemi non risolti, contraddizioni mai affrontate a viso aperto, oscurità del carattere solo a malapena tenute a bada dall'impellenza del dovere e dalla cronica mancanza di tempo per se' e per gli affetti. Gomez (da sottolineare la prova di Dussolier, come tirato fuori di forza dal suo impeccabile aplomb borghese), travolto da disastri familiari e dall'alcool, non ce la farà; Fabian - tra una menzogna a se stesso e l'altra; un maniacale "barricarsi" dentro la vicenda e l'ennesima prostituta occasionale - andrà a modo suo fino in fondo, verso l'origine del Male.
Schoendoerffer segue da subito e molto da presso l'ingegnarsi dei due poliziotti, li scruta passo passo nel loro avanzare tra le evidenze degli atti di una psicologia malvagia, ci offre il loro punto di vista (non a caso la presenza di luoghi apparentemente "inerti" o fisicamente "ostili", come i dintorni di un'autostrada, le profondità mal illuminate e intricate di un bosco, riprende con esattezza la suggestione di base che lega l'estraneita ', l'imperturbabilita ' della sua logica, al Male), ma allo stesso tempo annota le ricadute sul piano emotivo di quella infausta prossimità, coordinando in una specie di contrappasso in sottotono - per certi versi ancor più inquietante dell'investigazione stessa - la capacita' di analisi e il rigore complessivo con cui si alimentano i progressi nelle ricerche e l'inesorabile disfacimento intimo e morale di coloro che sono chiamati ad avvalersene. Medesima corrispondenza si attua sul versante stilistico: tanto le immagini relative al dispiegarsi dell'azione poliziesca privilegiano - come detto - la prospettiva di chi le compie (quindi, sopralluoghi a piedi nelle aree dei ritrovamenti; visite al laboratorio di medicina legale; appostamenti et.), così l'imponderabilità di colui (l'assassino/il Male) che e' fuori scena proprio perché, in teoria, può colpire ovunque e in qualunque momento, e' spesso sottolineata da dolly improvvisi e incalzanti riprese aeree che sorprendono e straniano l'occhio di chi guarda. Non secondariamente, la scelta della luce ribadisce questa maliziosa antinomia i cui estremi, di frequente, si sovrappongono fin quasi a confondersi, accrescendo un già insistente senso di disagio. Ecco allora, da un lato, le penombre - se non, addirittura, il prevalere dell'oscurita ' - nelle campagne al tramonto, in certi interni. E le atmosfere plumbee, gl'incarnati a volte terrei dei protagonisti. Dall'altro - in specie nella parte finale, ambientata nel sud della Francia - quando il cerchio si stringe, i cieli chiari, un po' opachi; i pomeriggi lunghi con un sole pigro e beffardo stagliato su un orizzonte che pare vantarsi della sua inamovibilità (come se al Male, vincente e indifferente alla propria stessa sorte, bastasse solo rilassarsi per pervadere tutto, senza sforzo, senza opposizione).
Proprio l'ultimo terzo del film - nonostante il suo indubbio fascino visivo - e' quello che più stride con l'insieme dell'opera e il suo equilibrio interno, ottenuto in virtù di uno svolgimento magari un tanto meccanico ma senza una sbavatura. E ciò non tanto per lo scarto ancor più "esistenziale", quasi metafisico, impresso alla storia; bensì, più prosaicamente, per il fatto di essere introdotto per il tramite di alcune forzature narrative e di minime ma chiare incongruenze. Come che sia, al netto dei limiti che zavorrano quasi ogni opera prima, i meriti del lavoro di Shoendoerffer superano di alcune incollature le pecche e gli riservano un posto tutto suo al sole ai tempi appena sorto del "neo polar".
TFK
giovedì, gennaio 30, 2014
I segreti di Osage County
I segreti di Osange County
di John Wells
con Meryl Streep, Julia Roberts, Juliette Lewis, Julianne Nicholson, Ewan McGregor, Chris Cooper
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 130'
di John Wells
con Meryl Streep, Julia Roberts, Juliette Lewis, Julianne Nicholson, Ewan McGregor, Chris Cooper
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 130'
Nati
sulla scia del fenomeno del cinema indie promosso dal Sundance di Robert
Redford, i fratelli Weistein e di conseguenza la Miramax rappresentano
ad Hollywood il punto di
congiunzione tra Mainstream ed Art House Movie , il cosiddetto cinema
d'essai. Un target che nel corso del tempo il sodalizio famigliare si è saputo
conquistare allettando lo star system con storie e copioni che celebravano come
meglio non si poteva il metodo Actor's studio. Una vetrina di eccellenze
attoriali che divenne ben presto terreno di conquista di premi e riconoscimenti
ansiosi di accostarsi ad interpretazioni che cannibalizzavano vizi e virtù del
repertorio drammatico hollywoodiano, con l'immersione nel personaggio che
prestava il fianco al narcisismo degli interpreti.
"I
segreti di Osage County" ripropone in maniera fedele questi peculiarità
grazie ad una vicenda di nevrosi famigliari che strizzano l'occhio ad un altra
situazione tipica di questo cinema, ovvero quello della convivenza forzata di
una gamma di personaggi chiamati a declinare le gradazioni dell'esistenzialismo
a stelle e strisce. E così dopo un breve prologo che da modo alla vicenda di
creare a presupposti di un funerale che riporta a casa i vari membri della
famiglia Weston, assistiamo al dramma scaturito dai problematici rapporti tra
Violet (Meryl Streep), vedova e gravemente ammalata, e le proprie figlie, per
ragioni che la storia rivelerà solo nel finale, costrette a subirne il
carattere litigioso e dispotico.
Tratto
dall'omonima pièce teatrale di Tracy Letts vincitore di un Pulitzer, "I segreti di Osage
County" si misura con i grandi melò del passato attraverso la potenza
drammaturgica del personaggio centrale, quello della madre, interpretato da una
Meryl Streep che sembra voltarsi indietro, recuperando la lezione di attrici
come Betty Davis e Joan Crawford.
Accanto a lei, in un confronto non facile ma sicuramente all'altezza,
Julia Roberts nel ruolo di Barbara, figlia maggiore a cui spetta il compito di
proteggere il resto del gruppo dalle feroci incursioni dell'erinni in gonnella.
Al suo
secondo film John Wells conferma la solidità di un cinema costruito sui
dialoghi e sulla performance attoriale e divistica. In questo caso però pur
inurbando la sua storia nelle stanze di un ambiente domestico che rende bene la
claustrofobia e l'oppressione dei rapporti umani, il regista sfrutta
sapientemente lo spazio naturale che circonda la villa dei Weston, l'Oklahoma
con le sue deserte praterie, in una dialettica che permette al film di
svincolarsi dalla sua matrice teatrale, fornendo al contempo il contraltare
visivo alla solitudine interiore che attanaglia i protagonisti, così come la
costellazione di fragilità umane che partecipano alle loro pene. Così pur
risultando un pò scontato nelle dinamiche famigliari, improntante a monocorde
nevrosi, che negli esiti finali della vicenda, come sempre affidati ad un
peccato originale che si nasconde tra le pieghe di un passato difficile da
dimenticare, "I segreti di Osage County" è un film che non deluderà
gli amanti del cinema più tradizionale. Per questo film Meryl Streep e Julia
Roberts sono in lizza rispettivamente nella categoria miglior attrice,
protagonista e non, della prossima edizione degli Oscar.
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anteprime,
recensioni
Film in sala da Giovedì 30 Gennaio 2014
I SEGRETI DI OSAGE COUNTY
August: Osage County
di John Wells
con Julia Roberts, Meryl Streep, Andrea Riseborough
Benedict Cumberbatch, Ewan McGregor, Abigail Breslin
Juliette Lewis, Dermot Mulroney, Chris Cooper
Margo Martindale, Julianne Nicholson, Sam Shepard,
2013 USA - Drammatico - 119 min
DALLAS BUYERS CLUB
di Jean-Marc Vallée
con Matthew McConaughey, Jennifer Garner, Jared Leto
2013 USA - Drammatico - 117 min
LA GENTE CHE STA BENE
di Francesco Patierno
con Claudio Bisio, Margherita Buy, Diego Abatantuono
2014 ITA - 105 min - Commedia
HERCULES - La Leggenda ha inizio
Hercules - The Legend Begins
di Renny Harlin
con Kellan Lutz, Gaia Weiss, Scott Adkins
2014 USA - Azione - 98 min
IL SEGNATO
Paranormal Activity: the marked ones
di Christopher Landon
con Andrew Jacobson, Molly Ephraim, Richard Cabral
2014 USA - Horror - 84 min
DRAGON BALL Z - La battaglia degli dei
Dragon Ball Z: Battle of gods
di Masahiro Hosoda
2013 GIA - 85 min - Animazione
BELLE E SEBASTIEN
di Nicolas Vanier
con Félix Bossuet, Tchéky Karyo, Margaux Chatelier
2013 FRA - 98 min - Family
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film in uscita 2014
martedì, gennaio 28, 2014
Hannah Arendt
Hannah Arendt
di Margaret Von Trotta
con Barbara Sukowa, Axel Milberg, Janet McTeer, Julia Jentsch, Ulrich Noethen
Germania, Francia, Lussemburgo, 2012
genere, drammatico
durata, 113'
Cinquanta anni fa veniva pubblicato “La banalità del male”, il risultato del reportage scritto da Hannah Arendt sul processo ad Adolf Eichmann. Era stata lei stessa, ebrea e tedesca, a chiedere di seguire quel processo per il New Yorker. Lei che aveva già pubblicato “Le origini del totalitarismo” voleva vedere per capire, vedere il volto di chi è accusato di aver sterminato milioni di ebrei. Per la prima volta un criminale nazista veniva giudicato da un tribunale nel nuovo stato d'Israele. Quello ad Adolf Eichmann fu un processo fondamentale, e nella sua fase iniziale un processo spettacolo come la Arendt temeva. Proprio dal viaggio a Gerusalemme parte il film di Margharete Von Trotta, nelle sale italiane solo il 27 e il 28 gennaio, in occasione della giornata della memoria. Per parlare di Hannah Arendt, infatti, la regista tedesca sceglie un particolare periodo della vita della filosofa, forse anche il più difficile da raccontare al cinema. È difficile raccontare per immagini il pensiero nel suo farsi, nel suo evolversi, nel suo diffondersi come tenta di fare la Von Trotta che però, sembra all'altezza del difficile compito.
La Arendt che ci consegna, magistralmente interpretata da Barbara Sukowa, è prima di tutto una donna, prima ancora di essere una giornalista o una professoressa. Per quanto sia accusata di arroganza e freddezza - in molti le rimproverano di essere “priva di sentimenti”- risulta capace di comunicare, di dare ancora insegnamenti significativi, di arrivare anche a un grande pubblico. La Von Trotta punta lo sguardo sulle molteplici sfumature della protagonista, tratteggiando un ritratto completo tanto da riuscire a restituire la pregnanza del personaggio pubblico, quanto la complessità della persona privata. La coglie sia nella quotidianità della vita domestica, come moglie che ama ricambiata il proprio marito, sia nelle occasioni in cui è chiamata a confrontarsi con altri intellettuali, con i suoi amici e colleghi. Numerose sono anche le scene in cui la filosofa, in solitudine, appare intenta a riflettere. Come il maestro Heidegger le aveva insegnato, ricordato nel film in brevi ma intensi flash-back, pensare è l'attività precipua dell'uomo, e in un mondo che ha mostrato di essere disumano la Arendt non si stanca di esercitare questa attività e di insegnarla a sua volta. Perché proprio nell'assenza di pensiero, di riflessione individua la causa prima di quanto è accaduto, di quanto anche lei in prima persona ha vissuto, e che nel '61 decide di riconsiderare seguendo il processo ad Eichmann a Gerusalemme.
Quello che più la sconvolge è scoprire l'incolmabile abisso tra la mediocrità, la miseria dell'uomo e le azioni tremende che ha compiuto. In questo meccanismo nuovo e inaspettato che la tragedia dell'olocausto ha rivelato, si cela “la banalità del male”. Il male peggiore, quello assoluto è, come sottolinea nel memorabile discorso finale, quello dei “nessuno”, quello di chi non sente il peso della responsabilità delle proprie azioni, nel senso che non sente il dovere di rispondere a nessuno, neppure a se stesso. Un male compiuto appunto da chi non pensa, non ha intenzioni, e perciò non può neppure essere considerato umano. La Arendt comprende il significato profondo di questo meccanismo e lo rivela nella sua radicalità e novità prendendosi, lei si, la responsabilità di quanto afferma. Le reazioni sono immediate e violente.
Gli intellettuali, il mondo accademico, tutti si schierano contro le dichiarazioni di quella che viene descritta come un'ebrea che rinnega la sua stessa natura, che non ama il suo popolo. In molti, anche tra gli amici più cari, non le perdoneranno di aver descritto con assoluta oggettività, con lo spiccato acume critico che sempre l'aveva contraddistinta anche in quel processo, cercando di capire quello che era impossibile capire perché semplicemente disumano. E invece lei, che rifiuta di compiangersi come fosse una vittima, è ossessionata dal desiderio di comprendere per spiegare, quasi fosse la sua missione, e comprendere non è perdonare, come dirà poi a sua difesa. Comprendere è il dovere di chi vuole rimanere umano, di chi rifiuta la logica che sottende a qualsiasi totalitarismo, e che ha guidato i capi nazisti nello sterminio degli ebrei: uccidere un uomo prima di ucciderlo fisicamente. Ucciderlo due volte rendendolo prima superfluo, inutile, e poi carne da macello. Ma più che le vittime, non-umani erano diventati i carnefici, algidi burocrati come Adolf Eichmann, pronti ad eseguire gli ordini, a obbedire. Questo la Arendt vuole dimostrare, e lo dimostra a caro prezzo, pagando lei stessa per la verità.
Il film ricostruisce l'atmosfera pesante che si era innalzata intorno alla sua figura, negli Stati Uniti, in Europa e soprattutto in Israele, dove il libro è uscito solo nel 2002. Mostra tuttavia anche quanto la Arendt sia profondamente radicata a quell'ambiente intellettuale e accademico che la Von Trotta ha
ben delineato; quanto sia legata a quel secolo dei totalitarismi che a più riprese ha tentato di spiegare. Allo stesso tempo il film restituisce la forza straordinaria di questa donna, il suo coraggio, la sua attualità. Perciò dispiace che in Italia siano stati solo in pochi a vederlo. Un cinema come questo dovrebbe circolare nelle scuole, passare nelle televisioni, arrivare insomma ad un grande pubblico, ed ai ragazzi soprattutto, a quella platea di studenti a cui la Arendt più volte si rivolge nel film. A loro, più che ad ogni altro ha ancora molto da dire.
di Aretina Bellizzi
di Margaret Von Trotta
con Barbara Sukowa, Axel Milberg, Janet McTeer, Julia Jentsch, Ulrich Noethen
Germania, Francia, Lussemburgo, 2012
genere, drammatico
durata, 113'
Cinquanta anni fa veniva pubblicato “La banalità del male”, il risultato del reportage scritto da Hannah Arendt sul processo ad Adolf Eichmann. Era stata lei stessa, ebrea e tedesca, a chiedere di seguire quel processo per il New Yorker. Lei che aveva già pubblicato “Le origini del totalitarismo” voleva vedere per capire, vedere il volto di chi è accusato di aver sterminato milioni di ebrei. Per la prima volta un criminale nazista veniva giudicato da un tribunale nel nuovo stato d'Israele. Quello ad Adolf Eichmann fu un processo fondamentale, e nella sua fase iniziale un processo spettacolo come la Arendt temeva. Proprio dal viaggio a Gerusalemme parte il film di Margharete Von Trotta, nelle sale italiane solo il 27 e il 28 gennaio, in occasione della giornata della memoria. Per parlare di Hannah Arendt, infatti, la regista tedesca sceglie un particolare periodo della vita della filosofa, forse anche il più difficile da raccontare al cinema. È difficile raccontare per immagini il pensiero nel suo farsi, nel suo evolversi, nel suo diffondersi come tenta di fare la Von Trotta che però, sembra all'altezza del difficile compito.
La Arendt che ci consegna, magistralmente interpretata da Barbara Sukowa, è prima di tutto una donna, prima ancora di essere una giornalista o una professoressa. Per quanto sia accusata di arroganza e freddezza - in molti le rimproverano di essere “priva di sentimenti”- risulta capace di comunicare, di dare ancora insegnamenti significativi, di arrivare anche a un grande pubblico. La Von Trotta punta lo sguardo sulle molteplici sfumature della protagonista, tratteggiando un ritratto completo tanto da riuscire a restituire la pregnanza del personaggio pubblico, quanto la complessità della persona privata. La coglie sia nella quotidianità della vita domestica, come moglie che ama ricambiata il proprio marito, sia nelle occasioni in cui è chiamata a confrontarsi con altri intellettuali, con i suoi amici e colleghi. Numerose sono anche le scene in cui la filosofa, in solitudine, appare intenta a riflettere. Come il maestro Heidegger le aveva insegnato, ricordato nel film in brevi ma intensi flash-back, pensare è l'attività precipua dell'uomo, e in un mondo che ha mostrato di essere disumano la Arendt non si stanca di esercitare questa attività e di insegnarla a sua volta. Perché proprio nell'assenza di pensiero, di riflessione individua la causa prima di quanto è accaduto, di quanto anche lei in prima persona ha vissuto, e che nel '61 decide di riconsiderare seguendo il processo ad Eichmann a Gerusalemme.
Quello che più la sconvolge è scoprire l'incolmabile abisso tra la mediocrità, la miseria dell'uomo e le azioni tremende che ha compiuto. In questo meccanismo nuovo e inaspettato che la tragedia dell'olocausto ha rivelato, si cela “la banalità del male”. Il male peggiore, quello assoluto è, come sottolinea nel memorabile discorso finale, quello dei “nessuno”, quello di chi non sente il peso della responsabilità delle proprie azioni, nel senso che non sente il dovere di rispondere a nessuno, neppure a se stesso. Un male compiuto appunto da chi non pensa, non ha intenzioni, e perciò non può neppure essere considerato umano. La Arendt comprende il significato profondo di questo meccanismo e lo rivela nella sua radicalità e novità prendendosi, lei si, la responsabilità di quanto afferma. Le reazioni sono immediate e violente.
Gli intellettuali, il mondo accademico, tutti si schierano contro le dichiarazioni di quella che viene descritta come un'ebrea che rinnega la sua stessa natura, che non ama il suo popolo. In molti, anche tra gli amici più cari, non le perdoneranno di aver descritto con assoluta oggettività, con lo spiccato acume critico che sempre l'aveva contraddistinta anche in quel processo, cercando di capire quello che era impossibile capire perché semplicemente disumano. E invece lei, che rifiuta di compiangersi come fosse una vittima, è ossessionata dal desiderio di comprendere per spiegare, quasi fosse la sua missione, e comprendere non è perdonare, come dirà poi a sua difesa. Comprendere è il dovere di chi vuole rimanere umano, di chi rifiuta la logica che sottende a qualsiasi totalitarismo, e che ha guidato i capi nazisti nello sterminio degli ebrei: uccidere un uomo prima di ucciderlo fisicamente. Ucciderlo due volte rendendolo prima superfluo, inutile, e poi carne da macello. Ma più che le vittime, non-umani erano diventati i carnefici, algidi burocrati come Adolf Eichmann, pronti ad eseguire gli ordini, a obbedire. Questo la Arendt vuole dimostrare, e lo dimostra a caro prezzo, pagando lei stessa per la verità.
Il film ricostruisce l'atmosfera pesante che si era innalzata intorno alla sua figura, negli Stati Uniti, in Europa e soprattutto in Israele, dove il libro è uscito solo nel 2002. Mostra tuttavia anche quanto la Arendt sia profondamente radicata a quell'ambiente intellettuale e accademico che la Von Trotta ha
ben delineato; quanto sia legata a quel secolo dei totalitarismi che a più riprese ha tentato di spiegare. Allo stesso tempo il film restituisce la forza straordinaria di questa donna, il suo coraggio, la sua attualità. Perciò dispiace che in Italia siano stati solo in pochi a vederlo. Un cinema come questo dovrebbe circolare nelle scuole, passare nelle televisioni, arrivare insomma ad un grande pubblico, ed ai ragazzi soprattutto, a quella platea di studenti a cui la Arendt più volte si rivolge nel film. A loro, più che ad ogni altro ha ancora molto da dire.
di Aretina Bellizzi
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recensioni
The Wolf of Wall Street: pro e contro
The Wolf of Wall Street
di Martin Scorsese
con Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Matthew Mcconaughey, Margot Robbie, Kyle Chandler, Rob Reiner
Usa, 2023
genere, commedia, drammatico
durata, 179'
di Martin Scorsese
con Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Matthew Mcconaughey, Margot Robbie, Kyle Chandler, Rob Reiner
Usa, 2023
genere, commedia, drammatico
durata, 179'
Jordan Belford è stato un broker americano che divenne milionario a suon di truffe allo stato ed ai risparmiatori americani. Il film narra della sua rapida ascesa, precedentemente ripercorsa in un libro autobiografico.
Martin Scorsese, dopo il poco convincente “Hugo Cabret”, torna sugli schermi con una storia assurda e per tanto ostica da raccontare. Si capisce ben presto che gli ostacoli vengono superati facilmente dalla crew del glorioso regista americano. Fattori complici sono una sceneggiatura perfettamente collaudata e spesso imprevedibile, come restano imprevedibili i movimenti della macchina da presa che partecipano ad una regia sfarzosa ed autoritaria; e poi ci sono i grandi attori: Jonah Hill diviene spalla perfetta di un Di Caprio in stato di grazia e sopra le righe (questa volta si spera che la nomination non sia solo un’illusione). Il tutto è amalgamato e sostenuto da un incedere ritmico esaltante e da una colonna sonora stravagante che va da Umberto Tozzi alle stupende melodie create a suon di pugni sul petto, come a richiamare l’elemento primitivo e scimmiesco che domina la giungla abitata dagli uomini dell’alta finanza.
Attraverso la storia di uno dei più grandi truffatori d’America, Scorsese porta a galla il marcio del sistema economico americano come microcosmo del disfacimento occidentale che questo stesso sistema ha paradossalmente creato, ma tenendolo in parallelo col punto di vista dell’essere umano e dei suoi difetti. Il Jordan Belfort uomo è metafora del solito, degradato ed illusorio sogno americano, ed il nuovo capolavoro di Scorsese urla a squarciagola: “FUCK YOU U.S.A.”.
di Alberto Romagnoli
Diverse le chiavi di lettura per interpretare
l'ultimo
lavoro di Martin Scorsese. La prima, quella più prosaica, è quella di
un'opera realizzata per interposta persona, commissionatagli dal fido
DiCaprio, ansioso,
pare, di portare sullo schermo la storia di Jordan Belfort, il brooker
di Wall
Street assurto a massima fama per i favolosi guadagni ottenuti derubando
migliaia di risparmiatori americani. La seconda, non necessiariamente in
contrasto con la precedente, potrebbe risalire all'interesse del regista
intento a costruire un enciclopedia per immagini di alcuni dei momenti
più importanti della Storia nazionale. Impresa questa iniziata qualche
tempo fa con "Gangs of New
York" e poi proseguita nel ritratto di Howard Hughes e dell'america a
cavallo tra i '20 ed i '50 in "The Aviator". Ed ancora la possibiltà di
lavorare nuovamente con Leonardo di Caprio, icona del suo cinema più
recente, ed
ambasciatore presso il pubblico in fiore del suo infinito talento. Un
connubio che nel corso del tempo ha assottigliato le differenze del
sodalizio, a vantaggio del più giovane,
ormai vero e proprio motore ispiratore del
regista italo americano. In quest'ottica "The Wolf of Wall Street"
sembra portare a compimento una fusione a freddo che offre a Di Caprio
l'occasione per un one man show di straordinario minutaggio (180') che permette all'attore di sfoderare l'intero
repertorio, con un registro espressivo che rispecchiando quello del film
oscilla continuamente tra l'orrido ed il divertito, con scene di un certo
coraggio per gli standard hollywoodiani - ci riferiamo a quelle che prendono in
considerazione gli orifizi propri ed altrui- alternate ad intere sequenze che strizzano
l'occhio a Tarantino nelle interminabili discussioni a base di nonsense-
ed altre ancora, soprattutto quelle che vedono Jordan Belfort arringare
i
suoi accoliti, in cui le espressioni della faccia ed il movimento della
testa
rimandano direttamente al modi da padrino dell'inimitabile De Niro, dei
cui personaggi interpretati per Scorsese quello di Belfort, nella sua
mancanza di scrupoli, sembra lontano epigono.
di nickoftime
domenica, gennaio 26, 2014
How I Live Now
How I Live Now
di Kevin McDonald
con Sairse Ronan, Tom Holland,George McKay
Gran Bretagna, 2013
genere, drammatico
durata, 101
La sbornia del successo e' difficile da smaltire. Ci sta provando con fatica Kevin McDonald, enfant prodige del cinema inglese destabilizzato dalla doppietta realizzata nell'arco di pochi anni, dapprima vincendo l'Oscar per il miglior documentario per "One Day in September", e poi ripetendosi per interposta persona attraverso Forest Withaker premiato come miglior attore protagonista per la parte di nel suo "L'ultimo re di Scozia". A confondere le acque prima e dopo, una serie di produzioni dagli esiti incerti, equamente divise tra prodotti di genere (State of Play, Eagle) e film documentari (Marley) che hanno permesso di rimanere nel giro che conta, senza però concedere favorì sul raggiungimento di un parnaso che molti avevano azzardato a pronosticargli. "How I Live Now" presentandosi con caratteristiche spurie mette insieme ambedue le tendenze. La storia infatti sembra il classico racconto di formazione a tematica amorosa, che però ad un certo punto si trasforma in qualcos'altro per le conseguenze di un esplosione nucleare che fa da prologo ad un teatro di guerra dai risvolti talmente catastrofici, da abbracciare quel filone millenaristico che negli ultimi anni ha fatto proseliti ad ogni latitudine cinematografica.
A fare le spese nella vicenda in questione una coppia di adolescenti, disfunzionali quel tanto che basta a catturare l'empatia del pubblico coetaneo, ed una famiglia dimezzata per l'assenza del padre, ma allegramente ravvivata dalla banda di mocciosi che completa le fila di un gruppo umano a dir poco stravagante.
Contrariamente alla moda dilagante del cinema mainstream che costruisce il tessuto emotivo con overdosi informative, McDonald preferisce i suggerimenti alle spiegazioni, in un modo che sembra più attento allo stato d'animo dei personaggi che allo sviluppo di un intreccio, modellato nella seconda parte, quella che segue alla diaspora post nucleare, sulla cronaca di un' anabasi perigliosa ma rettilinea. Per farlo il regista scozzese utilizza uno stile frammentario, che alterna impressionismo fotografico a digressioni da combact film. La dote migliore e' quella di riuscire a ricreare ciò che di irrazionale ed oscuro si nasconde dietro la bestialità del comportamento umano. E poi la dimensione di un innamoramento che si concede un romanticismo mai corrotto da compiacimenti deteriori e melensi. A sul discapito, e qui torna quanto accennato in premessa, il senso di incompletezza che trascina il film ad una conclusione emozionalmente frettolosa, e per certi versi abbastanza scontata nel costringere il caos ad un ordine conservativo di stampo hollywoodiano. Complice dei momenti di maggior interesse la recitazione acerba ma pulita di Saoirse Ronan, manco a farlo apposta coinvolta in un'amore complicato quasi quanto quello in cui l'avevamo lasciata ai tempi di "Host". A McDonald ed al suo How I Live Now" invece i chiaroscuri di una carriera in via di perfezionamento.
di Kevin McDonald
con Sairse Ronan, Tom Holland,George McKay
Gran Bretagna, 2013
genere, drammatico
durata, 101
La sbornia del successo e' difficile da smaltire. Ci sta provando con fatica Kevin McDonald, enfant prodige del cinema inglese destabilizzato dalla doppietta realizzata nell'arco di pochi anni, dapprima vincendo l'Oscar per il miglior documentario per "One Day in September", e poi ripetendosi per interposta persona attraverso Forest Withaker premiato come miglior attore protagonista per la parte di nel suo "L'ultimo re di Scozia". A confondere le acque prima e dopo, una serie di produzioni dagli esiti incerti, equamente divise tra prodotti di genere (State of Play, Eagle) e film documentari (Marley) che hanno permesso di rimanere nel giro che conta, senza però concedere favorì sul raggiungimento di un parnaso che molti avevano azzardato a pronosticargli. "How I Live Now" presentandosi con caratteristiche spurie mette insieme ambedue le tendenze. La storia infatti sembra il classico racconto di formazione a tematica amorosa, che però ad un certo punto si trasforma in qualcos'altro per le conseguenze di un esplosione nucleare che fa da prologo ad un teatro di guerra dai risvolti talmente catastrofici, da abbracciare quel filone millenaristico che negli ultimi anni ha fatto proseliti ad ogni latitudine cinematografica.
A fare le spese nella vicenda in questione una coppia di adolescenti, disfunzionali quel tanto che basta a catturare l'empatia del pubblico coetaneo, ed una famiglia dimezzata per l'assenza del padre, ma allegramente ravvivata dalla banda di mocciosi che completa le fila di un gruppo umano a dir poco stravagante.
Contrariamente alla moda dilagante del cinema mainstream che costruisce il tessuto emotivo con overdosi informative, McDonald preferisce i suggerimenti alle spiegazioni, in un modo che sembra più attento allo stato d'animo dei personaggi che allo sviluppo di un intreccio, modellato nella seconda parte, quella che segue alla diaspora post nucleare, sulla cronaca di un' anabasi perigliosa ma rettilinea. Per farlo il regista scozzese utilizza uno stile frammentario, che alterna impressionismo fotografico a digressioni da combact film. La dote migliore e' quella di riuscire a ricreare ciò che di irrazionale ed oscuro si nasconde dietro la bestialità del comportamento umano. E poi la dimensione di un innamoramento che si concede un romanticismo mai corrotto da compiacimenti deteriori e melensi. A sul discapito, e qui torna quanto accennato in premessa, il senso di incompletezza che trascina il film ad una conclusione emozionalmente frettolosa, e per certi versi abbastanza scontata nel costringere il caos ad un ordine conservativo di stampo hollywoodiano. Complice dei momenti di maggior interesse la recitazione acerba ma pulita di Saoirse Ronan, manco a farlo apposta coinvolta in un'amore complicato quasi quanto quello in cui l'avevamo lasciata ai tempi di "Host". A McDonald ed al suo How I Live Now" invece i chiaroscuri di una carriera in via di perfezionamento.
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venerdì, gennaio 24, 2014
Tutto sua madre
Tutto sua madre
di Guillaume Gallienne
con Guillaume Gallienne, Andrè Marcon, Francoise Fabian
Francia, 2013
genere, commedia
durata, 85'
Senza perdere tempo Guillaume Gallienne stabilisce i confini del suo cinema e il senso della rappresentazione nella prima sequenza, dove l'urgenza dell'esordiente fa il paio con la chiarezza dell'enunciato. E così dopo un assolo che somiglia ad una confessione, davanti a noi si rivelano le forme di una proscenio immerso nel buio, ed illuminato quel tanto che basta da far capire che ci troviamo nel bel mezzo di una performance teatrale. Realta' e fantasia coincidono nella figura dell'artista che di spalle e rivolto al pubblico racconta se stesso ed un'esperienza che forse gli appartiene. Siamo dalle parti di un film come "Lenny" di Bob Fosse, anche se della cinebiografia interpretata da Dustin Hoffmann, quella dell'artista francese mantiene solo la struttura formale ed il percorso narrativo circolare, con i ricordi del protagonista che torna al passato, e lo ripercorre fino a richiuderelo sul punto di partenza. Messa in questo modo "Tutto sua madre" potrebbe sembrare un giochino intellettuale e sofisticato, ed in parte lo è, perché le situazioni proposte dalla storia di Guillaume innamorato della madre al punto di imitarne la femminilità diventano anche l'occasione per sciorinare un talento debordante. E così attribuendo al ragazzo un'omosessualità che famiglia ed amici ritengono scontata, il film si diverte a realizzare una serie di situazioni surreali e tragicomiche che prendono spunto dall'incerta identità sessuale del protagonista e dall'ossessione per la figura materna.
Monopolizzato dall'esuberanza attoriale di Gallienne che nel film si riserva anche il ruolo della madre al fine di garantire un gioco di specchi che si rivelerà decisivo nel tirare le file delle implicazioni psicologiche connesse con l'inquietante legame, "Tutto sua madre" e' una commedia sui generis perché l'esplorazione di un territorio ancestrale ed impalpabile come quello dei rapporti tra figli genitori, oltre a risultare da un'instancabile varietà di situazioni tragicomiche, trova un eccezionale corrispettivo sul piano visivo, con movimenti della mdp che simulano il linguaggio dell'anima, ed attraverso una scenografia che nella diversa saturazione degli ambienti testimonia gli scarti emozionali del personaggio. Galliene lavora sulle sfumature e sui dettagli, ma fa ridere di gusto affrontando argomenti delicati e talvolta scabrosi con sublime leggerezza e pudica profondità. E seppure alcuni passagi si lasciano scappare un compiacimento che alimenta il sospetto di una certa vacuità, non si può non salutare "Tutto sua madre" con un misto di sorpresa e di meraviglia.
di Guillaume Gallienne
con Guillaume Gallienne, Andrè Marcon, Francoise Fabian
Francia, 2013
genere, commedia
durata, 85'
Senza perdere tempo Guillaume Gallienne stabilisce i confini del suo cinema e il senso della rappresentazione nella prima sequenza, dove l'urgenza dell'esordiente fa il paio con la chiarezza dell'enunciato. E così dopo un assolo che somiglia ad una confessione, davanti a noi si rivelano le forme di una proscenio immerso nel buio, ed illuminato quel tanto che basta da far capire che ci troviamo nel bel mezzo di una performance teatrale. Realta' e fantasia coincidono nella figura dell'artista che di spalle e rivolto al pubblico racconta se stesso ed un'esperienza che forse gli appartiene. Siamo dalle parti di un film come "Lenny" di Bob Fosse, anche se della cinebiografia interpretata da Dustin Hoffmann, quella dell'artista francese mantiene solo la struttura formale ed il percorso narrativo circolare, con i ricordi del protagonista che torna al passato, e lo ripercorre fino a richiuderelo sul punto di partenza. Messa in questo modo "Tutto sua madre" potrebbe sembrare un giochino intellettuale e sofisticato, ed in parte lo è, perché le situazioni proposte dalla storia di Guillaume innamorato della madre al punto di imitarne la femminilità diventano anche l'occasione per sciorinare un talento debordante. E così attribuendo al ragazzo un'omosessualità che famiglia ed amici ritengono scontata, il film si diverte a realizzare una serie di situazioni surreali e tragicomiche che prendono spunto dall'incerta identità sessuale del protagonista e dall'ossessione per la figura materna.
Monopolizzato dall'esuberanza attoriale di Gallienne che nel film si riserva anche il ruolo della madre al fine di garantire un gioco di specchi che si rivelerà decisivo nel tirare le file delle implicazioni psicologiche connesse con l'inquietante legame, "Tutto sua madre" e' una commedia sui generis perché l'esplorazione di un territorio ancestrale ed impalpabile come quello dei rapporti tra figli genitori, oltre a risultare da un'instancabile varietà di situazioni tragicomiche, trova un eccezionale corrispettivo sul piano visivo, con movimenti della mdp che simulano il linguaggio dell'anima, ed attraverso una scenografia che nella diversa saturazione degli ambienti testimonia gli scarti emozionali del personaggio. Galliene lavora sulle sfumature e sui dettagli, ma fa ridere di gusto affrontando argomenti delicati e talvolta scabrosi con sublime leggerezza e pudica profondità. E seppure alcuni passagi si lasciano scappare un compiacimento che alimenta il sospetto di una certa vacuità, non si può non salutare "Tutto sua madre" con un misto di sorpresa e di meraviglia.
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giovedì, gennaio 23, 2014
Her
Her
di Spike Jonze
con Joaquin Phoenix, Amy Adams, Rooney Mara
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 120'
Il lavoro di Theodore consiste nello scrivere lettere personali per conto di altri, compito svolto con efficacia e a tratti con partecipazione diretta. Una nuova tecnologia consente a dei sistemi operativi di avere un’intelligenza di base artificiale che rasenta quella umana, cambiando la vita di Theodore.
Spike Jonze parte da qui per costruire una pellicola ostica e complessa da rendere efficace, ma ci riesce nel migliore dei modi. Autonoma la scrittura della sceneggiatura (fin ora si era affidato all’estro geniale di Charlie Kaufman) il regista di “Essere John Malkovich” integra l’eleganza della storia d’amore con la sua natura visionaria, ed il risultato è eccezionale. La maggior parte dei dialoghi avvengono tra il protagonista e la voce del computer, dove il volto e le espressioni di Phoenix reggono in toto il peso mimico della conversazione praticamente annichilendo i contro-campi ed esaltando una prestazione attoriale da inserire nella sfera del sublime, come sublime è il lavoro che fa sulla voce Scarlett Johanson, efficace, drammatica e sensuale senza che compaia mai nel film. La costruzione drammatica è grandiosamente orchestrata e ben amalgamata anche in siparietti comici (come le scene del videogioco/ologramma). Dispiace, anche se c’era da aspettarselo, che l’interpretazione di Joaquin Phoenix sia stata per l’ennesima volta snobbata dall’Accademy.
Senza giustamente muovere critica alla società tecnologica nella quale siamo immersi, il fondere fantascienza e melodramma con così tanta naturalezza lascia spiazzati e senza parole, impossibile non commuoversi al termine di una visione così assurda quanto intima. Scevro da inutili virtuosismi o scenografie barocche Jonze rende credibile un futuro (magari nemmeno troppo lontano) in cui l’essere umano non può rinunciare all’emozione e al sentimento, regalandoci un capolavoro immenso, sicuramente tra i migliori film degli ultimi dieci anni.
di Antonio Romagnoli
di Spike Jonze
con Joaquin Phoenix, Amy Adams, Rooney Mara
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 120'
Il lavoro di Theodore consiste nello scrivere lettere personali per conto di altri, compito svolto con efficacia e a tratti con partecipazione diretta. Una nuova tecnologia consente a dei sistemi operativi di avere un’intelligenza di base artificiale che rasenta quella umana, cambiando la vita di Theodore.
Spike Jonze parte da qui per costruire una pellicola ostica e complessa da rendere efficace, ma ci riesce nel migliore dei modi. Autonoma la scrittura della sceneggiatura (fin ora si era affidato all’estro geniale di Charlie Kaufman) il regista di “Essere John Malkovich” integra l’eleganza della storia d’amore con la sua natura visionaria, ed il risultato è eccezionale. La maggior parte dei dialoghi avvengono tra il protagonista e la voce del computer, dove il volto e le espressioni di Phoenix reggono in toto il peso mimico della conversazione praticamente annichilendo i contro-campi ed esaltando una prestazione attoriale da inserire nella sfera del sublime, come sublime è il lavoro che fa sulla voce Scarlett Johanson, efficace, drammatica e sensuale senza che compaia mai nel film. La costruzione drammatica è grandiosamente orchestrata e ben amalgamata anche in siparietti comici (come le scene del videogioco/ologramma). Dispiace, anche se c’era da aspettarselo, che l’interpretazione di Joaquin Phoenix sia stata per l’ennesima volta snobbata dall’Accademy.
Senza giustamente muovere critica alla società tecnologica nella quale siamo immersi, il fondere fantascienza e melodramma con così tanta naturalezza lascia spiazzati e senza parole, impossibile non commuoversi al termine di una visione così assurda quanto intima. Scevro da inutili virtuosismi o scenografie barocche Jonze rende credibile un futuro (magari nemmeno troppo lontano) in cui l’essere umano non può rinunciare all’emozione e al sentimento, regalandoci un capolavoro immenso, sicuramente tra i migliori film degli ultimi dieci anni.
di Antonio Romagnoli
Film in sala da Giovedì 23 Gennaio 2014
THE WOLF OF WALL STREET
di Martin Scorsese
con Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey
2013 USA - 179 min - Drammatico
LAST VEGAS
di Jon Turteltaub
con Robert De Niro, Morgan Freeman, Michael Douglas, Kevin Kline
2013 USA - Commedia
TUTTA COLPA DI FREUD
di Paolo Genovese
con Marco Giallini, Anna Foglietta, Vittoria Puccini, Claudia Gerini
Vinicio Marchioni, Laura Adriani, Daniele Liotti, Alessandro Gassman
2014 ITA - Commedia
TUTTO SUA MADRE
Les Garcons et Guillaume, à table
di Guillaume Gallienne
con Guillaume Gallienne, Diane Kruger, Carole Brenner, Yvon Back
2013 FRA - 85 min - Commedia
I, FRANKENSTEIN
di Stuart Beattie
con Aaron Eckhart, Bill Nighy, Yvonne Strahovski, Miranda Otto
2014 USA - Drammatico
A SPASSO CON I DINOSAURI - 3D
Walking with dinosaurs
di Neil Nightingale
2013 GB/AUS/USA - Azione
RED KROKODIL
di Domiziano Cristopharo
con Brock Madson, Valerio Cassa, Simone Destrero, Viktor Karam
2012 ITA - 82 min - Drammatico
TANGO LIBRE
di Frederic Fonteyne
con François Damiens, Anne Paulicevich, Sergi López, Jan Hammenecker
2012 BEL/LUX/FRA - 98 min - Drammatico
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film in uscita 2014
mercoledì, gennaio 22, 2014
Nebraska
Nebraska
di Alexander Payne
con Will Forte, Stacy Keach, June Squibb, Bruce Dern
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 110'
Non c'è alcun dubbio sul fatto che una delle caratteristiche principali del cinema di Alexander Payne sia quello di essere "defilato" e poco propenso a dare nell'occhio. Una constatazione che lungi dall'esaurire la complessità di una poetica ricca e stratificata contiene il pregio di modulare lo sguardo dello spettatore rispetto ad una materia sfuggente, quasi inerte nella sua implacabile evidenza, e affidata nel suo divenire a piccoli e quasi impercettibili scarti emotivi, simili a quelli che trapelano con fatica dallo sguardo sospeso e lontano di Woody Grant, l'anziano protagonista di "Nebraska", ultimo film di Alexander Payne, presentato in concorso nell'edizione appena conclusa del Festival di Cannes. Prima di quel volto, su cui il regista tornerà con insistenza nel corso della storia si impone la visione di un america a doppia velocità, che Payne ci presenta in campo lungo nella sequenza d'apertura, con la modernità in continuo divenire sintetizzata dalle macchine che si succedono indifferenti e sfreccianti lungo la statale percorsa a passo claudicante dall'anziano signore chiamato a rappresentare l'altra faccia del paese, quella destinata a rimanere indietro rispetto al nuovo che avanza.
Per rappresentarla Payne si affida al sogno di una vincita impossibile, e alla convinzione di Woody Grant di averla realizzata dopo aver letto il volantino di una lotteria del Nebraska. Deciso a riscuoterne il premio, Grant si mette in viaggio in compagnia del figlio David che vorrebbe approfittare dell'occasione per conoscere meglio l'attempato genitore.
Se la trama di "Nebraska" ricalca nella struttura on the road precedenti famosi del cinema americano come quelli di "Una storia vera" (1999) di David Lynch, e "A proposito di Schmidt" (2002) dello stesso Payne, in cui il motivo del viaggio si trasforma nel congedo esistenziale di personaggi avanti con gli anni, e allo stesso tempo diventa la ricognizione sullo stato di salute del paese, bisogna dire che il bollettino del "capitano" Payne non è dei più confortanti. Girato in un bianco e nero elegante e pulito, "Nebraska" si dipana attraverso una serie di quadretti esistenziali e di situazioni singolari (memorabile la scena in cui Grant insieme al fratello che li ha raggiunti decidono di saldare l'antico torto patito dal genitore facendolo però pagare alle persone sbagliate) ambientate ad Hawtorne, cittadina natale del protagonista, dove, in un'immersione agrodolce e vagamente maliconica, Woody si ritrova a tu per tu con parenti dimenticati e amici di gioventù. Una situazione apparentemente idilliaca che Payne si diverte a sabotare con intarsi invisibili ma efficaci nel denudare alcuni dei miti della cultura americana: dall'istituzione familiare, dipinta come un luogo anaffettivo e disturbante - basti pensare alla petulante consorte di Woody sempre pronta a lamentarsi e a parlare male degli altri- al sogno americano, depotenziato per il fatto di sapere che il biglietto vincente esiste solo nella testa del protagonista, e sbeffeggiato attraverso la fascinazione dei compaesani di Woody, ignari della verità e disposti a dimenticare le antiche ruggini pur di condividere le fortune del figliol prodigo, per non dire della virilità machile, annichilita da rapporti inesistenti (quello di David, lasciato dalla compagna ad inizio film) o totalmente disastrosi, come accade al protagonista, sposato ad una donna che forse non ha mai amato.
La bravura di Payne è quella di mantenersi in equilibrio tra il riso e il pianto, e di riuscire con tocco lieve e delicato a far emergere una poetica del quotidiano illuminata dal riscatto di un'umanità donchisciottesca, mortificata e poi risollevata, come capita a Woody in una delle ultime sequenze, quando, demoralizzato dalla consapevolezza della mancata vincita si ritrova poco dopo, rinfrancato e felice, alla guida della jeep che il figlio gli regala per compensare lo smacco. Con l'automezzo al posto del cavallo, e Woody nella parte John Wayne, "Nebraska" fa anche in tempo ad omaggiare il cinema e in particolare il western, con l'uomo che sfila lungo la via principale di Hawtorne, sotto lo sguardo ammirato e incredulo dei suoi cittadini. Interpretato da un Bruce Dern formato actor's studio, impegnato in un ruolo che sarebbe piaciuto ai registi della sua generazione, "Nebraska" è un meccanismo perfetto ma non per tutti. L'assenza di glamour degli attori ma anche dell'argomento, il ritmo pacato e quasi immobile, la comicità deadpan alla maniera di Jim Jarmusch, e infine un'ambientazione laterale e periferica sono una miscela poco adatta alla grande platea. Siamo certi però che imitando le vite dei suoi personaggi anche quella del film troverà il modo di emanciparsi da premesse così fosche. Magari durante la notte degli oscar, magari nella categoria del migliore attore protagonista.
(pubblicato su ondacinema.it)
di Alexander Payne
con Will Forte, Stacy Keach, June Squibb, Bruce Dern
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 110'
Non c'è alcun dubbio sul fatto che una delle caratteristiche principali del cinema di Alexander Payne sia quello di essere "defilato" e poco propenso a dare nell'occhio. Una constatazione che lungi dall'esaurire la complessità di una poetica ricca e stratificata contiene il pregio di modulare lo sguardo dello spettatore rispetto ad una materia sfuggente, quasi inerte nella sua implacabile evidenza, e affidata nel suo divenire a piccoli e quasi impercettibili scarti emotivi, simili a quelli che trapelano con fatica dallo sguardo sospeso e lontano di Woody Grant, l'anziano protagonista di "Nebraska", ultimo film di Alexander Payne, presentato in concorso nell'edizione appena conclusa del Festival di Cannes. Prima di quel volto, su cui il regista tornerà con insistenza nel corso della storia si impone la visione di un america a doppia velocità, che Payne ci presenta in campo lungo nella sequenza d'apertura, con la modernità in continuo divenire sintetizzata dalle macchine che si succedono indifferenti e sfreccianti lungo la statale percorsa a passo claudicante dall'anziano signore chiamato a rappresentare l'altra faccia del paese, quella destinata a rimanere indietro rispetto al nuovo che avanza.
Per rappresentarla Payne si affida al sogno di una vincita impossibile, e alla convinzione di Woody Grant di averla realizzata dopo aver letto il volantino di una lotteria del Nebraska. Deciso a riscuoterne il premio, Grant si mette in viaggio in compagnia del figlio David che vorrebbe approfittare dell'occasione per conoscere meglio l'attempato genitore.
Se la trama di "Nebraska" ricalca nella struttura on the road precedenti famosi del cinema americano come quelli di "Una storia vera" (1999) di David Lynch, e "A proposito di Schmidt" (2002) dello stesso Payne, in cui il motivo del viaggio si trasforma nel congedo esistenziale di personaggi avanti con gli anni, e allo stesso tempo diventa la ricognizione sullo stato di salute del paese, bisogna dire che il bollettino del "capitano" Payne non è dei più confortanti. Girato in un bianco e nero elegante e pulito, "Nebraska" si dipana attraverso una serie di quadretti esistenziali e di situazioni singolari (memorabile la scena in cui Grant insieme al fratello che li ha raggiunti decidono di saldare l'antico torto patito dal genitore facendolo però pagare alle persone sbagliate) ambientate ad Hawtorne, cittadina natale del protagonista, dove, in un'immersione agrodolce e vagamente maliconica, Woody si ritrova a tu per tu con parenti dimenticati e amici di gioventù. Una situazione apparentemente idilliaca che Payne si diverte a sabotare con intarsi invisibili ma efficaci nel denudare alcuni dei miti della cultura americana: dall'istituzione familiare, dipinta come un luogo anaffettivo e disturbante - basti pensare alla petulante consorte di Woody sempre pronta a lamentarsi e a parlare male degli altri- al sogno americano, depotenziato per il fatto di sapere che il biglietto vincente esiste solo nella testa del protagonista, e sbeffeggiato attraverso la fascinazione dei compaesani di Woody, ignari della verità e disposti a dimenticare le antiche ruggini pur di condividere le fortune del figliol prodigo, per non dire della virilità machile, annichilita da rapporti inesistenti (quello di David, lasciato dalla compagna ad inizio film) o totalmente disastrosi, come accade al protagonista, sposato ad una donna che forse non ha mai amato.
La bravura di Payne è quella di mantenersi in equilibrio tra il riso e il pianto, e di riuscire con tocco lieve e delicato a far emergere una poetica del quotidiano illuminata dal riscatto di un'umanità donchisciottesca, mortificata e poi risollevata, come capita a Woody in una delle ultime sequenze, quando, demoralizzato dalla consapevolezza della mancata vincita si ritrova poco dopo, rinfrancato e felice, alla guida della jeep che il figlio gli regala per compensare lo smacco. Con l'automezzo al posto del cavallo, e Woody nella parte John Wayne, "Nebraska" fa anche in tempo ad omaggiare il cinema e in particolare il western, con l'uomo che sfila lungo la via principale di Hawtorne, sotto lo sguardo ammirato e incredulo dei suoi cittadini. Interpretato da un Bruce Dern formato actor's studio, impegnato in un ruolo che sarebbe piaciuto ai registi della sua generazione, "Nebraska" è un meccanismo perfetto ma non per tutti. L'assenza di glamour degli attori ma anche dell'argomento, il ritmo pacato e quasi immobile, la comicità deadpan alla maniera di Jim Jarmusch, e infine un'ambientazione laterale e periferica sono una miscela poco adatta alla grande platea. Siamo certi però che imitando le vite dei suoi personaggi anche quella del film troverà il modo di emanciparsi da premesse così fosche. Magari durante la notte degli oscar, magari nella categoria del migliore attore protagonista.
(pubblicato su ondacinema.it)
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martedì, gennaio 21, 2014
La mia classe
La mia classe
di Daniele Gaglianone
con Valerio Mastandrea
Italia, 2014
genere, drammatico
durata,
di Daniele Gaglianone
con Valerio Mastandrea
Italia, 2014
genere, drammatico
durata,
È una linea sempre più netta quella che attraversa e
divide buona parte della produzione cinematografica italiana. Quasi
fosse il riflesso di una compagine sociale spaccata a metà dal
progressivo divario che divide i ricchi dai poveri, il cinema italiano
sembra assorbire la disfunzione prima ancora di girare, con una serie di
regole (referring system, tax credit) che ne
sanciscono all'origine l'insanabile dicotomia. Da una parte agglomerati
di investimenti finanziari, colletti bianchi ed indagini di mercato
pronti a ragionare in termini di numeri e di profitto, dall'altra
guerrilleros all'arma bianca decisi a resistere per il trionfo dei
principi e della idee. Uno scenario contraddittorio e con poche
sfumature, nel quale però pur con tutte le difficoltà del caso si stanno
facendo strada una serie di coraggiosi decisi a non mollare.
Antesignani di un onda lunga che ha visto recentemente alla ribalta
autori indipendenti come Gianfranco Rosi, Roberto Minervini e non ultimo
Ciro De Caro, torna sugli schermi una delle coppie più collaudate del
nostro movimento, parliamo di Daniele Gaglianone e del suo storico
produttore Gianluca Arcopinto, con un film, "La mia classe" che si
affaccia senza sconti su uno degli temi più caldi e più problematici del
nostro paese e non solo, quello dell'integrazione e della tolleranza,
raccontando le giornate scolastiche di un maestro alle prese con una
classe di studenti sui generis. A frequentarne le lezioni è infatti un
gruppo di persone eterogeneo, uomini e donne di età ed esperienze
diverse giunte in Italia nella speranza di un'esistenza migliore.
L'apprendimento della lingua insieme al riconoscimento che ne deriva è
il punto di partenza necessario per ottenere il permesso di soggiorno,
ma non solo, perchè quell'angolo di mondo funziona anche come un vaso
comunicante di sentimenti ed esperienze spesso indicibili, rivissute
attraverso il racconto che gli allievi decidono di condividere con il
loro mentore. La comunione di spirito è però interrotta dalla cronaca
quando uno degli allievi è costretto a lasciare la scuola per il mancato
rinnovo dei termini di soggiorno. Un fulmine a ciel sereno che fa
tornare a galla vecchi fantasmi, e mette il maestro di fronte alle
responsabilità di una società incapace di prendersi cura della sua parte
più fragile. Gaglianone decide di affrontare la questione partendo dal
basso, preoccupandosi, come sempre ha fatto, di dar voce a chi non ne ha
mai avuta. In questo caso al gruppo di extracomunitari chiamati ad
interpretare se stessi in un gioco di specchi tra finzione e realtà a
cui Valerio Mastandrea si presta con il carico di umanità ed empatia che
l'understatement recitativo gli garantisce, e che in questo
caso era indispensabile per sintonizzare il suo personaggio al resto del
gruppo.
Con questi presupposti "La mia classe" diventa un invito a
ritornare sui propri passi-la sequenza d'apertura sviluppata sul filo
del tempo con i pensieri del protagonista doppiati dal percorso a
ritroso effettuato in direzione opposta da quella da cui era
venuto-riscrivendo la Storia dal punto di vista di chi l'ha subita,
seguendo l'esempio dell'insegnante che invita gli allievi a completare
il pensiero che ha scritto sulla lavagna. E poi, decostruendo le varie
fasi dell'osmosi con il paese straniero, attraverso la proposizione di
una serie di lezioni che nella struttura narrativa dell'opera funzionano
come altrettanti capitoli del libro che prende forma sotto i nostri
occhi. Argomenti (la casa, l'integrazione, i diritti ed i doveri) che
danno modo a Gaglianone di mettere davanti alla mdp una
coralità di pensieri ed esperienze ora divertite, quando si tratta di
correggere lo strafalcione del compagno di banco, ora drammatiche, nel
momento in cui a venir evocata sono i trascorsi di una vita lontana ma
ancora presente nella voce rotta dal pianto di dolore per quello che non
si riesce neanche a pronunciare (la ragazza iraniana che non riesce a
proferir parola) oppure che prende il volto nel ricordo del corpo senza
vita dell'amico caduto per affermare i diritti di un intero popolo
(quello egiziano della primavera araba).
Consapevole della
retorica e delle ipocrisie che si nascondono dietro il soggetto che
prende in considerazione Daniele Gaglianone si prende i suoi rischi, non
solo nella scelta di realizzare un film che si svolge dentro un aula
scolastica ed intepretato da attori sociali - da Vittorio De Seta con il
suo "Diario di un maestro" a Laurent Cantet di "La classe - Entre le
murs" l'elenco di chi l'ha preceduto è lungo e prestigioso - ma
soprattutto in quello di esporsi in prima persona quando si tratta di
giustificare agli studenti le ragioni di una legge che impedendo ad uno
di loro di frequentare la scuola mette sullo stesso piano vittime e
carnefici. Ed è proprio questa mancanza di confine tra campo e fuori
campo, tra ciò che è in scena e quello che ne dovrebbe restare fuori che
permette al suo cinema di esprimere in maniera concreta la ribellione
nei confronti di un sistema che non riesce a condividere. L'effetto è
straniante con sequenze che assomigliano a making of in cui i fonici
intenti a sistemare i microfoni si alternano agli assistenti che mettono
a punto gli ultimi dettagli ed una morte simulata preceduta da dettagli
che provocano il riso di chi sarà costretto a fingerla per la prima
volta. Sulle prime si può rimanere interdetti ma alla fine a prevalere
sono la verità dei contenuti e la sincerità di un opera suggellata dal j'accuse
di Valerio Mastandrea straordinario nella potenza del monologo finale
che tira le fila del discorso del film e di un personaggio che ad un
certo punto si ritroverà a vivere la condizione di fragilità e debolezza
dei suoi interlocutori. È nella capacità dell'attore di romano di
diventare una cosa sola con la materia narrata che "La mia classe"
riesce a trasformare il cinema in un documento di bruciante attualità.
(pubblicata su ondacinema.it)
lunedì, gennaio 20, 2014
Lo sguardo di Satana-Carrie
Lo sguardo di Satana-Carrie
di Kimberly Peirce
con Chloë Grace Moretz, Julianne Moore
Usa 2013
genere, horror
durata, 100'
Quando, nel 1976 Brian De Palma decide di girare il suo primo film horror l'America si trova alle prese con una serie di rivolgimenti che stanno mettendo in crisi il suo innato ottimismo. Uscita con le osse rotte dall'inferno del Vietnam, ed alle prese con la conseguenze dello scandalo Watergate che ha istillato più di un dubbio sulla perfettibilità del modello presidenziale e democratico, gli Stati Uniti sono attraversati da una vento di ribellione contro ogni forma di ordine precostituito: una rivoluzione che interessa lo Stato ma soprattutto, per le ricadute emotive, l'istituzione familiare che messe in soffita le virtù edeniche e taumaturgiche appare sempre di più come il luogo da cui nasce e si diffonde il peccato originale. Consapevole o meno, "Carrie-Lo sguardo di Satana" sembra farsi carico sul piano simbolico di queste istanze, trasfigurando la perdita dell'innocenza della nazione nella parabola esistenziale della giovane protagonista, costretta ad una vita di privazioni ed isolamento da una madre bigotta e soppressiva, e sconvolta dai segnidi una pubertàaccompagnata dalla manifestazione di un potere (la telecinesi) straordinario ed insieme terribile.
Del film originale il remake diretto da Kimberly Peirce, pur con i dovuti aggiornamenti riprende praticamente tutto. A fare la differenza in questa come in analoghe operazioni è la mancanza del contesto sociale e culturale da cui nasceva il modello originale, e quindi delle suggestioni e dell'immaginario che allora erano stati capaci di lavorare in sinergia con la componente filmica. Orfano di quella spinta il “nuovo” Carrie diventa banale nell'organizzare i presupposti del suo climax spettacolare, soprattutto quando i tratta di delineare le psicologie femminili e la loro morbosa esistenza. Così se il personaggio della madre interpretato da una Julianne Moore oltremodo rigida nelle espressioni facciali rientra in una caratterizzazione routinaria della follia, a mancarci di più è proprio la figura di Carrie, il cui rapporto con la sessualità propria ed altrui, così come l'alienazione di cui è vittima, sono interpretati da Chloë Grace Moretz con una fissità talmente monocorde e caricaturale da non lasciare spazio ad alcuna immaginazione. Una sorpresa al negativo a cui certamente contribuiscono le aspettative nei confronti di un'autrice che si era distinta per l'attenzione ad una femminilità fuori dagli schemi (Boys Don't Cry) e quì invece totalmente omologata agli standard di un qualunque teen movie. Se a questo aggiungiamo la mancanza di pathos della sezione relativa alla presa di contatto con il sovrannaturale da parte della protagonista a cui il film arriva senza alcuna progressione, "Lo sguardo di Satana-Carrie" sta tutto nella parte finale, quella dedicata alla catarsi di una vicenda che nel frattempo non riesce ad accumulare alcuna tensione. Onestamente troppo poco .
di Kimberly Peirce
con Chloë Grace Moretz, Julianne Moore
Usa 2013
genere, horror
durata, 100'
Quando, nel 1976 Brian De Palma decide di girare il suo primo film horror l'America si trova alle prese con una serie di rivolgimenti che stanno mettendo in crisi il suo innato ottimismo. Uscita con le osse rotte dall'inferno del Vietnam, ed alle prese con la conseguenze dello scandalo Watergate che ha istillato più di un dubbio sulla perfettibilità del modello presidenziale e democratico, gli Stati Uniti sono attraversati da una vento di ribellione contro ogni forma di ordine precostituito: una rivoluzione che interessa lo Stato ma soprattutto, per le ricadute emotive, l'istituzione familiare che messe in soffita le virtù edeniche e taumaturgiche appare sempre di più come il luogo da cui nasce e si diffonde il peccato originale. Consapevole o meno, "Carrie-Lo sguardo di Satana" sembra farsi carico sul piano simbolico di queste istanze, trasfigurando la perdita dell'innocenza della nazione nella parabola esistenziale della giovane protagonista, costretta ad una vita di privazioni ed isolamento da una madre bigotta e soppressiva, e sconvolta dai segnidi una pubertàaccompagnata dalla manifestazione di un potere (la telecinesi) straordinario ed insieme terribile.
Del film originale il remake diretto da Kimberly Peirce, pur con i dovuti aggiornamenti riprende praticamente tutto. A fare la differenza in questa come in analoghe operazioni è la mancanza del contesto sociale e culturale da cui nasceva il modello originale, e quindi delle suggestioni e dell'immaginario che allora erano stati capaci di lavorare in sinergia con la componente filmica. Orfano di quella spinta il “nuovo” Carrie diventa banale nell'organizzare i presupposti del suo climax spettacolare, soprattutto quando i tratta di delineare le psicologie femminili e la loro morbosa esistenza. Così se il personaggio della madre interpretato da una Julianne Moore oltremodo rigida nelle espressioni facciali rientra in una caratterizzazione routinaria della follia, a mancarci di più è proprio la figura di Carrie, il cui rapporto con la sessualità propria ed altrui, così come l'alienazione di cui è vittima, sono interpretati da Chloë Grace Moretz con una fissità talmente monocorde e caricaturale da non lasciare spazio ad alcuna immaginazione. Una sorpresa al negativo a cui certamente contribuiscono le aspettative nei confronti di un'autrice che si era distinta per l'attenzione ad una femminilità fuori dagli schemi (Boys Don't Cry) e quì invece totalmente omologata agli standard di un qualunque teen movie. Se a questo aggiungiamo la mancanza di pathos della sezione relativa alla presa di contatto con il sovrannaturale da parte della protagonista a cui il film arriva senza alcuna progressione, "Lo sguardo di Satana-Carrie" sta tutto nella parte finale, quella dedicata alla catarsi di una vicenda che nel frattempo non riesce ad accumulare alcuna tensione. Onestamente troppo poco .
domenica, gennaio 19, 2014
Anita B
Anita B
di Roberto Faenza
con Eline Powell, Robert Sheehan, Andrea Osvart, Antonio Cupo, Nico Mirallegro
Italia, 2013
genere, drammatico
durata, 88
Anita B. “non è un altro film sull'Olocausto ma sulla memoria” come sottolinea il regista Roberto Faenza. Tratto dal libro “Quanta stella c'è nel cielo” di Edith Bruck e scritto in collaborazione con Nelo Risi, il film, uscito in pochissime sale italiane il 16 gennaio, nonostante racconti la tragicità dell'esperienza dei campi di sterminio da una prospettiva diversa rispetto a quella usuale, ha già suscitato polemiche. Già la scelta della locandina, alquanto provocatoria, accusa quel tacito tentativo di rimozione della memoria di taluni fatti che contraddistinguerebbe il nostro Paese. E proprio sul tentativo di rimozione si costruisce la trama del film. La protagonista, una giovane ragazza sfuggita ad Auschwitz, non vuole e non può dimenticare l'inferno che ha attraversato anche quando viene accolta a Praga a casa della zia Monika che le impone di non raccontare a nessuno dei campi. Se Anita ha vissuto in prima persona l'esperienza della deportazione, anche gli altri personaggi hanno, ognuno a suo modo, sofferto un dolore che vogliono dimenticare. Dimenticare diventa l'unico modo per continuare a vivere per la zia Monika, per suo marito e per suo cognato Eli. E la rimozione è tanto profonda da indurli a nascondere anche di essere ebrei, a rinnegare la propria natura. Anita che dentro il campo di concentramento ha attraversato non solo il dolore ma anche la morte oltrepassandola non accetta di dimenticare, di fingere. Ricordare le sembra il primo e unico modo di reagire. E si ostina perciò ad affidare le sue storie anche a un bambino, troppo piccolo per capire, o alle pagine di un diario. Ha un immenso bisogno di raccontare, di condividere la sua esperienza e soprattutto la sua sofferenza, quasi che questa potesse essere un monito per chi finge di non sapere o un modo per espiare il senso di colpa che inevitebilmente accompagna ogni sopravvissuto. È un'umanità dolente quella che circonda Anita, fatta di persone che vogliono ricominciare a vivere e che si trovano però a fare i conti con quel destino di sopravvisuti reso amaro e doloroso da un senso di colpa che corrode e dal quale è impossibile liberarsi definitivamente. Così come diventa impossibile, nonostante gli sforzi, dimenticare il passato che continua ad abitare il presente, ad occuparlo fino ad estendere la sua ombra possente sul futuro. Ed è proprio al passato che Anita rivolgerà le speranze future, completando così il suo percorso. Quello che sottende alla protagonista è infatti un romanzo di formazione che tuttavia non appare sviluppato del tutto. Il personaggio rimane a tratti non ben definito, come indefiniti rimangono i contorni tra le diverse immagini del film, tra le figure che a vario titolo intervengono nella vita di Anita.
I temi che l'intreccio tenta di sviluppare sono molteplici e forti: l'elaborazione di un lutto impossibile da dimenticare, il ricordo di una tragedia che condiziona le vite di chi ad essa sopravvive, l'impossibilità di fare il male dopo averlo ricevuto. Forse però proprio l'aver lavorato su diversi filoni di narrazione non ha permesso di svilupparne nessuno con una profondità tale da rendere il film significativo e realmente “innovativo”. Il rischio di cadere nella banalità era alto e a tratti effettivamente vi cade. Sarebbe forse stato sufficiente scegliere di sviscerare un solo tema. Sarebbe stato molto interessante lavorare sul contrasto tra due diversi modi di sopravvivere alla tragedia. Quello di chi cerca di ricominciare a vivere dimenticandola, fingendo che non sia accaduto niente, e quello di chi invece nel ricordo individua il primo e unico modo di reagire. Il primo è l'atteggiamento scelto dalla zia Monika, l'altro quello di Anita che non vuole e non può accettare di essere una “ragazza senza storia”. Rimane comunque lodevole il tentativo di Faenza di guardare all'olocausto con un punto di vista diverso dal solito, puntando l'obiettivo non sulla tragedia in sé, ma sugli effetti che questa produce, sulla sofferenza che provoca e sull'insegnamento che lascia in chi è capace di accoglierlo.
di Aretina Bellizzi
di Roberto Faenza
con Eline Powell, Robert Sheehan, Andrea Osvart, Antonio Cupo, Nico Mirallegro
Italia, 2013
genere, drammatico
durata, 88
Anita B. “non è un altro film sull'Olocausto ma sulla memoria” come sottolinea il regista Roberto Faenza. Tratto dal libro “Quanta stella c'è nel cielo” di Edith Bruck e scritto in collaborazione con Nelo Risi, il film, uscito in pochissime sale italiane il 16 gennaio, nonostante racconti la tragicità dell'esperienza dei campi di sterminio da una prospettiva diversa rispetto a quella usuale, ha già suscitato polemiche. Già la scelta della locandina, alquanto provocatoria, accusa quel tacito tentativo di rimozione della memoria di taluni fatti che contraddistinguerebbe il nostro Paese. E proprio sul tentativo di rimozione si costruisce la trama del film. La protagonista, una giovane ragazza sfuggita ad Auschwitz, non vuole e non può dimenticare l'inferno che ha attraversato anche quando viene accolta a Praga a casa della zia Monika che le impone di non raccontare a nessuno dei campi. Se Anita ha vissuto in prima persona l'esperienza della deportazione, anche gli altri personaggi hanno, ognuno a suo modo, sofferto un dolore che vogliono dimenticare. Dimenticare diventa l'unico modo per continuare a vivere per la zia Monika, per suo marito e per suo cognato Eli. E la rimozione è tanto profonda da indurli a nascondere anche di essere ebrei, a rinnegare la propria natura. Anita che dentro il campo di concentramento ha attraversato non solo il dolore ma anche la morte oltrepassandola non accetta di dimenticare, di fingere. Ricordare le sembra il primo e unico modo di reagire. E si ostina perciò ad affidare le sue storie anche a un bambino, troppo piccolo per capire, o alle pagine di un diario. Ha un immenso bisogno di raccontare, di condividere la sua esperienza e soprattutto la sua sofferenza, quasi che questa potesse essere un monito per chi finge di non sapere o un modo per espiare il senso di colpa che inevitebilmente accompagna ogni sopravvissuto. È un'umanità dolente quella che circonda Anita, fatta di persone che vogliono ricominciare a vivere e che si trovano però a fare i conti con quel destino di sopravvisuti reso amaro e doloroso da un senso di colpa che corrode e dal quale è impossibile liberarsi definitivamente. Così come diventa impossibile, nonostante gli sforzi, dimenticare il passato che continua ad abitare il presente, ad occuparlo fino ad estendere la sua ombra possente sul futuro. Ed è proprio al passato che Anita rivolgerà le speranze future, completando così il suo percorso. Quello che sottende alla protagonista è infatti un romanzo di formazione che tuttavia non appare sviluppato del tutto. Il personaggio rimane a tratti non ben definito, come indefiniti rimangono i contorni tra le diverse immagini del film, tra le figure che a vario titolo intervengono nella vita di Anita.
I temi che l'intreccio tenta di sviluppare sono molteplici e forti: l'elaborazione di un lutto impossibile da dimenticare, il ricordo di una tragedia che condiziona le vite di chi ad essa sopravvive, l'impossibilità di fare il male dopo averlo ricevuto. Forse però proprio l'aver lavorato su diversi filoni di narrazione non ha permesso di svilupparne nessuno con una profondità tale da rendere il film significativo e realmente “innovativo”. Il rischio di cadere nella banalità era alto e a tratti effettivamente vi cade. Sarebbe forse stato sufficiente scegliere di sviscerare un solo tema. Sarebbe stato molto interessante lavorare sul contrasto tra due diversi modi di sopravvivere alla tragedia. Quello di chi cerca di ricominciare a vivere dimenticandola, fingendo che non sia accaduto niente, e quello di chi invece nel ricordo individua il primo e unico modo di reagire. Il primo è l'atteggiamento scelto dalla zia Monika, l'altro quello di Anita che non vuole e non può accettare di essere una “ragazza senza storia”. Rimane comunque lodevole il tentativo di Faenza di guardare all'olocausto con un punto di vista diverso dal solito, puntando l'obiettivo non sulla tragedia in sé, ma sugli effetti che questa produce, sulla sofferenza che provoca e sull'insegnamento che lascia in chi è capace di accoglierlo.
di Aretina Bellizzi
C'era una volta a New York
C'era una volta a New York (The Immigrant)
di James Gray
con Marion Cotillard, Joaquin Phoenix, Jeremy Renner
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 120'
Ewa e Magda sono due sorelle di provenienza polacca che sbarcano negli Stati Uniti, ma appena arrivate a destinazione vengono separate a causa della tubercolosi di Magda, che viene messa in quarantena. Ewa viene trascinata inerme nel mondo della prostituzione sotto l’ala protettiva di Bruno Weiss, show-man magnaccia.
Dopo la raffinata trasposizione di Dostoevskij in "Two Lovers", James Gray torna alla regia tentando di dipingere un melodramma d’epoca, dove il tentativo di riconciliazione con la sorella diviene motore e metafora di tutta la vicenda. Ottimo il reparto fotografico, che colora la pellicola trasformandola in una fotografia ocra e consumata dal tempo, come ottima l’interpretazione di Marion Cotillard; come sempre sublime la presenza di Joaquin Phoenix, che si conferma uno dei migliori attori della sua generazione, se non il migliore. Tutto questo però non basta a salvare un film che riporta molti difetti, specie in fase di scrittura, dove gli errori non sono colmabili nemmeno dalle grandi interpretazioni di cui si parlava prima, i passaggi sono frettolosi e la regia spesso passa dall’essere delicata all’essere anonima. Completamente privo di ritmo, il film tende ad annoiare facilmente.
Ci sono i buoni propositi, il tema della fede e del perdono, la redenzione di una donna che abbraccia il peccato solo per riabbracciare la sorella, l’uomo/contraddizione che innamorandosi migliora sé stesso ma peggiora la sua stessa vita, la metafora (resa inutilmente esplicita) dell’illusione infranta del sogno americano. Il finale impeccabile non può reggere il peso di un film che fa acqua da tutte le parti.
di Antonio Romagnoli
di James Gray
con Marion Cotillard, Joaquin Phoenix, Jeremy Renner
Usa, 2013
genere, drammatico
durata, 120'
Ewa e Magda sono due sorelle di provenienza polacca che sbarcano negli Stati Uniti, ma appena arrivate a destinazione vengono separate a causa della tubercolosi di Magda, che viene messa in quarantena. Ewa viene trascinata inerme nel mondo della prostituzione sotto l’ala protettiva di Bruno Weiss, show-man magnaccia.
Dopo la raffinata trasposizione di Dostoevskij in "Two Lovers", James Gray torna alla regia tentando di dipingere un melodramma d’epoca, dove il tentativo di riconciliazione con la sorella diviene motore e metafora di tutta la vicenda. Ottimo il reparto fotografico, che colora la pellicola trasformandola in una fotografia ocra e consumata dal tempo, come ottima l’interpretazione di Marion Cotillard; come sempre sublime la presenza di Joaquin Phoenix, che si conferma uno dei migliori attori della sua generazione, se non il migliore. Tutto questo però non basta a salvare un film che riporta molti difetti, specie in fase di scrittura, dove gli errori non sono colmabili nemmeno dalle grandi interpretazioni di cui si parlava prima, i passaggi sono frettolosi e la regia spesso passa dall’essere delicata all’essere anonima. Completamente privo di ritmo, il film tende ad annoiare facilmente.
Ci sono i buoni propositi, il tema della fede e del perdono, la redenzione di una donna che abbraccia il peccato solo per riabbracciare la sorella, l’uomo/contraddizione che innamorandosi migliora sé stesso ma peggiora la sua stessa vita, la metafora (resa inutilmente esplicita) dell’illusione infranta del sogno americano. Il finale impeccabile non può reggere il peso di un film che fa acqua da tutte le parti.
di Antonio Romagnoli
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film in uscita 2014,
recensioni
Film in sala da Giovedì 16 Gennaio 2014
NEBRASKA
di Alexander Payne
con Bruce Dern, Will Forte, Bob Odenkirk, Stacy Keach
2013 USA - 110 min - Drammatico
C'ERA UNA VOLTA A NEW YORK
The immigrant
di James Gray
con Marion Cotillard, Joaquin Phoenix, Jeremy Renner, Angela Sarafyan
2013 USA - 119 min - Drammatico
THE COUNSELOR
di Ridley Scott
con Michael Fassbender, Brad Pitt, Cameron Diaz, Penélope Cruz, Javier Bardem
2013 USA - 117 min - Thriller
LO SGUARDO DI SATANA - CARRIE
Carrie
di Kimberly Peirce
con Chloë Grace Moretz, Julianne Moore, Alex Russell
2013 USA - 100 min - Drammatico
ANGRY GAMES - La ragazza con l'uccello di fuoco
The starving Games
di Jason Friedberg, Aaron Seltzer
con Maiara Walsh, Cody Christian, Brant Daugherty, Alexandria Deberry
2013 USA - 83 min - Commedia
ANITA B.
di Roberto Faenza
con Eline Powell, Robert Sheehan, Antonio Cupo, Nico Mirallegro
2014 ITA - Drammatico
LA MIA CLASSE
di Daniele Gaglianone
con Valerio Mastandrea
2013 ITA - 92 min - Drammatico
THE UNKNOWN KNOWN
di Errol Morris
con Errol Morris
2013 USA - 96 min - Documentario
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film in uscita 2014
venerdì, gennaio 17, 2014
CON IL FIATO SOSPESO
di: C.Quatriglio
con: A.Rohrwacher, A.Balestrieri, M.Riondino, G.Aronica
Documentario - ITA 2013 - 35 min
Dove si fissa il punto oltrepassato il quale non e' più possibile discernere con chiarezza l'ambito di un "progresso" oramai tiranno, quindi in primis volubile, dispensato nella mera forma di un accavallarsi esponenziale di risultati numerici, da quello che si era soliti considerare - almeno perché dato ineludibile del quotidiano di ognuno, con i suoi slanci e i suoi rovesci - il retaggio primo, antropologico verrebbe da dire, della conservazione della vita e delle relazioni umane ? Quanta pigrizia mentale, quanta fiducia malriposta, quanto opportunismo senza precauzione e' stato speso nel conformarsi ad un'"idea" - lo "sviluppo", appunto, miglior fraintendimento del suddetto progresso, con a ruota un seguito tanto forzosamente imposto quanto genericamente definito: crescita, incremento, benessere et. - e ad una prassi, ancor più inesorabile nello splendore freddo dei suoi parti, nel rigore contundente della sua "efficienza", del di lei "braccio armato", la Tecnica ?
Per mezzo di questi (e sono solo alcuni) interrogativi che "pulsano" sullo sfondo, "Con il fiato sospeso", già a Venezia 2013, di Costanza Quantriglio - autrice nel 2012 del pluripremiato "Terramatta" - ci mette davanti agli occhi in poco più di mezz'ora e utilizzando linguaggi diversi (una nuova via ? Di certo, il più recente cliché di "cinema del reale" le va stretto), dalla vera e propria opera di finzione, all'inchiesta giornalistica; dalla ricostruzione puntuale dei fatti, al 'journal intime', tutti quei nodi iniziali - ad integrazione di eventi su cui le cronache tendono a sorvolare se non addirittura a passar sopra - riformulandoli in una delle grandi angosce contemporanee: quanto e' diffusa e stratificata la consapevolezza per cui il concetto stesso di "espansione" (tecnologica, economica, finanziaria), l'insindacabilità delle sue logiche, e' arrivato ad insidiare l'incolumita’ umana, portando a compimento quel disperato quanto tragicamente preveggente monito lanciato, tra i non molti, dai CCCP in "Morire" - sembrano passati secoli, e tutti invano - nella forma, ad esempio, di "tu devi scomparire anche se non ne hai voglia", e per non parlare della sinistra trimurti "produci, consuma, crepa" ?
L'abbrivio, giocato sul registro narrativo della reinterpretazione, ci offre il racconto di Stella/Rohrwacher, ricercatrice alla facoltà di Farmacia, della sua attività presso il laboratorio di Chimica e di come tale periodo, col passare del tempo e il sommarsi d'impressioni e repentine evidenze, abbia ingenerato sospetti inerenti la "tossicità ambientale" del luogo di lavoro. Al punto che la morte per cancro di un coetaneo, Emanuele/Riondino - e qui ai innesta la verità documentale tratta dal diario personale di Emanuele Patane', ricercatore all'ateneo di Catania morto nel 2003 (in tempi diversi altri ricercatori hanno subito medesima sorte) si ipotizza per (la legge sta facendo ancora il suo corso) l'esposizione ad agenti letali - scatena un fitto scambio di vedute con l'amica musicista, ex studentessa della stessa università, nonché co-inquilina, Anna/Balestrieri, convinta che sarebbe il caso, per Stella, di lasciar perdere tutto.
Il piano sul quale prende forma l'itinerario sociale ed umano di Stella s'interseca via via sempre più con quello di Emanuele, in specie con le pagine del suo diario lette da una voce tranquilla ma ferma che ripercorre, come fossero le tappe di un progressivo disvelamento, i giorni di un'avventura interrotta: dalla fugace euforia per i fondi messi a disposizione da un grosso nome della galassia farmaceutica, all'aspetto anche routinario di mansioni che non possono prescindere da pazienza e applicazione. Dai dubbi e dalle inquietudini senza immediato esito, al manifestarsi dei sintomi del male (e qui pare di sentire Anne Sexton e la sua "Per l'anno dei folli": "Ho questa paura di tossire/ma non parlo,/la paura della pioggia, la paura del cavaliere/che arriva galoppando nella mia bocca/.../Vedo due sottili righe che mi bruciano rapide giù per il mento"). Il quadro prende così forma e forza e si precisa nell'indagine ravvicinata - gli occhi irrequieti e sempre più sconfortati di Stella; le sue reticenze, le sue incredulità - in cui prevalgono chiaroscuri e toni sfumati; e nelle inquadrature interne ed esterne ai laboratori, in cui la luce artificiale identifica persone ed oggetti con maggiore nettezza ma raggela l'insieme in una sorta di muta e ostile "distanza", come se i neon e i neri, i grigi, i verdi et., parlassero la stessa lingua della "morte al lavoro".
Inseguiti o evocati dalla mdp, intrisi di un lirismo dolente ma antiretorico, i personaggi/testimoni di "Con il fiato sospeso" nella secchezza della loro parabola s'ipostatizzano spontaneamente, senza necessita' di ulteriori sottolineature. Lo scandalo di morti insensate a cui e' sotteso un grumo di questioni decisive rimosse (per quanto ancora ?) si ribadisce nel tentativo di raccontare la sofferenza senza enfasi o facili ricatti. Nell'insistere a comprendere questa realtà che non fa che dire di essere l'unica possibile e non mostra il minimo interesse ad essere compresa, bensì solo assecondata. Ma quello scandalo e quelle domande restano. Comunque. Ed e' anche da qui che si comincia a rispondere.
(Trasmesso di recente - benché alla chetichella - dalla RAI, in un raro guizzo di resipiscenza).
TFK
mercoledì, gennaio 15, 2014
The Counselor-Il procuratore
The Counselor-Il procurator
di Ridley Scott
con Michael Fassbender, Cameron Diaz, Javier Bardem, Brad Pitt
Usa, 2013
genere, thriller
durata, 117'
Un
amore mai sbocciato. Si potrebbe definire in questo modo il sentimento
che ha caratterizzato il connubio tra Hollywood ed i grandi romanzieri
della letteratura americana. Basterebbe pensare ai casi di Raymond
Chandler, ed a quello ancor più eclatante per i drammatici risvolti che
provocò sulla sua tenuta psicologica, di Francis Scott Fitzgerald,
l'autore de "Il grande Gatsby", stritolati dalle regole di un sistema
capace di annichilirne l'ispirazione. Una questione su cui “The
Counselor- il procuratore" si inseriva in maniera prepotente per il
fatto di presentare tra le sue fila uno scrittore come Cormac McCarthy,
considerato tra i più importanti del panorama contemporaneo, e già noto a
questi livelli per aver fornito il libro che ha consentito ai fratelli
Cohen di vincere un meritato Oscar. Rispetto a “Non è un paese per
vecchi” – questo il titolo del testo e poi del lungometraggio di cui
parlavamo poc’anzi-il nuovo film di Ridley Scott presentava il vantaggio
di avere a disposizione McCarthy in veste di sceneggiatore, con un
plot assolutamente originale, non derivato da una stesura preesistente,
ma scritto appositamente per il grande schermo. Un particolare da tener
presente, non tanto per valutare le qualità di scrittura dell’autore, ma
piuttosto per rendere conto della variante rappresentata da un
procedimento che partiva da un insolita premessa.
Per la prima volta
infatti nella carriera di McCarthy la parola e le sue manifestazioni
dovevano rispondere ai requisiti del cinema, un contenitore affascinante
ma complesso per la difficoltà di adattare la parola all’immagine. Per
affrontare la sfida il drammaturgo chiama a raccolta alcuni pezzi forti
del suo repertorio. Al centro della scena c’è infatti una vicenda di
sangue, ed a metterla in moto un protagonista che tenta di forzare gli
eventi rimanendone schiacciato. Il procuratore, uomo senza nome ma dal
forte senso etico (“E’ per questo che piaci alle donne”, gli dice
Reiner, spregiudicato uomo d’affari con cui entrerà in società) è
infatti il tipico rappresentante di un mondo in via d’estinzione, in cui
la visione romantica dell’esistenza e la fede nei valori tradizionali
ha ceduto il passo alla cupidigia ed al nichilismo della natura umana.
Una tentazione che colpisce anche il protagonista, quando nel tentativo
di assicurarsi una vita da sogno decide di gestire un carico di droga
proveniente dal confine messicano per conto di un potente cartello della
malavita. A fargli da intermediario oltre a Reiner (un Javier Bardem
con la solita capigliatura eccentrica) è Westray, habituè del
malaffare che lo mette in guardia sui rischi dell’impresa. Il consiglio
inascoltato si trasforma in una trappola per topi quando la sparizione
del prezioso carico scatena la vendetta di chi è convinto che il
procuratore ed i suoi soci siano i responsabili dell’accaduto.
Efficace come al solito nel far risaltare la fotogenia dei suo attori regalandogli una serie continua di piani medi e ravvicinati che valorizzano la plasticità dei corpi e la loro canonica bellezza, Scott, non riesce a cambiare passo, restituendo l'universo di McCarthy con immagini commerciali, che nella pulizia compositiva e nella patina di una fotografia che esalta i contrasti di colore, poco si addicono ai "luoghi oscuri" dell'artista di Providence. Una mancanza di profondità che appartiene anche al profilo psicologico dei suoi protagonisti, in alcuni casi assolutamente di facciata (il personaggio di Laura, la donna del protagonista intepretata da Penelope Cruz è poco più che un cameo) in altri, parliamo dei cattivi, sintonizzata su una recitazione sopra le righe che toglie ambiguità al villain di Javer Bardem, e finisce per ridicolizzare la spregiudicatezza di Malika, la dark Lady impersonata da Cameron Diaz, tolta alla commedia per una parte che la costringe a scene weirdo, come quella in cui deve mimare un amplesso acrobatico sul parabrezza di una macchina, oppure a sequenze superflue - la conversazione con Laura a proposito delle sue fantasie sessuali e la confessione sui generis -che la vedono impegnata in dialoghi ed azioni che faticano a trovare un senso sul piano della coerenza narrativa. Appesantita da dissertazioni filosofiche che dovrebbero essere il risultato di una speculazione che la vuota formalità del film non riesce a contenere, "The Counselor" non riesce neppure a sfiorare la dialettica tra personaggi ed ambiente, che è motivo fondante della poetica di McCarthy. Così alla fine a prevalere più che il determinismo selvaggio e misterioso del ciclo vitale dell'esistenza è il sensazionalismo truculento e sadico utilizzato per colpire i trasgressori (in termini di stranezza ed efficacia la garrota messa a punto dai sicari ricorda la pistola pneumatica di Cigurh del film dei Cohen) e la sensazione di un turismo cinematografico che chiama in causa, e spiace dirlo, anche la penna di chi l'ha concepito.
martedì, gennaio 14, 2014
Golden Globes 2014: una bellezza tra molti vincitori
Per una stagione
cinematografica che in Italia si è aperta all'insegna delle polemiche e
delle discussioni provocate da un cinema tutto sommato innocuo seppur
ben confezionato - parliamo di Paolo Virzì e del suo "Capitale umano"-
c'è ne un'altra che fatica a concludersi per le munifiche appendici
rappresentate dalle tappe di avvicinamento alla notte degli Oscar che di
fatto premierà buona parte dei film usciti nel 2013. Tra premi grandi e
piccoli il Golden Globe merita un occhio di riguardo rappresentando con il suo palmares l'indicatore più veritiero dei probabili vincitori del massimo premio.
Piu
ecumenico dell'Oscar, da cui lo differenzia una maggiore attenzione al
lato artistico, dovuta al fatto di non essere espressione indiretta
dell'industria hollywodiana ma il risultato delle votazioni della stampa
estera, il Golden Globe ha dalla sua parte un format che divide il cinema in due macrogeneri, prevedendo per ogni categoria (miglior attore, miglior film e così via)
un doppio vincitore, riferito contemporaneamente alla commedia ed al
dramma. Un modo per rivalutare registi ed attori del cinema più leggero,
statisticamente snobbati e costretti a ruoli di contorno, ed invece
qui, almeno per un giorno, elevati al medesimo rango dei colleghi più
"seri", quelli che quasi sempre finiscono per alzare la famosa statuetta.
Non stupisce quindi vedere Leonardo Di Caprio (The Wolf of Wall Street)
giunto al suo quinto film con Martin Scorsese, da lui definito cineasta tra i più grandi di sempre, premiato accanto a Matthew MacConaughey vincitore drammatico per il ruolo di un malato di aids (Dallas Buyers Club), ed assolutamente favorito per il rush finale da un interpretazione costruita a partire dall'evidenza fisica, così come Amy Adams,
miglior attrice di commedia per "American Hustle", a far da spalla alla
predestinata di turno, la bravissima Cate Blanchett di "Blue Jasmine".
Passando poi al premio più importante, quello di miglior film dell'annata l'ex equo incorona "Twelve Years a Slave" il grande deluso della serata, battuto sia nella categoria di miglior regia andato all'Alfonso Cuaron di "Gravity"
capace di fare breccia con una storia di pura suggestione, affidata
quasi interamente ad un unico personaggio (quello interpretato da Sandra
Bullock), che in quella di best actor con Chiwetel Ejiofor, destinato a rientrare prepotentemente in gioco per la politcal correctness dei giurati dell'Academy, ed appunto "American Hustle" di David O'Russel.
L'italia gioisce per il premio come miglior film straniero andato a "La grande bellezza", vincitore di una cinquina molto agguerrita, che però presentava tra le sue punte di diamante un capolavoro come "La vita di Adele" penalizzato dalla scabrosità del tema, ed un altro, "Il passato" realizzato da un regista, Asghar Farhadi, ancora fresco di celebrazioni. Al di là dei pareri discordanti sulla vittoria di un film che aveva diviso fin dal giorno della sua presentazione al festival di Cannes, c'è da dire che se quello di Sorrentino non è il suo film migliore, certamente possiede la mitologia giusta, con quel mix di decadenza e piacionismo, per far digerire agli americani la particolarità dei contenuti. Ricordando che da queste parti i premi funzionano spesso come leggittimazione di un pregistigio costruito altrove. Possiamo essere dunque felici, ed incominciare ad incrociare le dita per una mitica doppietta. Il resto lo lasciamo a chi ne ha voglia.
lunedì, gennaio 13, 2014
Stop the Pounding Heart
Stop the Pounding Heart
di Roberto Minervini
con Sara Carlson, Colby Trichell
Italia, 2013
genere, drammatico
durata, 98'
Essere nello spazio e nel tempo, discenderne in modo tale da risultare una sua propagazione. "Stop the Pounding Heart" di Roberto Minervini non potrebbe esistere senza questa condizione. Tutto nel suo cinema sembra risalire a tale incipit. Il viaggio in America all'inseguimento di un sogno, l'immersione in un paesaggio straniero, dissolvenze esistenziali che si accompagnano ad esigenze materiali. Perché Roberto Minervini non porta sullo schermo il racconto di una vita ma la vita stessa, in un tripudio di immagini che sembrano pagine sparse di un taccuino di viaggio. In questo modo la tipologia stessa del racconto si sviluppa con una consequenzialità non decifrabile, affidata alla volubilità dell'animo umano ed ai sentimenti che lo attraversano. Una famiglia di allevatori impegnati nelle faccende quotidiane, l'obbedienza di una figlia messa alla prova dalle tentazioni mondane, la parola di Dio chiamata a salvare il paradiso perduto. Concentrazioni di senso che Minervini riproduce con una mdp mimetica, che ha la pazienza di aspettare l'attimo propizio, e di andarsi a cercare le occasioni pedinando i personaggi, ascoltandone gli sguardi. Se la progressione dell'intreccio e' impalpabile, per la proposizione di avvenimenti ciclici e ripetitivi, a cambiare con scatti impercettibili e' l'attitudine alla vita di una giovinezza spesa nell'alveo delle consuetudini familiari, e poi sconvolta da un incontro non previsto. Capita così a Sara, figlia maggiore della famiglia Carlson, turbata dalla conoscenza del coetano Colby, allevatore di tori che si mette alla prova gareggiando nei rodei della regione. Ammaestrata dalla parole delle Bibbia e dai precetti della madre che giornalmente si dedica all’istruzione morale della sua prole, la giovane si troverà di fronte al dilemma tra ragione e sentimento.
Sospeso tra cielo e terra “Stop the Pounding Heart” riesce ad essere un film tradizionale ed allo stesso tempo all’avanguardia, grazie ad un dispositivo che da una parte mette a confronto uno dei temi trainanti di tanto cinema classico, e cioè il contrasto tra legge e desiderio, espresso dal sentimento della protagonista che ad un certo punto entra in collisione con i precetti del catechismo religioso. Dall’altra lo traduce con un approccio cinematografico che prende in prestito le regole del cinema del reale - e quindi attori sociali, assenza di una copione precostituito, riprese effettuate riducendo al massimo l’impatto dello strumento cinematografico- per dare vita ad un'opera prosastica e allo stesso tempo lirica , con sequenze come quella del confronto confessione di Sarà con la propria madre che si spingono fino all’interno di un intimità claustrale e privata, alternate ad altre puramente testimoniali, che hanno il loro climax nel parto filiale, ripreso in diretta, e restituito senza esclusione di particolari. L’impatto è forte, quasi ostico nella mancanza di appigli narrativi che possano facilitare la confidenza con i personaggi, e nella trama, che esiste quasi esclusivamente attraverso gli stati dell'anima delle persone che incrociamo sullo schermo.
Poi però qualcosa accade, ed è fatto di gesti e di parole che trovano progressivamente coerenza nell’assoluta purezza delle immagini, tese a riprodurre lo stupore edenico di un mondo improvvisamente orfano dell’antica completezza. Debitore del “Post Tenebras Lux”, ampiamente citato nella scena d’apertura che riprende con minore drammaticità quella che dava inizio al film del regista messicano (peraltro ringraziato nei titoli di coda) “Stop The Pounding Heart” rincorre un cinema etico alla maniera di Terence Malick nel peso (emotivo) affidato ad immagini che si aprono e si richiudono all'universo circostante; ma anche sul piano di una riflessione esistenziale consapevole di una sofferenza che sfugge la logica delle cose, e non risparmia i giusti. Come ricordavano le parole rivolte dal narratore onnisciente al corpo senza vita del soldato giapponese ne “La sottile linea rossa”, qui replicate nel senso del messaggio che la madre indirizza alla figlia, obbediente ma non per questo destinata ad una vita meno angosciante. E poi, ad evitare il rischio di un eccessiva rarefazione, la presenza di passaggi piuttosto consistenti dedicati ai riti comunitari (il tiro a segno, la produzione del formaggio e la sua vendita, la vigilia del rodeo con le sue pratiche propiziatorie), riprodotti con un taglio etnografico che serve a rendere il senso di una condivisione che precede il cinema, e che appartiene all'esperienza del regista, vissuto per più di anno all'interno di quello stesso consesso cittadino diventato successivamente parte integrante della sua opera. "Stop the Pounding Heart" lascia senza fiato, ma quando si torna a respirare l'aria diventa più salubre.
(icinemaniaci.blogspot.com)
di Roberto Minervini
con Sara Carlson, Colby Trichell
Italia, 2013
genere, drammatico
durata, 98'
Essere nello spazio e nel tempo, discenderne in modo tale da risultare una sua propagazione. "Stop the Pounding Heart" di Roberto Minervini non potrebbe esistere senza questa condizione. Tutto nel suo cinema sembra risalire a tale incipit. Il viaggio in America all'inseguimento di un sogno, l'immersione in un paesaggio straniero, dissolvenze esistenziali che si accompagnano ad esigenze materiali. Perché Roberto Minervini non porta sullo schermo il racconto di una vita ma la vita stessa, in un tripudio di immagini che sembrano pagine sparse di un taccuino di viaggio. In questo modo la tipologia stessa del racconto si sviluppa con una consequenzialità non decifrabile, affidata alla volubilità dell'animo umano ed ai sentimenti che lo attraversano. Una famiglia di allevatori impegnati nelle faccende quotidiane, l'obbedienza di una figlia messa alla prova dalle tentazioni mondane, la parola di Dio chiamata a salvare il paradiso perduto. Concentrazioni di senso che Minervini riproduce con una mdp mimetica, che ha la pazienza di aspettare l'attimo propizio, e di andarsi a cercare le occasioni pedinando i personaggi, ascoltandone gli sguardi. Se la progressione dell'intreccio e' impalpabile, per la proposizione di avvenimenti ciclici e ripetitivi, a cambiare con scatti impercettibili e' l'attitudine alla vita di una giovinezza spesa nell'alveo delle consuetudini familiari, e poi sconvolta da un incontro non previsto. Capita così a Sara, figlia maggiore della famiglia Carlson, turbata dalla conoscenza del coetano Colby, allevatore di tori che si mette alla prova gareggiando nei rodei della regione. Ammaestrata dalla parole delle Bibbia e dai precetti della madre che giornalmente si dedica all’istruzione morale della sua prole, la giovane si troverà di fronte al dilemma tra ragione e sentimento.
Sospeso tra cielo e terra “Stop the Pounding Heart” riesce ad essere un film tradizionale ed allo stesso tempo all’avanguardia, grazie ad un dispositivo che da una parte mette a confronto uno dei temi trainanti di tanto cinema classico, e cioè il contrasto tra legge e desiderio, espresso dal sentimento della protagonista che ad un certo punto entra in collisione con i precetti del catechismo religioso. Dall’altra lo traduce con un approccio cinematografico che prende in prestito le regole del cinema del reale - e quindi attori sociali, assenza di una copione precostituito, riprese effettuate riducendo al massimo l’impatto dello strumento cinematografico- per dare vita ad un'opera prosastica e allo stesso tempo lirica , con sequenze come quella del confronto confessione di Sarà con la propria madre che si spingono fino all’interno di un intimità claustrale e privata, alternate ad altre puramente testimoniali, che hanno il loro climax nel parto filiale, ripreso in diretta, e restituito senza esclusione di particolari. L’impatto è forte, quasi ostico nella mancanza di appigli narrativi che possano facilitare la confidenza con i personaggi, e nella trama, che esiste quasi esclusivamente attraverso gli stati dell'anima delle persone che incrociamo sullo schermo.
Poi però qualcosa accade, ed è fatto di gesti e di parole che trovano progressivamente coerenza nell’assoluta purezza delle immagini, tese a riprodurre lo stupore edenico di un mondo improvvisamente orfano dell’antica completezza. Debitore del “Post Tenebras Lux”, ampiamente citato nella scena d’apertura che riprende con minore drammaticità quella che dava inizio al film del regista messicano (peraltro ringraziato nei titoli di coda) “Stop The Pounding Heart” rincorre un cinema etico alla maniera di Terence Malick nel peso (emotivo) affidato ad immagini che si aprono e si richiudono all'universo circostante; ma anche sul piano di una riflessione esistenziale consapevole di una sofferenza che sfugge la logica delle cose, e non risparmia i giusti. Come ricordavano le parole rivolte dal narratore onnisciente al corpo senza vita del soldato giapponese ne “La sottile linea rossa”, qui replicate nel senso del messaggio che la madre indirizza alla figlia, obbediente ma non per questo destinata ad una vita meno angosciante. E poi, ad evitare il rischio di un eccessiva rarefazione, la presenza di passaggi piuttosto consistenti dedicati ai riti comunitari (il tiro a segno, la produzione del formaggio e la sua vendita, la vigilia del rodeo con le sue pratiche propiziatorie), riprodotti con un taglio etnografico che serve a rendere il senso di una condivisione che precede il cinema, e che appartiene all'esperienza del regista, vissuto per più di anno all'interno di quello stesso consesso cittadino diventato successivamente parte integrante della sua opera. "Stop the Pounding Heart" lascia senza fiato, ma quando si torna a respirare l'aria diventa più salubre.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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