El abrazo de la serpiente
di, C.Guerra
con, J.Bijovet, N.Torres, A.Bolivar Salvador, B.Davis, Y.Miguee.
Colombia 2015
durata, 125'
Ciò che Léry, Staden, Thenet videro allora, i nostri occhi non lo vedranno mai più. Le civiltà che studiarono per primi si erano sviluppate in direzioni diverse dalle nostre e non avevano raggiunto la pienezza né la perfezione compatibile con la loro natura, mentre le società che noi possiamo studiare oggi - nelle condizioni che sarebbe illusorio confrontare con quelle di quattro secoli fa - non sono più che corpi indeboliti e forme mutilate. Malgrado le enormi distanze e ogni genere d'intermediari (di una bizzarria spesso sconcertante quando si arriva a ricostruirne la catena), esse sono state annientate da quel mostruoso e incomprensibile cataclisma che fu, per una tanto larga e innocente frazione dell'umanità, lo sviluppo della civiltà occidentale; questa non dovrebbe dimenticare che il suo sviluppo le ha dato un secondo volto, non meno vero e indelebile dell'altro. L'osservazione (questa, come le sparute altre a seguire) annotate da Lévi-Strauss a mo' di riflessione collaterale al personale ciclo di esplorazioni amazzoniche, può ancora sovrapporsi alle periodiche rievocazioni - genericamente artistiche - inerenti un ambiente fisico e spirituale al punto vasto e stratificato da corrispondere ai connotati di un vero e proprio mondo a parte, sebbene sempre più insidiato (Vista dal di fuori, la foresta amazzonica sembra un ammasso di ribollimenti solidificati, un cumulo verticale di rigonfiamenti verdi; si direbbe che un disordine patologico abbia ovunque afflitto il paesaggio fluviale. Ma quando si rompe l'involucro e si penetra al di dentro, tutto cambia; vista dall'interno questa massa confusa diventa un universo monumentale. La foresta cessa d'essere un disordine terrestre; si potrebbe considerarla un nuovo mondo planetario, ricco come il nostro e che dovesse sostituirlo). In più, l'argomentare dello studioso belga, con metodo ancorato ai criteri dell'indagine scientifica sul campo ma non refrattario alla constatazione circa un regolare e significativo fluire di suggestioni, di rimandi, di analogie, d'immagini discordi con la perentorietà dell'analisi epperò fondamentali allo stabilizzarsi di quella compiutezza che siamo soliti abbinare al significato più autentico del termine conoscenza, fa capolino più d'una volta dal corpo ingannevolmente quieto di un'opera come "El abrazo...", liberamente tratta - nei modi e nelle forme di uno scivoloso ma intrigante andirivieni tra finzione e documento etnografico stilizzato - dai diari dell'etnologo tedesco Theodor Koch-Grunberg/Bijovet e da quelli dell'etno-botanico statunitense Richard Evans Schultes/Davis, a coprire poco più di un trentennio a cavallo degl'inizi del secolo scorso e incentrata sul doppio binario di una spedizione in territorio colombiano - sul corso del fiume Yarì - le cui tracce vengono dissepolte e riutilizzate allo scopo di confermare o smentire l'esistenza di un vegetale dai singolari poteri officinali, la Yakruna, per il tramite di una medesima figura, Karamakate/Torres (giovane), Bolivar (adulto), solitario epigono di una genìa decimata da uno degli innumerevoli effetti associati della colonizzazione - nel caso, la guerra del caucciù -; intransigente custode di cosmogonie arcane quanto rimosse da un'obliata pratica del sogno come reminiscenza simil platonica di un sapere innato ma, per un misterioso contrappasso, sfuggente, quindi inattingibile e non più trasmissibile, che sembra (per motivi al nostro inconscio fin troppo noti) affliggere anche i perplessi interlocutori europei. Colui-che-muove-il-mondo, Karamakate, all'inizio restìo a qualunque collaborazione (I soldi piacciono alle formiche. Per me non hanno un buon sapore), indi Caronte spesso taciturno ma vigile, latore di spicce lezioni di pragmatismo, di rispetto, nonché spina nel fianco d'oramai stantii riflessi condizionati (Perché a voi bianchi piacciono tanto gli oggetti ?).
Dove si pone il limite tra l'utilizzo di una qualunque risorsa e la sua razzìa ? Come l'opportunismo del più forte si sedimenta entro i recessi più riposti di una Cultura fino al punto di farle ritenere naturale la negazione al riconoscimento e all'unicità di altre ? Qual è il vero rigore ? Quello scientifico, che ordina a partire da leggi perennemente soggette a conferma e revisione, o quello modellato da secoli di adeguamamenti progressivi a eterni ritorni che, paragonati al compiersi della parabola umana, possono dirsi immutabili ? E ancora: è proprio vero che tutto ciò che non cade sotto la nostra diretta osservazione (a dire, oggi come oggi, sovente, sotto l'inesausto principio di manipolazione generalizzata che guida noi occidentali) è sic et simpliciter inutile e non ci riguarda ? Come riappropriarsi, infine, di una dimensione dell'esistenza che tenga conto dei legami e dei rapporti che saldano l'uomo al suo tempo - come somma non solo meccanica ma emotiva - agl'insegnamenti, agli stupori e alle costruzioni dell'intelletto e dello spirito di coloro che lo hanno preceduto ? Gli appena elencati sono solo alcuni degl'interrogativi che riposano sul fondo di un film come "El abrazo...", insinuanti e infidi, come le anse del fiume - egli stesso serpente tra le maglie compatte della Terra; arteria di un sistema circolatorio in cui transitano non solo corpi ma fioriscono e si rinnovano leggende, miti, visioni, magie, racconti - che Theo ed Evan, in momenti diversi, risalgono/ridiscendono con Karamakate alla ricerca di qualcosa di cui la Yakruna è solo il simbolo più esteriore e paradigmatico ma che rimanda senza posa all'oscurità e al vuoto (Theo ed Evan provati e confusi si sentono svuotati dall'irriducibilità di un mondo allo stesso tempo compatibile per fisiologia eppure alieno/ostile alle coordinate di un pensiero razionale che presume di controllarlo studiandolo/fraintendendolo; Karamakate afferma più volte di essere un Chullachaqui, un guscio vuoto: Una volta le rocce mi parlavano. La linea si è spezzata. I ricordi sono svaniti. Le rocce, gli alberi, gli animali sono diventati silenziosi. Adesso sono vuoto. Sono un chullachaqui), in cui ogni uomo galleggia stranito al momento di riconoscere come instabile, se non traditore o persino putrescente, il terreno in cui affondano le radici delle sue convinzioni. L'asimmetria inquieta in cui si dibattono la Ragione (Non posso privarmi della bussola, mi serve, afferma Theo stizzito) e la Sapienza, benché quasi del tutto orfana del contesto che l'ha resa possibile (Ogni fiore, ogni pianta ogni albero è pieno di saggezza, osserva intento Karamakate), vibra sempre sulla lunghezza d'onda di un irreparabile pronto a mutarsi in follia (il tragico esperimento religioso calato a freddo nel cuore caldo delle comunità amazzoniche: ... missionari che, col Servizio di protezione, sono riusciti a porre fine ai conflitti fra indiani e coloni, hanno condotto allo stesso tempo eccellenti inchieste etnografiche e un metodico sterminio della cultura indigena) o in violenza cieca, se non viene sostenuto, dice Guerra per il tramite di Karamakate, dall'ascolto (Il mondo parla ma tu non ascolti). Ascolto a cui ci si deve predisporre con un'intenzione di apertura verso ciò che non si esaurisce entro la concatenazione pedissequa dei fatti ma allude all'intuizione, al presentimento, all'allegoria, alla logica ardita che fonde la memoria-del-mondo, il suo sentimento, al vissuto personale, per cui non risulta poi così velleitario maneggiare il sogno come uno strumento più vero del vero, e la cui epifania può anche assumere la foggia imprevedibile di un cerimoniale di farfalle (Sognare in silenzio chi si è veramente. Ci si può perdere. Ma coloro che riescono possono affrontare qualsiasi cosa).
Impreziosito - eccetto che per la sequenza della rivelazione originaria risolta come un fascio di colori vividi espansi - da uno smagliante b/n opera di D.Gallego, a suo agio nel restituire (ed è un paradosso solo in apparenza), la varietà, la pesantezza, l'elusività dell'organismo lussureggiante; con qualche ovvia concessione all'accessibilità nella concatenazione dei dialoghi ritmati sul gergo locale, irruzioni di spagnolo ed episodici intarsi portoghesi, il lavoro di Guerra configura il suo abbraccio non tanto e non solo come immanenza del divino nello svolgersi della Storia e al culmine di un travagliato itinerario di purificazione (non a caso l'Officina degli Dei è posta in un angolo remoto della foresta e del fiume), quanto nell'approssimarne i confini (quindi la sua esperibilità e il suo valore) entro il quotidiano interiore del singolo, in una continuità di gesti, di tortuosi peripli dell'apprendimento e della consapevolezza, di proiezioni dell'immaginazione, che assottigliano, di fatto, le distanze tra passato e presente, tra differenze culturali, mostrando (al pari proprio di Lévi-Strauss: Nessuna società è perfetta... dal momento che l'autorità dell'uomo sulla natura era molto ridotta, egli si trovava protetto - e in un certo senso affrancato - dal cuscino ammortizzatore dei suoi sogni. A mano a mano che questi si trasformavano in conoscenza, il suo potere si è accresciuto; ma mettendoci - se così si può dire - in presa diretta con l'universo, questo potere di cui siamo tanto orgogliosi che cos'è in verità, se non la coscienza oggettiva d'una progressiva saldatura dell'umanità con l'universo fisico, i cui grandi determinismi agiscono ormai non più come estranei e temibili, ma, per tramite dello stesso pensiero, come colonizzatori a profitto di un mondo di cui noi tutti siamo divenuti gli agenti ?) la trama comune di un destino solo geograficamente distante, in realtà eminentemente e profondamente umano, nonostante la conclamata e irredimibile tristezza di tutti i Tropici.
TFK
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